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17/2/2010

Google, la Cina e il futuro della libertà nell'Internet globale
di Rebecca MacKinnon

Tradotto da Tamara Nigi per Voci Globali su La Stampa.it

Post originale: Google, China, and the future of freedom on the global Internet.
Tratto da: Rconversation: Rebecca MacKinnon riporta e commenta (in lungo e in largo) su Cina , USA e globalità, libertà di parola online e Internet governance

Sarà che ho studiato scienze poliche anziché scienze informatiche. Però onestamente mi ha stupita l'accanimento di certi illustri commentatori nel cassare Google perché mancherebbe di purezza d'intenti. Ma che rivelazione folgorante. È ovvio che Google agisca sospinto da interesse di parte. L'interesse di parte è questione complessa, e non solo in senso economico. Conosco di persona parecchia gente che lavora per Google in diverse parti del mondo, anche a un certo livello della gerarchia, e per quanto ne capisco, la serenità interiore dei fondatori, e di molti altri decisori in azienda, sta tutta nella convinzione che Google sia una forza che opera per il bene nel mondo. Se questa convinzione sia del tutto o solo in parte illusoria è da vedere (un utile quadro su questo fronte ce lo offre Ken Auletta con il suo recente libro su Google). Ma diciamoci la verità.

Quanta gente sul pianeta fa le cose in maniera disinteressata? Se per avere una società giusta, aperta e libera dovessimo contare sulla purezza di intenti... che Dio ci aiuti!

Se i dirigenti di aziende come Google decidono di prendere pubblicamente posizione sulla censura e il controllo online è perché ciò è di loro interesse, e si muovono a favore della libertà di informazione e della cultura aperta, il fatto è positivo a prescindere dalle più autentiche e recondite motivazioni, per la cui comprensione, in ogni caso, servirebbero anni di psicoanalisi agli stessi interessati.

Vero, Google si può cassare perché non è gestito da una congrega di Madri Terese. Si potrà poi procedere a cassare anche il governo degli Stati Uniti perché la retorica declamatoria del sostegno per un'Internet libera in tutto il mondo cela una certa dose di pragmatismo—e fors'anche un certo quoziente di ipocrisia e cinismo. A fare così non si sbaglia. Ma se ci preme proporre qualcosa che vada oltre l'arguzia utile a incrementare il traffico in Rete o a vendere libri, l'attrattiva di una tale tesi ben presto decade. Ovvietà a parte, quel che più conta, per me, è chiedersi cosa dovrebbero fare i netizen che vogliono un'Internet più aperta e libera in tutto il mondo.

Io un'idea ce l'avrei: perché non applicarsi a potenziare al massimo gli incentivi per un numero crescente di dirigenti e capi di governo affinché promuovano un'Internet libera e aperta a livello globale - per ragioni egoistiche, come la reputazione del marchio, la quota di mercato, il mantenimento degli utili nel tempo, il consenso elettorale, la legittimazione politica, la competitività sul piano economico e il peso geopolitico? Un quadro di come Google percepisca i propri interessi di lungo periodo arriva dalle recenti dichiarazioni, attività e vertenze legali dell'azienda non connesse alla Cina o ai Paesi autoritari in genere. Ne è un esempio il lungo messaggio rivolto ai dipendenti di Google, dal titolo "The meaning of open", pubblicato il 21 dicembre 2009 sul blog Google Policy [in] dallo stesso Rosenberg, che di Google è Vice Presidente anziano e responsabile sviluppo prodotti.

Ecco cosa scrive, fra le altre cose: «I sistemi chiusi sono ben definiti e redditizi, ma solo per chi ne abbia il controllo. I sistemi aperti sono caotici e redditizi, ma solo per chi li comprende bene e si muove più rapido degli altri. I sistemi chiusi crescono rapidamente, mentre i sistemi aperti evolvono con maggior lentezza, pertanto, scommettere su quelli aperti richiede ottimismo, volontà e mezzi che consentano di pensare in prospettiva. Per fortuna, in Google, li abbiamo tutti e tre.»

E conclude così: «Vincerà l'aperto. Vincerà nella rete riversando poi i suoi vantaggi in altri ambiti dell'esistenza. Il futuro dei governi è la trasparenza. Il futuro del commercio è la simmetria dell'informazione. Il futuro della cultura è la libertà. Il futuro della scienza e della medicina è la collaborazione. Il futuro dell'intrattenimento è la partecipazione. Ciascuno di questi futuri dipende da un'internet aperta.»

