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Tratto da La Nonviolenza è in Cammino

Verso il 2 Ottobre. La Resistenza Nonviolenta nel Kosovo degli Anni Novanta
e la Figura di Ibrahim Rugova
di Anna Bravo


Anna Bravo, storica e docente universitaria, vive e lavora a Torino, dove ha insegnato Storia sociale. Si occupa di storia delle donne, di deportazione e genocidio, resistenza armata e resistenza civile, cultura dei gruppi non omogenei, storia orale;
 
Se qualcuno volesse farsi un'idea sul Kosovo degli anni Novanta, gli risponderei cosi': era un paese, nel cuore della Jugoslavia devastata dalle guerre, dove la stragrande maggioranza della popolazione conduceva da anni una resistenza nonviolenta all'apartheid di fatto imposto dal regime di Milosevic. Le organizzazioni internazionali e i leader del mondo avrebbero potuto appoggiare la lotta dei kosovari, impegnarsi per farla conoscere. Invece praticamente l'hanno ignorata (1). E' accaduto spesso nella storia. Ma stavolta era persino peggio, perche' di fronte ai massacri nei Balcani quella resistenza rappresentava la sola alternativa in atto. In Italia, a sostenerla erano quasi esclusivamente alcuni gruppi di ispirazione cristiana come la Comunita' di sant'Egidio, la Campagna per una soluzione nonviolenta in Kossovo (2), Pax Christi, la vasta Associazione Madre Teresa; e naturalmente il Movimento Nonviolento, e qualche organizzazione culturale come la piccola e interessante Fondazione Langer, che nel 2000 attribuira' il premio omonimo a due donne, la kosovara Vjosa Dobruna e la belgradese Natasha Kandic, impegnate fianco a fianco per dare aiuto alla popolazione nel pieno della guerra del 1999 - perche' la storia finisce male, con le pulizie etniche dei serbi e i bombardamenti della Nato su Serbia e Kosovo.
Per il 2 ottobre, vorrei proporre un omaggio alla resistenza civile del Kosovo e al suo principale leader, Ibrahim Rugova: non per santificarlo, ma per riflettere su come sia stato prima misconosciuto, poi rapidamente dimenticato.
 
In questa sede, credo che alla microspiegazione per "non esperti" basti aggiungere che nel paese si era creata una rete di istituzioni alternative (scuole, centri sanitari, di supporto sociale, per i diritti civili, sedi politiche, luoghi di cultura) finanziate dall'autotassazione popolare e dai contributi degli emigrati, e capaci di dare ai kosovari un senso di identita' e un assaggio di democrazia. Era stato Rugova, ovviamente non da solo, a promuovere questo processo, e a trasformare in pratiche pacifiche le manifestazioni per l'autonomia e poi per l'indipendenza del Kosovo, all'inizio (anche) violente e schiacciate a prezzo di molti morti e feriti. Grazie a questa impostazione - e al fatto che nei primi anni Novanta il grosso delle forze serbe e' impegnato in Bosnia - in Kosovo non si arriva subito alla guerra, a dispetto della spaccatura ormai radicale fra la maggioranza albanese e la minoranza serba.
 
Con gli anni pero', mentre il governo di Milosevic continua impunemente nella repressione, subentra la stanchezza, molti cittadini non ne possono piu' di subire violenze e soprusi, gli studenti di fare lezione in appartamenti, garage, scantinati, seduti per terra, con pochi testi a disposizione, sotto la continua minaccia di arresti e percosse della polizia (3). La fiducia popolare nella strategia nonviolenta si logora, e gli accordi di Dayton, che per il Kosovo non prevedono alcuna soluzione, le danno il colpo decisivo. Fra il '96 e il '97 si affaccia un Esercito di liberazione del Kosovo (Uck), che rapidamente guadagna ascolto a livello internazionale - le armi, un esercito, ecco qualcosa di familiare, da prendere sul serio.
 
Il 24 marzo 1999 la Nato da' il via ai bombardamenti, l'Uck scende in conflitto aperto. Rugova ha perso, e con lui ha perso la popolazione. Subito si diradano notizie e analisi, fino allora relativamente numerose in Italia, Germania e Francia.
 
