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http://www.foreignpolicy.com Sig. Presidente non preghi per qualcosa che non vuole veramente L’amministrazione di Barak Obama ha lavorato duramente per spingere il Presidente palestinese Mahmoud Abbas e i governi arabi a ritornare a negoziati diretti con Israele per la prima volta in tanti anni. Questa decisione potrebbe essere presa giovedì, quando la Lega Araba si riunirà per discuterne. Ma Obama dovrebbe essere molto prudente sulle sue aspettative. Uno dei miti più longevi nell’ambiente diplomatico Arabo Israeliano è che i negoziati diretti siano la chiave per il raggiungimento della pace. Non è così. La realtà dei negoziati racconta una storia diversa. I negoziati diretti sono sempre necessari, ma non sono mai stati sufficienti ad assicurarne il successo. E il governo di Benjamin Netanyau, insieme all’amministrazione del Presidente Obama, dovrebbero smetterla di costruire aspettative che deluderanno se stessi e il resto di noi, pensandola diversamente. Certamente israeliani e palestinesi devono negoziare direttamente e controllare il processo di pace, ma anche con un ruolo decisivo degli americani, un ruolo ben meditato e organizzato, le enormi difficoltà contro un accordo che porti alla fine del conflitto rimangono veramente forti. L’amministrazione Obama dovrebbe essere molto prudente che nella sua fretta di avviare negoziati diretti, non si accenda una crisi tra le parti che renda tutto troppo penosamente chiaro. A prima vista la logica dei negoziati diretti è forte e inossidabile. Solo un vero confronto faccia a faccia può costruire la confidenza necessaria a risolvere i problemi, e la consapevolezza del prezzo che occorre pagare per raggiungere l’accordo. Ma la vera natura dell’approccio diretto suggerisce il raggiungimento di un’intimità e di una fiducia reciproca, che persuada ambo le parti dell’altrui serietà. Difficile dinamica per israeliani e palestinesi, specialmente quando gli argomenti sul tavolo sono; Gerusalemme, confini e ritorno dei rifugiati. Argomenti che raggiungono immediatamente il nocciolo delle rispettive politiche identitarie e di sicurezza. Esistono veramente scarse prove che sostengano il successo del negoziato diretto nella storia dei colloqui di pace arabo israeliani. Ogni accordo che è durato nel tempo non è sorto da colloqui diretti ma dal pesante impegno della mediazione USA. L’accordo di Henry Kissinger per il disimpegno che seguì la guerra dell’ottobre 1973 (1973 1975); Il trattato di pace tra Israele e Egitto favorito da Jimmy Carter nel 1979; E la conferenza di pace di Madrid voluta nel 1991 da Bush e Baker. In fatti, ognuna di queste tre occasioni non fu per nulla sostenuta da colloqui diretti. Ma dalla mediazione continua degli USA tra le parti. L’unico esempio di negoziati diretti che abbia prodotto un accordo finale fu il trattato di pace tra Giordania e Israele del 1994, ma in questo caso le circostanze erano veramente inusuali, il livello di confidenza tra le parti era molto profondo e le istanze sul tavolo molto più facili da trattare di quelle che ci troviamo di fronte oggi. Quella fu veramente l’eccezione che conferma la regola. |
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http://www.foreignpolicy.com Mr. President, Don’t Pray for Anything You Really Don’t Want Barack Obama's administration has been lobbying Palestinian President Mahmoud Abbas and Arab governments hard to return to direct talks with Israel for the first time in several years. That decision could be made as early as Thursday, when the Arab League meets to discuss the matter. But Obama should very careful what he wishes for. One of the most enduring myths in the lore surrounding Arab-Israeli diplomacy is that direct negotiations provide the key to successful peacemaking. They don't The actual history of negotiations tells a far different story. Direct talks are often necessary, but have never been sufficient to ensure success. And Benjamin Netanyahu's government, together with the Obama administration, should stop raising expectations and deluding themselves and the rest of us into thinking otherwise. Israelis and Palestinians will certainly have to negotiate directly and own their peace process, but even with a strong American role -- one that is well thought through and well-timed, the odds against a conflict-ending accord remain long indeed. The Obama administration should be very careful that in its hurry to get direct talks going, it doesn't spark an Israeli-Palestinian crisis that makes that fact all too painfully clear. On first glance, the logic of direct negotiations is powerful, if not unassailable. Only through face-to-face talks can trust and confidence be built, problems solved, and decisions made by each side on what price it is willing to pay for an agreement. This is especially true for Israelis and Palestinians when the issues on the table -- Jerusalem, borders, and refugees -- cut to the core of their respective political identities and physical security. The very nature of directness suggests an intimacy and reassurance that is critical to persuading each side that the other is serious. The only problem with this argument is that there is scant evidence to support it in the history of Arab-Israeli peacemaking. Every successful agreement that has endured -- save one -- came not as a result of sustained direct talks but from heavy-duty U.S. mediation. In fact, in each of the three breakthroughs in Arab-Israeli peacemaking -- Henry Kissinger's disengagement agreements following the October 1973 war (1973-75); Jimmy Carter's Egyptian-Israeli Peace Treaty (1979); and George H.W. Bush's and James Baker's Madrid Peace Conference (1991), there were no sustained direct talks at all. The United States brokered, shuttled, and mediated between the sides. The only example of direct negotiations actually producing a lasting agreement was the Israeli-Jordanian peace treaty (1994) -- and here, circumstances were so unusual, the level of Israeli-Jordanian contacts and confidence so deep, and the issues on the table so much more tractable than the ones we face today, that it was truly the exception to the rule.
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