Per la riuscita delle sue attività globali, Google scommette su un'Internet aperta. Tutto risulta molto più chiaro se l'ultima mossa di Google in Cina la si analizza a partire dalle tendenze globali delle politiche su Internet, e non solo nell'ottica della politica cinese, o del rapporto fra Cina e Occidente. Dal punto di vista aziendale, per Google non solo è sensato opporsi alla censura, ma lo è anche assumere un ruolo attivo adoperandosi per influenzare le politiche globali, le leggi e le pratiche comunitarie che promuovono l'apertura. Nell'anno appena trascorso Google è stato sempre più esplicito sul tema della censura, e non solo in Paesi autoritari come la Cina. In questo suo intervento il direttore delle Politiche Pubbliche di Google, Bob Boorstin, critica il tentativo del governo australiano di censurare Internet nel Paese.

Poco più sotto, sempre sul blog Google Policy, c'è un intervento del 14 dicembre su un seminario anticensura tenuto in azienda, in cui Ron Diebert della Open Net Initiative illustra come la censura di Internet vada diffondendosi in tutto il mondo. Al seminario erano presenti anche alcuni dei più affermati "hacktivisti" del pianeta, come Nart Villeneuve e Greg Walton, la cui missione nella vita è quella di aiutare gli utenti di Internet, in ogni parte del mondo, a eludere la censura e sfuggire alla sorveglianza. Ora che in Cina Google ha preso pubblicamente una posizione diversa, l'amico e co-fondatore di Global Voices, Ethan Zuckerman, confida nell'impegno sempre più attivo e diretto dell'azienda nel sostenere, sviluppare e finanche ospitare gli strumenti che la gente userà per eludere la censura. «Un sistema anticensura appoggiato da Google— scrive Ethan—sarebbe di gran lunga più potente (e persuasivo!) rispetto ai sistemi che conosciamo oggi.»

Per le posizioni assunte in politica aziendale, Google negli USA si trova spesso allineato con gli attivisti che difendono la libertà di parola e con la community della cultura libera e open source, a loro volta impegnati nel contrastare aziende di media e telecomunicazione tradizionali nelle campagne legate al diritto d'autore, alla neutralità della Rete, al nefasto, inaccessibile e inquietante patto ACTA [il trattato Anti-Counterfeiting Trade Agreement attualmente in discussione in vari Paesi], e questioni analoghe. In Italia, per esempio, i dirigenti di Google devono difendersi da accuse penali, perché il governo intende attribuire alle aziende Internet come Google una responsabilità più diretta per l'uso dei vari servizi da parte degli utenti, incentivando a livello globale una tendenza che sfocerebbe nell'obbligo, a carico delle società del settore, di ampliare enormemente la portata di tracciamenti, controlli e interventi censori operati sugli utenti, fatto che a sua volta non solo avrebbe gravi implicazioni per i diritti umani e la libertà di espressione, ma farebbe decisamente lievitare i costi fissi di tali aziende, rendendone molto meno sostenibile il modello imprenditoriale.

Ma il problema non investe solo l'Italia. Allarmati dalla pirateria, dal cyber-bullismo, dalla pornografia infantile e da altri problemi, gli organi giudiziari e legislativi di tutte le democrazie del mondo vanno orientandosi verso l'attribuzione di un maggior carico di responsabilità agli intermediari delle aziende Internet. I reati devono essere puniti, non sto certo dicendo il contrario, però con il rimedio citato si getta via il bambino con l'acqua sporca. Come risulta da questo esemplare documento del Center for Democracy and Technology, le probabilità che l'aumento del carico di responsabilità per gli intermediari favorisca la libertà di espressione, i diritti umani e un'Internet libera e aperta sono da scarse a nulle. Questa la ragione per cui Google e gli attivisti della libertà di espressione si oppongono alla responsabilità a carico degli intermediari. Ma siamo così sprovveduti da credere che Google faccia quello che fa per altruismo? No. La responsabilità a carico degli intermediari ne danneggia il business model. Non guasta però avere un alleato potente su questo fronte. Per contro, azioni, dichiarazioni e politiche di Google in materia di privacy non collimano altrettanto con quelle degli attivisti delle libertà civili e dei diritti umani.