 Il fatto e' che prima della guerra la comunita' internazionale ha capito ben poco non solo della nonviolenza, ma dei kosovari e del loro leader. Rugova e' un intellettuale musulmano laico e moderato, che ha in mente uno Stato senza esercito e senza frontiere, interetnico, aperto a tutti; non e' un teorico della nonviolenza, e anche se ammira il pensiero gandhiano a volte sembra travisarlo, come quando lo identifica con la resistenza passiva, e dichiara quella del Kosovo una resistenza politica, quasi che la strategia gandhiana non lo fosse (4) (bisogna pero' tener conto che in occidente il termine "passivo" ha una connotazione negativa sconosciuta in India).
 
Rugova e' una figura complessa, anomala, contradditoria, su cui vale la pena riflettere. Peccato che agli occhi dell'establishment internazionale sembri uno strano leader, troppo mite, un utopista che ha misteriosamene "ammorbidito" un popolo battagliero e che in anni e anni non e' riuscito a ottenere niente dalla Serbia.
 
Nel '99, Rugova e' un uomo solo, per di piu' accusato dall'Uck di connivenza con il nemico per avere accettato di incontrare Milosevic in piena guerra (ma ventisei persone della sua famiglia erano ostaggio della polizia speciale e il suo miglior partner e amico, il grande negoziatore Fehmi Agani, era stato assassinato dall'esercito serbo).
 
Se non che, alle elezioni amministrative dell'autunno 2000, il suo partito, la Lega democratica per il Kosovo, conquista 26 municipi su 30; alle elezioni politiche dell'anno dopo Rugova e' riconfermato presidente, anche se non con la quasi unanimita' delle due consultazioni del decennio '90. Quella del 2000 e' una vittoria che nessuno si sarebbe mai aspettato, e che procura un "mal di testa" agli Stati Uniti: Rugova non e' il loro uomo, "troppo 'albanese', troppo distaccato" (5).
 
Come si e' arrivati alla resurrezione del "Lazzaro del Balcani"? Al di fuori dei gruppi nonviolenti (6), impegnati da subito, se lo chiedono in pochi, e le risposte per lo piu' mancano di spessore storico e del ripensamento critico che ci si aspetterebbe dopo la guerra; ma appunto per questo sono interessanti. Un buon esempio dell'intreccio fra desiderio e difficolta' di capire viene da Robert Fox, che scrive sul free newspaper londinese "Evening Standard" e sull'autorevole rivista italiana "Limes". "Rugova - sostiene Fox - e' rimasto fedele al suo consueto modo di fare, quello di un professore riservato che predica il Vangelo del Mahatma Gandhi, la resistenza passiva e la disobbedienza civile come mezzi per raggiungere fini radicali. Per le sue idee, e' tanto radicale quanto qualsiasi nazionalista albanese del Kosovo; e' intransigente nella sua fede in un Kosovo indipendente, non importa quanto tempo ci vorra' per raggiungere questo obiettivo. (...) Per molti versi, Rugova e' un politico che non e' un politico. A volte sembra a fatica appartenere al mondo contemporaneo: e' riservato, non comunicativo; non ama pronunciare lunghi discorsi di fronte alle telecamere e offre ai giornalisti a malapena una briciola di dichiarazioni. Senza Agani, la sua politica sembra a volte nebulosa e vaga. Ma e' proprio perche' e' tanto diverso che resta popolare. E' il leader di un movimento clandestino intellettuale, quasi come lo e' stato Vaclav Havel nella Praga degli anni Settanta e Ottanta. La sua resistenza passiva ha in effetti raccolto limitati successi dopo il 1990, anno in cui Milosevic elimino' l'autonomia del Kosovo. Rugova ha avuto successo alle recenti elezioni amministrative proprio perche' non e' l'Uck, ed ha uno stile e un comportamento totalmente diversi d quelli dei seguaci di Thaci e Hajradina" (7).
 
