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03 luglio 2010

"Ho sentito la loro voce. Erano nei container sotto il sole del Sahara"
di Gabriele Del Grande

Da tre giorni un rumore mi perseguita. È un rullare di ruote e uno sbattere, vibrare e cigolare di ferri. Con uno sfondo sonoro di lamentazioni di uomini. L’ho sognato anche stanotte. È il rumore delle deportazioni.
L’esercito libico ha fatto irruzione nel carcere di Misratah all’alba del 30 giugno, il giorno dopo la rivolta degli eritrei. Molti stavano ancora dormendo. Li hanno portati via così, 300 persone circa, alcuni ancora nudi, altri feriti dai pestaggi del giorno prima. E li hanno rinchiusi dentro due camion, dentro un container di ferro, di quelli che si usano sui treni merci e sulle navi cargo.
Quando, il pomeriggio del 30 giugno, sono riuscito a contattarli, erano ancora dentro il container. Il camion correva veloce sulla strada, e a ogni buca i ferri del cassone sbattevano sul rimorchio. A. non parlava inglese, ma quando ha sentito “Italy” ha passato il cellulare ad altri, borbottando qualcosa in tigrino. Così, nel buio pesto del container, in quel forno che deve essere una scatola di ferro sotto il sole del Sahara, riempito con 150 persone appiccicate una addosso all'altra, passando di mano in mano, il telefono ha raggiunto D.. Era l’unico telefono sfuggito alle perquisizioni. L'ultimo filo con il mondo esterno. D. parlava inglese. «Ci sono donne e bambini svenuti qua in mezzo - ha detto - ci manca l’aria».

Io, quei container li ho visti, nel 2008, a Sebha. E li ho anche fotografati, di nascosto. E come me, li ha visti il prefetto Mario Morcone, del Ministero dell’Interno, durante le sue missioni in Libia. E li hanno visti Marcella Lucidi e Giuliano Amato, quando nel 2007, volarono a Tripoli per firmare l’accordo sui respingimenti. Tutti quelli che hanno lavorato all’accordo tra Italia e Libia dovrebbero riflettere sugli effetti che ha prodotto. Dovrebbero provare a mettersi nei panni dei padri e delle madri che in queste ore in Italia piangono la sorte dei propri cari in Libia. Perché - e anche questo spesso lo si dimentica - ogni eritreo che attraversa il mare ha in Italia un parente che lo aspetta, che gli ha mandato con Western Union i soldi per lasciarsi alle spalle la dittatura. E di fronte a quei nomi, la ragion politica vacilla. Sulla base di quale interesse di Stato, il ministro Maroni consolerà una madre che su quel container diretto nelle prigioni del Sahara ha il proprio figlio? O peggio ancora la propria figlia, che magari presto sarà violata, oltre che bastonata, dai suoi carcerieri libici. 

Ma in fondo perché prendersela così tanto con i politici? Dopotutto sono espressione della volontà popolare. Ed è l’Italia tutta che ha dimenticato i nomi della diaspora eritrea e di tutte le diaspore che negli anni hanno varcato la frontiera via mare. La politica e la stampa ci hanno insegnato a cancellare i loro nomi, a chiamarli “clandestini” e non più uomini. Questa stampa pigra, tanto attenta a lucidare i mocassini dei politici di turno quanto disabituata a sporcarsi le scarpe andando sul terreno. Altro che legge bavaglio. Il silenzio dei media sul destino dei respinti si chiama autocensura. Ed è un silenzio colpevole. Perché quando smetteremo di raccontare queste storie sarà come se tutto questo non fosse mai accaduto. E continueremo a riempirci la bocca di retorica, magari continuando a condannare le deportazioni degli ebrei, mentre intorno alla “civile” Europa si contano a migliaia i morti della diaspora eritrea. E ci ostiniamo a non capire che sono i nostri morti. Perché sono i parenti dei nostri nuovi concittadini. Se non ci credete, andate in Germania.

Domani a Francoforte si celebra una messa in memoria dei 77 eritrei lasciati morire al largo di Malta nell’agosto del 2009, dopo 23 giorni passati alla deriva. È stata organizzata dagli eritrei tedeschi. La signora Gergishu Yohanes, di Colonia, sulla barca aveva il fratello più piccolo, un ragazzo di 16 anni. È stata lei a rintracciare i familiari di tutte le altre vittime. Arriveranno a Francoforte da tutta la Germania, dall'Inghilterra, dalla Svezia, dalla Norvegia, dalla Svizzera, dagli Stati Uniti e dall’Italia, dove oggi vivono come rifugiati. Anche gli eritrei di Libia avrebbero voluto celebrare una messa per quei morti. Ma i fatti di Misratah hanno seminato il terrore. I miei amici - e informatori - eritrei a Tripoli ormai non escono nemmeno di casa per aggiornare i loro blog dagli internet point della capitale. Hanno una paura matta. Che i 300 eritrei deportati da Misratah siano rimpatriati e finiscano nelle galere del regime eritreo. E che i prossimi siano loro.

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