Ne sa qualcosa l'Electronic Privacy Information Center, che ha intentato azioni legali e presentato ufficiali rimostranze contro Google presso le autorità competenti per la mancata difesa della privacy in servizi quali cloud computing, Google Books e simili. Poi, verso la fine dell'anno scorso, c'è stata quell'infelice battuta dell'amministratore delegato Eric Schmidt alla CNBC: «Se c'è qualcosa che non volete far sapere a nessuno, forse non è il caso di farla.» Un messaggio tremendo, spaventoso, per un attivista cinese impegnato nella tutela dei diritti umani che, come tanti altri, si avvale di Gmail, Google Gruppi e Google Documenti. La squadra di Google che si occupa di queste emergenze ha spiegato che Schmidt si riferiva solo al Patriot Act e comunque più in generale non intendeva sminuire il problema. Ma di sicuro non è quanto si era capito, e la cosa invece ha sollevato molte legittime preoccupazioni sull'atteggiamento di Google verso la privacy. Le dichiarazioni pubbliche sui cyber-attacchi subiti per mano dei cinesi e sulla disponibilità a lasciare il Paese qualora servisse a proteggere gli utenti Gmail, non possono che giovare alle pubbliche relazioni di Google e al recupero di fiducia presso il pubblico, dopo le problematiche osservazioni di Schmidt, e ciò a prescindere dalla sicurezza che gli utenti Gmail potranno realmente trarre da come verrà gestita la situazione, visto che nessuno dei server Gmail è mai stato ubicato in Cina (oppure l'attacco voleva implicare che qualcuno avesse agito dall'interno?).

Ciò detto, ben venga la presa di posizione di Google contro un governo cinese mandante degli attacchi agli utenti più vulnerabili di Gmail, se questo sortirà misure che renderanno più sicuri e riservati i servizi Google di cloud computing, peraltro insufficientemente protetti. A esacerbare il problema, però, potrebbero essere stati, paradossalmente, gli standard previsti dal Patriot Act sulle backdoor di sorveglianza. Se tuttavia si finirà per ricadere nella psicosi generale dell'attentatore con la bomba negli slip, concedendo poteri ancora più ampi agli organi di sicurezza USA per analizzare i dati degli utenti di Google - e con controlli e garanzie da parte degli organi giudiziari, del congresso e del pubblico, ancor più ridotti di quelli previsti dal FISA e dal Patriot Act - beh, questo farà molto male alla libertà di parola, alla democrazia e anche a una rete globale libera e aperta. Temo che il secondo di questi esiti sia il più probabile, a giudicare dall'enfasi che si registra presso i politici americani, e dall'atteggiamento che vado cogliendo nei servizi dei media. Ma il vero problema che si pone, nel caso di Google, non è che cosa farà, né in che misura andrà ad allinearsi con i difensori delle libertà civili, con i gruppi che promuovono la libertà di espressione e con gli attivisti dei diritti umani.

Il vero problema che si pone è come Google si proporrà fautore di una rete libera e aperta, ponendosi alla guida mondiale di questa causa, e come in seguito dirà: "dateci fiducia, siamo gente per bene, operiamo nel vostro interesse". E quindi dovremmo semplicemente fidarci. Ma in quale circostanza di governance umana è mai convenuto farlo, e quale ragione specifica ci indurrebbe a credere che sia questa la volta buona? Che Google sia amministrato da umanoidi anziché da umani?

A mettere il dito nella piaga è stata l'attivista per la privacy Katitza Rodriguez in un recente scambio di posta elettronica parlando delle ripercussioni che avrà la mossa cinese di Google (cito con il suo consenso): "La decisione di Google in Cina non basta a fugare le inquietudini negli altri paesi per il suo crescente dominio su Internet".

Nei giorni scorsi Jeff Jarvis, Siva Vaidhyanathan, e il New York Times hanno raccontato da diverse angolazioni come nella sua ultima avventura il ruolo di Google sia stato simile a quello di uno Stato. Scrive Siva, di cui è in uscita il libro "The Googlization of Everything": «Internet coinvolge una tale varietà di interessi e attori da richiedere una governance. Ma non esistono Stati tradizionali che siano in grado o disposti ad assumere questo ruolo. Così Internet viene governata da Google. È una prova di forza che si può leggere (come faccio io) come il classico conflitto di potere, sulla scena internazionale, fra uno Stato tradizionale e un nuovo Stato virtuale: Googlenet. In ogni caso, nel difendere Internet, Google sta assumendo una posizione di rischio. Se minacciato, uno stato debole fa così.»

Bene, se io come governo dovessi scegliere tra Partito Comunista Cinese e Google, saprei in una frazione di secondo che cosa fare. Ma sarebbe come scegliere fra due re - si opta per quello che ci sembra più benevolo incrociando le dita. Personalmente, preferirei avere una terza opzione.