Nonostante le imprecisioni e i veri e propri errori, non c'e' motivo per accusare di cattiva fede o cattiva volonta' giudizi come questi. Ma a me sembrano, oltre che deboli, devianti. Dietro lo stupore per la tenuta di un leader sobrio e schivo, c'e' in primo luogo l'idea (quasi razzista) che i popoli dei Balcani si riconoscano piu' facilmente nei peggiori demagoghi, per non dire nei macellai delle stragi etniche. Dei serbi, si e' spesso denunciato il vittimismo, il romanticismo bellicoso, l'eccesso di orgoglio, la convinzione di essere un popolo eletto, che ha saputo trasformare la sconfitta militare del Campo dei Merli nel passaporto per la "Gerusalemme celeste". Si e' descritta con un certo sarcasmo la parata hollywoodiana del 1989 nel luogo della battaglia - il corteo con le reliquie del principe Lazar che attraversa con gran pompa la regione, la discesa in elicottero di Milosevic, i commenti che lo mettono piu' o meno espressamente al centro del mito, i proclami roboanti, l'accoglienza trionfale. Ma come si concilia tutto questo con l'enorme numero di disertori serbi nelle guerre balcaniche, con la fantasia e l'ironia degli studenti belgradesi che nel 1996, nel pieno dello scontro politico, designano il poliziotto piu' bello dello schieramento che fronteggiano da giorni? (8). E i kosovari, sono "i selvaggi delle montagne", o il popolo che la scelta nonviolenta spinge a inventare forme di lotta capaci di ridicolizzare gli oppressori? Il concetto di carattere nazionale sembra fatto apposta per occultare questa pluralita'. Il punto e', piuttosto, che i leader ragionevoli e aperti sono pochi, e spesso tacitati con la forza.
 
In secondo luogo, mi sembra spropositato, anche nella societa' dell'apparenza, il peso attribuito all'immagine del leader, come se i contenuti politici sfumassero nell'adesione emotiva a un'icona fuori del tempo, a malapena attualizzata dal paragone con Havel. E mi sembra fallimentare la tendenza, implicita nel discorso di Fox e in vari altri, a spiegare il successo del moderato Rugova con la sua moderazione. Una tautologia, se non si chiarisce dove e come questa moderazione si esercitava.
 
Rugova e' stato definito ripetutamente l'uomo del compromesso: ma con chi, su cosa, e perche'? Certo la sua ricerca di mediazioni politiche puo' sembrare estrema, ingenua, addiritura velleitaria - e poco lucida, il che e' forse vero nei suoi ultimi anni. Ma c'e' un punto su cui Rugova non transige, ed e' il rifiuto di alcune pratiche diffuse nei movimenti di resistenza in armi: per esempio la tecnica del "mordi e fuggi", che lascia le popolazioni esposte alle rappresaglie degli occupanti; l'abitudine a "gonfiare" i propri successi e nello stesso tempo il numero dei civili uccisi; l'insistenza sulla condizione di vittime; a volte la creazione deliberata dell'"incidente" per provocare una reazione, cosi' da legittimare se stessi e far esplodere l'ostilita' delle popolazioni. Nel caso dell'Uck, c'e' forse altro, dalle origini oscure alla manipolazione delle notizie, alla pretesa di rappresentare l'unica forma di lotta e l'unico "autentico" spirito nazionale. Ma tutto questo basta a liquidare Rugova riducendolo all'opposto dell'Uck?
 
E' vero che, come scrive Fox, molti elettori kosovari criticano amaramente la condotta dei guerriglieri, che attaccavano i serbi e si ritiravano lasciandoli liberi di radere al suolo i villaggi. E' vero che sono allarmati dall'uso della violenza e dell'intimidazione da parte dei "sedicenti veterani" della resistenza armata, e che non li considerano affatto i liberatori del nuovo Kosovo, se mai sono grati "alla Nato e alla comunita' internazionale per aver indotto indurre Milosevic a ritirarsi" (9). E' anche vero che Rugova e' una buona barriera all'estremismo militarista.
 
Ma sostenere che "ha avuto successo alle recenti elezioni amministrative proprio perche' non e' l'Uck", significa aggrapparsi a una formula, fino a chiudere gli occhi su fatti elementari: esistevano altri partiti moderati, la Lega democratica non era l'unica scelta disponibile, e soprattutto Rugova non era visto dai kosovari come la mera antitesi all'Uck.
 
