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Abu Mazen, tra l'Incudine e il Martello tradotto da Mariano Mingarelli All’inizio del suo ultimo incontro con George Mitchell alla Muqata’a, a Ramallah, all’incirca tre settimane fa, il Presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen), ha presentato l’inviato americano ad una persona sconosciuta: “Gradirei che tu incontrassi Yasser al-Masri, capo del gruppo Takamul (Totalità), che sta chiedendo la creazione di uno stato unico sul territorio della Palestina storica.” Abbas ha domandato ad al-Masri, un ex detenuto nelle carceri israeliane, di parlare a Mitchell di un nuovo movimento, che è costituito da studiosi universitari e da persone che provengono dai livelli intermedi di Fatah moderati che hanno abbandonato la speranza su di una soluzione a due-stati. Questo è stato un modo non convenzionale di Abu Mazen di spedire alla Casa Bianca un’allusione sulla gravità della sua situazione politica e sul suo recente stato d’animo desolato. Per un tempo abbastanza lungo, al-Masri ha tenuto una lezione ai suoi ospiti sorpresi sulla delusione in crescita tra la popolazione palestinese riguardo al processo di pace. Sul loro cammino verso Gerusalemme, i membri della delegazione americana hanno visto dei cartelloni pubblicitari di Takamul che caldeggiavano la creazione di un unico stato tra il mar Mediterraneo e il fiume Giordano. In una intervista al giornale pan-arabo Al-Hayat (27 luglio), al-Masri ha dichiarato che sebbene il 99% degli elementi di una soluzione a due-stati siano noti e siano stati trattati in modo dettagliato, iniziative quali l’Iniziativa di Ginevra stanno ingiallendo nei cassetti. Secondo lui, sull’arena politica palestinese non c’è un leader più pragmatico e un sostenitore più entusiasta del principio a due-stati di Abbas. “Se Israele non è in grado di raggiungere un accordo con lui,” ha chiesto al-Masri, “allora con chi vuole fare la pace?” Giudicando sulla base della pressione crescente esercitata dall’America su Abbas perché intraprenda negoziati diretti, il messaggio di al-Masri non è stato fatto proprio da Washington. E’ cosa molto dubbia che il presidente Barak Obama abbia analizzato attentamente il rapporto di Mitchell sull’ospite speciale che il presidente palestinese aveva convocato nel suo ufficio. Il Medio Oriente è stato relegato in fondo all’agenda del Presidente americano. Sei consulenti politici (fra loro due ebrei), ai quali il The New York Times aveva chiesto di fornire a Obama una piattaforma per salvare la sua posizione pubblica, hanno scritto di economia, di sanità, di alloggi e di clima. Ma, non una parola sulle questioni di politica estera. Il leader del mondo libero, perciò, si è accontentato del ruolo di postino tra Ramallah e Gerusalemme. Obama ha presentato al Primo Ministro Benjamin Netanyahu tre proposte alternative che Abbas ha suggerito per precisare un percorso verso i colloqui diretti. Una è l’invio di una nota diplomatica da parte di Obama a Israele e ai palestinesi nella quale egli avrebbe promesso che i negoziati si sarebbero occupati della creazione di uno stato indipendente all’interno delle frontiere del 4 giugno 1967, insieme alla moratoria sulle colonie. La seconda consiste nell’invio di una nota analoga al quartetto. Una terza opzione riguarda la convocazione di un incontro israelo-palestinese-americano allo scopo di stabilire accordi preliminari sull’autorità responsabile dei colloqui. Obama ha informato Abbas che Netanyahu ha risposto tre volte “no”. Quindi no. Nei giorni a venire Abbas dovrà scegliere tra l’incudine e il martello. Il martello: la sottomissione alla richiesta americana di prender parte ai negoziati senza un precedente impegno di allungare la moratoria alle costruzioni nelle colonie (così come s’ignora la sua violazione) e senza che Israele fornisca ai palestinesi la carta che descrive in modo dettagliato le loro posizioni su problemi centrali. Il prezzo: ulteriore erosione della sua posizione, tanto più che i leader di Fatah, guidati da Mahmoud Dahlan, Marwan Barghouti e Ahmed Qurei (Abu Ala), hanno chiesto a gran voce e come fossero un sol uomo di respingere la richiesta americana. L’incudine: Il rifiuto, fatto da un leader senza uno stato, di una richiesta personale avanzata dal presidente della più grande potenza del mondo. Il prezzo: un’altra vittoria per Netanyahu nella più grande arena internazionale Che cosa merita questo governo. Il Ministro della Difesa, Ehud Barak, non c’è necessità che resti sconvolto dalla lotta sporca per la posizione di capo di stato maggiore generale. Il Tenente Generale (in pensione) Barak può insegnare ai generali una cosa o due sui politici che sono stati reclutati e pure sui giornalisti contro colleghi/rivali. Conoscenza personale di prima mano. Non è stato il primo e non sarà l’ultimo a tirare tutte le corde possibili per avanzare le sue possibilità nella corsa per diventare capo di stato maggiore. Questa settimana, un alto ufficiale della riserva ha riferito che un uomo che si è presentato come attivista della campagna di uno dei contendenti, lo ha pregato di aiutarlo a confondere la reputazione del Magg. Gen.Yoav Galant. (Lui ha rifiutato) L’uomo ha raccontato all’ufficiale che la campagna sta facendo uso, in maniera organizzata, di collegamenti con i mezzi di informazione e con la Knesset. Ovviamente se dovesse emergere che Galant ha avuto a che fare con il famigerato documento, dovrà consegnare le sue insegne di maggior generale. Tuttavia anche se riemergesse dall’affare puro come la neve, è dubbio che Galant possa risultare la persona più adatta, in questi giorni, di occupare la più importante posizione militare del paese. In anni relativamente lontani, durante i quali ha prestato servizio come comandante del GOC (Ground Operations Command) del sud, Galant ha mostrato l’aspetto aggressivo delle forze israeliane di difesa (IDF) nei confronti dei palestinesi. Non ha mai perso l’occasione di predicare alla gerarchia militare di lasciare l’IDF senza guinzaglio e di approvare un attacco a tutto campo nella Striscia di Gaza. Rispetto a lui, persino il diplomatico coordinatore alla sicurezza Amos Gilad, che al momento non è ritenuto un buono a nulla per ciò che riguarda i palestinesi, viene considerato uno che fa concessioni in serie. Nell’agosto 2006, in una discussione ad una riunione dello stato maggiore generale, con la partecipazione dell’allora Ministro della Difesa Amir Peretz (attualmente un membro della Knesset per il partito laburista), Gilad aveva riferito che l’Amministrazione americana stava facendo pressione per l’apertura di un dotto per il trasporto del cemento nella Striscia di Gaza, per facilitare la riparazione delle abitazioni e delle strutture essenziali danneggiate dai bombardamenti delle forze aeree. Il coordinatore delle attività nei territori, Mag. Gen. Yosef Mishlav, fece notare che migliaia di lavoratori palestinesi disoccupati erano in attesa dell’apertura del dotto. Il forum decise che si sarebbe dovuta aprire la conduttura. Galant si appellò per la decisione al capo dello stato maggiore generale, Dan Halutz, che respinse l’appello. Tuttavia, per ordine di Galant, la conduttura rimase chiusa per la maggior parte del tempo, “a causa degli stati d’allerta per attentati terroristici.” Un altro suo ordine contrariamente alle istruzioni del ministero proibì l’ingresso nella Striscia di Gaza dei giornali e della posta. E forse, nei fatti, questo è il capo di stato maggiore che questo governo si merita.
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