Le società che godono del più alto livello di libertà, apertura e giustizia non sono fatte così perché i leader che si scelgono sono gli individui moralmente più esemplari sulla piazza, o perché i cittadini che le abitano hanno innato un tasso di bontà maggiore e di cattiveria minore rispetto ad altri. Sono diventate quello che sono grazie a istituzioni, meccanismi e norme collettive concepiti per promuovere comportamenti destinati ad accrescere libertà, apertura, e giustizia - a prescindere dagli eventuali intenti egoistici dei potenti. Questo spiega perché le società più libere, aperte e giuste coincidano con le democrazie parlamentari e non con le dittature benevole, né con le teocrazie, le dittature del proletariato, e neppure con le autocrazie burocratico-patriarcali governate da sapienti élite educatesi alla scuola morale dei saggi dell'antichità. In democrazia si suppone che il potere - anche se in mano ai soggetti più capaci e mossi dalle migliori intenzioni - sia sempre in grado di corrompere . Quindi il potere non deve mai essere assoluto, ma sempre soggetto al vincolo di un forte controllo pubblico e di meccanismi di garanzia e trasparenza.

Come nel caso di tante altre aziende di telecomunicazione e Internet, e di chiunque crei, ospiti o attivi contenuti e applicazioni sul web, anche tutta la gamma dei diffusissimi servizi di Google è artefice di quel neo luogo virtuale che tutti chiamiamo "cyberspazio" e nel quale si estrinseca ormai l'attività umana sul piano globale. Di questo spazio, in cui gli utenti di Internet esplicano una quota crescente di attività, Google gestisce o controlla quote sempre più rilevanti. Il potere che Google esercita sulla nostra libertà somiglia a quello di un governo, e ha quindi conseguenze concrete sulla libertà in senso fisico, nel così detto meatspace, come evidenzia bene il caso cinese. Pertanto, verso la collettività degli "utenti" o, per meglio dire, gli "abitanti" o "cittadini" della quota di cyberspazio che controlla, Google ha responsabilità affini a quelle di un governo. Sono responsabilità diverse e più complesse rispetto a quelle convenzionali di un'impresa nei confronti della generalità dei clienti che ne acquistano prodotti e servizi.

Gli standard di garanzia, controllo e consenso popolare cui conformarsi (come accade per tutte le imprese di telecomunicazione e Internet che creano, attivano e controllano varie parti del cyberspazio) sono diversi da quelli in uso quando compriamo un paio di scarpe da tennis o un barattolo di pelati. L'impegno dell'azienda produttrice di pelati a non vendermi cibi velenosi, e quello del calzaturiere a non propinarmi scarpe scadenti che possono deformarmi i piedi, può essere generalmente normato da leggi e regolamenti dello stato. Ma, sul fronte del rispetto e della salvaguardia dei miei diritti umani, non esiste regolamentazione statale che di per sé possa contemplare gli obblighi di ordine morale e sociale a carico di Google sul piano transnazionale, nella sua veste di ideatore e custode di un luogo dove passo tante ore della giornata a lavorare, giocare, fare politica e gestire gli aspetti più privati della mia quotidianità. E questo accade perché Google è in concorrenza diretta con i governi nazionali per assicurarsi la mia lealtà e fiducia. E per di più Google ha capito che la mia fiducia e lealtà - e di conseguenza i propri interessi commerciali - dipendono anche dalla sua disponibilità a difendermi dal tentativo dei governi nazionali di violare i miei diritti umani. (E non c'è governo che non ci proverà, se avrà l'occasione di farlo impunemente). Ovunque operino governance e prescrizione di regole, che ciò avvenga tramite codici informatici o leggi penali, gli abitanti hanno facoltà di scelta.

Si può essere soggetti a una governance senza prestarvi consenso, oppure si può essere cittadini che il consenso lo danno e lo revocano - responsabili, in definitiva, se il governo cui l'hanno elargito promuoverà apertura, libertà e giustizia oppure no. Dobbiamo smetterla di pensare a noi stessi come a semplici utenti di un servizio e cominciare invece a pensarci abitanti di un luogo chiamato Internet. Siamo netizen. Ed è ora di prendere più iniziative per dare forma all'internet del futuro - spronando gli attori più potenti nella direzione che vogliamo noi. Google, Yahoo e Microsoft hanno compiuto un primo passo riconoscendo che possono sbagliare e che hanno bisogno di un controllo etico più ampio di quello garantito da soci, consigli di amministrazione e mercati.