La verita' e' che la maggior parte dei commentatori ritiene, ciecamente, che non ci sia nulla da imparare dal modo in cui Rugova pratica la nonviolenza, un modo personale, molto concreto e per certi aspetti eterodosso. In varie interviste degli anni Novanta spiega che non ama dilungarsi sui massacri, ne' accreditare le dicerie antiserbe (10), ne' definire vittime i kosovari (11). Perche' non vuole vincere (12), ma trattare - come insegnava Agani - con i serbi, con gli albanesi radicali di Adem Demaci, con chiunque sia disponibile; perche' non vuole contribuire alla cristallizzazione dell'odio; e perche', credo, rifiuta la rappresentazione del sociale sottesa all'esaltazione della vittima, in cui la dicotomia amico/nemico si riproduce tacitamente in quella offensore/offeso (13). Negli stessi anni, ammette che il mondo si disinteressa del Kosovo perche' non c'e' una guerra in atto, ma l'indipendenza - dice - non vale una vita. Se spesso invita gli studenti a non manifestare apertamente, e' perche' ha paura che qualcuno risponda alle provocazioni serbe e che si arrivi al massacro. La repressione ha gia' fatto troppe vittime, la sproporzione di forze e' spaventosa, non c'e' scelta - sono parole che dispiacciono ad alcuni pensatori, per cui (e giustamente) la nonviolenza e' una strategia, non il ripiego dei deboli. Ma a me vengono in mente, fatte le debite differenze, le osservazioni di Tom Holt sulla lotta per i diritti civili: "la scelta non era fra violenza e nonviolenza, era fra azione nonviolenta e nessuna azione" (14). Per questo, e perche' teme l'internalizzazione del conflitto balcanico, Rugova chiede di aspettare e pazientare, e continua a chiederlo, pur sapendo che rischia di vedere intaccato il suo seguito popolare, come avverrà dal '95-'96.
 
Ma nel frattempo ha cercato di insegnare ai suoi che i tempi sono lunghi, le accelerazione spesso dannose, che le persone e i popoli possono cambiare, e soprattutto che "per smontare i meccanismi del nazionalismo serbo bisogna assolutamente criticare il nazionalismo albanese" (15).
 
Il "segreto" di Rugova non sta dunque nell'immagine e neppure del moderatismo. E' piuttosto un'idea di nazione opposta a quella propagandata dall'Uck, da Milosevic, Tudjiman, Itzetbegovic e altri avvelenatori di coscienze che in quegli anni si disputano la primogenitura dell'insediamento nei Balcani. Per questi, e per tutti i nazionalismi, la nazione e' un destino scritto della storia dei popoli, il frutto di un processo secolare finalizzato alla sua emersione - come se momenti ed eventi che in realta' sono slegati fra loro, e magari casuali, si componessero in una genealogia reale e simbolica.
 
Per Rugova, e per altri leader non solo kosovari, la nazione e' una (importante e condivisa) realta' storica, ma non un assoluto, non un principio sacro cui sottomettere aspirazioni, desideri, vite, su cui erigere una barriera fra "noi" e "loro".
 
"Siamo tutti piccoli - aveva detto Rugova nei primi anni Novanta - Anche i serbi. Ci sono sei o sette milioni di Albanesi, sei o sette milioni di Serbi, nove milioni di Bulgari, dieci milioni di Greci. Bisogna capire che siamo tutti piccoli, bisogna collaborare, essere amici domani, integrarsi, ciascuno nel posto dove sta. Non e' una tragedia" (16).
 
Tragedia c'e' stata, con la persecuzione serba contro i kosovari, poi con le loro ritorsioni sui serbi. Rogova le temeva: "Se domani il nostro governo, arrivato al potere, permettesse una cosa simile in nome del 'loro hanno fatto quello, dunque noi facciamo questo', vorrebbe dire che il nostro movimento non ha significato niente, non ha fatto niente per far finire il ciclo della violenza" (17). Qui si direbbe che Rugova e la nonviolenza abbiano perso davvero. Ma e' un fallimento totale?
 
Mi chiedo come mai milioni di serie e oneste persone abbiano sospeso per decenni il giudizio sui regimi sovietici in nome della loro novita', e molte altrettanto oneste persone, magari le stesse o i loro figli, si siano affrettate a decretare la sconfitta dell'esperimento kosovaro. Sorvolo sui motivi ovvi - dai problemi geopolitici al rimpianto per la Yugoslavia "socialista" all'antiamericanismo, dalle simpatie storiche per la Serbia alla diffidenza verso l'Islam e verso gli albanesi. Ma suggerisco un'altra ragione, difficile da confessare: un successo della nonviolenza avrebbe indebolito, quantomeno a breve, lo stereotipo secondo cui la guerra e' un male inevitabile; l'insuccesso l'ha rafforzato, esimendoci dalla fatica di cercare altre strade - e risparmiando ai commentatori l'imbarazzo di registrare che almeno uno fra i paesi della ex Yugoslavia aveva raggiunto l'indipendenza con un ridotto spargimento di sangue. Se del Kosovo molti sottolineano oggi piu' le tensioni "etniche" che le prove di convivenza (come la partecipazione di una parte dei serbi  alle ultime elezioni) e' anche, credo, per la renitenza ad accettare una smentita delle proprie convinzioni e profezie. Sara' casuale la scelta da parte di Fox di un titolo come "Ma tra i kosovari continuano le faide mafiose"?
 
Eppure, gia' nell'imprevista vittoria di Rugova alle amministrative del 2000 si sarebbe potuto vedere l'indizio di una certa tenuta delle idee moderate e nonviolente. Solo che pochi l'hanno fatto. Nel 2009, decennale del primo bombardamento della Nato, sulla resistenza nonviolenta del Kosovo non si e' spesa una parola.
 
*
 
Note
 
1. Lo denuncia, fra gli altri, Johan Galtung, The Crime against the Serbs: Kosova Independence, febbraio 2008, al sito di "Trascend: A Peace and Development Network".
 
2. I suoi esponenti tra il 1993 e il 1995 hanno visitato piu' volte il paese e nel 1995 hanno avviato a Pristina una presenza stabile, l'Ambasciata di pace, condotta da Alberto L'Abate. Di L'Abate, si veda Prevenire la guerra nel Kossovo per evitare la destabilizzazione dei Balcani, Quaderni della Difesa Popolare Nonviolenta, La Meridiana, Molfetta 1997. Cfr. anche Salvoldi, Gjergji, La resistenza nonviolenta in Kosovo, Emi, Bologna 1993; Salvoldi, Gjergji, Un popolo che perdona, Emi, Bologna 1997.
 
3. Annie Lafontaine, After the Exile: Displacements and Suffering in Kosovo, in Archives of Memory/ Supporting Traumatised Communities through Narration and Remembrance ("Psycosocial Notebook", vol. 2, october 2001, ed. by Natale Losi, Luisa Passerini and Silvia Salvatici), pp. 67-68.
4. Lo fa notare M. Cereghini, in Il funerale della violenza, 1999 (ancora oggi una fonte di dati e riflessioni), citando lo stesso Rugova, La question du Kosovo. Entretien avec Marie-Francoise Allain et Xavier Galmiche, Fayard, Parigi 1994, p. 126.
5. Robert Fox, Ma tra i kosovari continuano le faide mafiose, "Limes", n. 5, 2000.
6. Si vedano i notiziari dell'Accademia Apuana della Pace e del torinese Centro Studi Sereno Regis, la rivista "La nonviolenza e' in cammino" (tutti e tre on line), "Testimonianze", "Azione nonviolenta" e i relativi Quaderni. Molte anche le iniziative di mediazione, come il progetto diretto da Angela Dogliotti di scambio scolastico tra due classi del Liceo scientifico "Gramsci" di Ivrea e due classi del Kossovo, una serba e una albanese, in collaborazione con la Campagna Kossovo per la nonviolenza e la riconciliazione (anni scolastici 2001/2 e 2002/3).
7. Robert Fox, Ma tra i kosovari continuano le faide mafiose, cit.
8. Sottolinea questa compresenza Cereghini, in Il funerale della violenza, cit. p. 41.
9. Robert Fox, Ma tra i kosovari continuano le faide mafiose, cit.
10. In particolare, un chirurgo suo collaboratore rigetta le voci sui medici serbi che avrebbero deliberatamente assistito male le partorienti albanesi, cfr. I. Rugova, La question du Kosovo, cit., p. 74-75.
11. J. Y. Carlen, S. Duchene, J. Ehrhart, Ibrahim Rugova. "Le frele colosse du Kosovo", Desclee de Brouwer, Parigi 1999, p. 22.
12. Sull'impossibilita' della vittoria, cfr. E. Peyretti, Dov'e' la vittoria?, Il Segno dei Gabrielli, Negarine (Vr) 2005.
13. T. Pitch, L'embrione  e il corpo femminile, al sito www.costituzionalismo.it
14. T. Holt, Generation(s) de resistance. Le mouvement des droits civiques, in M. Zancarini-Fournel, Le moment 68. Une histoire contestee, Seuil, Parigi 2008, pp. 196-97.
15. La relativa intervista e' citata in J. Y. Carlen, S. Duchene, J. Ehrhart, Ibrahim Rugova, cit., alla p. 70.
16. Cfr I. Rugova, La question du Kosovo cit. p. 39.
17. I. Rugova, La question du Kosovo cit, pp. 38-39.

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