L'anno scorso hanno contribuito a lanciare la Global Network Initiative, un'operazione multilaterale che coinvolge gruppi per i diritti umani, investitori socialmente responsabili e accademici, impegnandosi a rispettare i principi fondamentali della libera espressione e della privacy e rimettendosi a valutazioni indipendenti e a meccanismi pubblici di garanzia. (Per dovere di cronaca: io sono fra i membri fondatori e nel direttivo della Global Network Initiative). Essendo ancora a un primo stadio sperimentale, per ora è difficile dire se l'operazione GNI riuscirà. Ma è almeno un modo per riconoscere la necessità di nuove forme di controllo, trasparenza e garanzia, affinché le aziende che detengono tanto potere sulla vita di tante persone non ne abusino. È un primo tentativo per capire quale forma dovranno assumere certi meccanismi.

Nel secolo scorso molti leader politici che hanno favorito la transizione pacifica del proprio Paese dall'autoritarismo alla democrazia, lo hanno fatto perché hanno capito che il vigilare del pubblico, il controllo e le verifiche istituzionali, e un consenso popolare esplicito, avrebbero rafforzato, anziché indebolito, la legittimazione e il potere di cui godevano. Allo stesso modo, le imprese di telecomunicazione e Internet di tutto il mondo devono riconoscere che accettare un maggior controllo pubblico e creare strumenti per un'Internet libera e aperta in fondo servirà alla loro stessa sopravvivenza. Se pure non avessero avuto altro intento che fornire prodotti e servizi commerciali, di fatto hanno finito per costituire collettivamente uno spazio che gli appartiene in solido con altre imprese e con chiunque realizzi contenuti per Internet, fornisca servizi di hosting di siti web, oppure crei e gestisca applicazioni.

I nuovi obblighi e le nuove forme di responsabilità sociale associati a tale ruolo potrebbero metterli a disagio e quindi portarli a rifiutali - cosa che infatti molti stanno ostinatamente facendo. Ma bisogna cercare di autarli a capire. E soprattutto, è nel nostro interesse di netizen imparare a usare bene il bastone e la carota per stimolarli a fare ciò che riteniamo giusto. Infine, un'annotazione sul futuro dei governi nazionali nell'era di Internet. Nel corso degli ultimi ottocento anni circa, la società umana ha visto capi supremi giungere lentamente al riconoscimento che la condivisione del potere con il popolo rafforza e arricchisce tutti, riducendo la possibilità per gli stessi leader - compresi amici e parenti - di morire travolti da brutali rivoluzioni. Si è passati da Paesi a guida monarchica a Paesi a guida presidenziale e governativa. Per giungere a questa consapevolezza in due soli Paesi c'è voluto molto tempo e ancora di più ce n'è voluto prima che la gente riuscisse a trovare forme abbastanza adattabili e sostenibili di consenso popolare.

Nel secolo scorso, sono entrati nel novero molti altri Paesi, mentre ve ne sono altri che non ce l'hanno fatta - oppure che hanno tentato invano, o ancora, che hanno avuto la pretesa di chiamarsi governi 'popolari', quando in realtà erano ben altro. Internet e il cyberspazio, entrando nella vita di un numero così elevato di individui da fare massa critica a livello mondiale, ha generato una nuova dimensione di lotta per la sovranità, per i diritti e per la legittimazione. Non sono fra coloro che ipotizzano un'Internet capace di sopprimere l'umano bisogno di governi territoriali.

Credo però che siamo agli albori di un'epoca in cui, gradualmente, i governi illuminati riconosceranno che, sapendo trovare non solo il modo di coesistere in pace, ma anche quello di condividere il potere con la cybernazione globale, vedranno accrescersi la legittimazione di pari passo con il benessere delle società che governano. Entrambi sono chiamati a dare il proprio contributo affinché noi cittadini - tanto nello spazio fisico quanto nel cyberspazio - possiamo contenere il potere altrui. Entrambi devono essere soggetti a forme di controllo da parte della collettività. Entrambi devono conformarsi a standard elevati di trasparenza se ambiscono alla nostra fiducia, che è il requisito per affermarsi al potere e durare nel tempo. La comprensione di come attivare il meccanismo è ancora di là da venire. Ma è nel nostro interesse di netizen mettersi in azione e fare il possibile per aiutare le aziende e i governi ad affrontare la realtà. Avete qualche suggerimento per cominciare a scrivere un'ipotetica Costituzione della Cybernazione globale?

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