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31/12/2009

Il fronte settentrionale

Suleimanya è un incubo. Un carosello impazzito di auto, clacson e smog, si avviluppa senza posa, dall'alba al tramonto, per le strade della città dell'Iraq settentrionale. Anche se sarebbe più corretto dire città curda, meglio ancora cantiere. E' tutto un costruire, ristrutturare, decorare in un trionfo di Made in China.
Il palazzo del governatore di Suleimanya è uguale agli altri: ex palazzo dei tempi del regime, è stato occupato dai nuovi padroni, l'alleanza tra Unione Patriottica del Kurdistan (Puk) e Partito Democratico del Kurdistan (Pdk), guidati rispettivamente da Jalal Talabani e Massoud Barzani. Dopo il 1991 hanno combattuto tra loro, per prendere il potere. Poi hanno capito che il potere è meglio spartirselo. Il governatore Dana Ahmed Majed riceve in uno studio lungo e largo. Faccia da duro, è uno che ha combattuto ai tempi della guerra tra Pdk e Puk. Adesso si gusta il potere, vestito con cura, mentre sul computer alle sue spalle passa una presentazione della Suleimanya che verrà, trionfo di tecnologia e ordine. Molto lontana dalla realtà, fatta di corruzione e familismo. L'unico problema, al momento, sembra questo Partito Curdo dei Lavoratori (Pkk) che non ne vuol sapere di deporre le armi. Mentre, da un anno, l'aviazione turca bombarda i Monti Qandil, nei pressi del confine tra Iraq, Turchia e Iran. ''Se io arrivo in Danimarca, tanto per fare un esempio, armato fino ai denti, secondo lei cosa mi fanno? Mi arrestano! Ecco cosa mi fanno...le democrazie moderne fanno così. Questa gente non può rimanere qui e continuare la lotta armata. E' semplice'', dice Majed. Per la grande maggioranza della popolazione del Kurdistan iracheno, però, i guerriglieri curdi sono degli eroi. ''E' diverso, le situazioni cambiano'', risponde con un sorriso tagliente sotto i baffi curati, ''noi non andavamo all'estero a combattere la nostra battaglia. Lo facevamo in Iraq, senza coinvolgere altri. Adesso poi, dopo quello che noi curdi abbiamo ottenuto in Iraq, è assurdo non capire che l'unica strada per la libertà è la democrazia. Non dico che li cacceremo via, ma se non la smettono dovremo intervenire per disarmarli''. Non la pensano tutti così. Mola Bakhtyar è un mito per i curdi iracheni. Ha guidato i suoi uomini all'inseguimento delle truppe di Saddam in fuga verso Baghdad nel 2003. Adesso, anche lui in giacca e cravatta, si occupa dell'ufficio politico del Puk. ''Abbiamo fatto tanto per avere delle leggi che ci tutelassero...adesso dobbiamo rispettarle'', ammonisce Bakhtyar. ''Abbiamo già troppe macerie per continuare a distruggere. E' il momento di costruire, in primo luogo con i Paesi vicini. La Turchia e l'Iran, certo. Anche loro. Il Pkk deve capire che va lasciata strada alla diplomazia internazionale, anche se la Turchia non deve più passare in armi il confine come ha fatto l'estate scorsa'', dice l'ex guerrigliero. ''La strada è nota: la democrazia. Ma vale per tutti. Se non andasse così, beh...non esiterei un attimo a riprendere il fucile e a tornare in montagna. Quello che bisogna evitare è un conflitto intestino al mondo curdo. Il nostro popolo non capirebbe''.
Lasciando la città, direzione nord, si cominciano a intravedere le prime alture. L'anima del Kurdistan, dove la gente è legata a doppio filo alle sagome dei suoi monti, spesso rivelatisi un rifugio sicuro dalle repressioni del passato e del presente. La strada verso i monti Qandil si colora di verde, mentre il profilo del monte Titano segna uno spartiacque tra l'anima urbana e quella rurale della società curda. ''Sembra una donna stesa, vedi? Il naso, la bocca, il seno'', sottolinea Kawa, il giornalista curdo che ci accompagna. La strada si complica: sempre meno asfalto, sempre meno case. A Rania si cambia auto. Un vecchia jeep arriva scricchiolando. Scendono due uomini: saranno loro a portarci sui monti Qandil, per incontrare i guerriglieri. Non solo quelli del Pkk, ma anche quelli del Partito per una Vita Libera in Kurdistan (Pjak), il gruppo di curdi iraniani nato nel 2004. Uno tarchiato, l'altro smilzo e secco. Sorrisi e strette di mano. Senza il kalashnikov, uno si sentirebbe a casa. Dopo i primi chilometri di silenzio é la musica a rompere il ghiaccio. ''E' un canto della guerriglia'', risponde il guidatore. L'aspetto più ironico della vicenda è che entrambi gli accompagnatori sono del Puk, ma il Pkk non lo vedono affatto come un nemico. ''Non potremmo mai prendere le armi contro i nostri fratelli''. In lontananza un check-point dei governativi. Ci fanno scendere. L'autista passa al posto di controllo, mentre l'altro fa da guida lungo un fiumiciattolo che passa alle spalle del posto di blocco. Il governo del Kurdistan iracheno non vede di buon occhio chi si reca sui monti Qandil per incontrare la guerriglia. Dopo il passo la strada diventa sempre più impervia. Gli unici abitanti sono pastori. In prossimità di una roccia che si alza verso il cielo come un dito inquisitore, l'autista annuncia: ''Questa pietra segna il confine tra la zona sotto controllo dei partiti curdi iracheni e il Pkk''. Un punto che passerebbe inosservato assume, per i curdi, un significato profondo. Quello di un confine che esiste, se non nelle scelte politiche che ormai allontanano la leadership curdo-irachena dal Pkk. Ma che non esiste nella mente dei curdi, che abbatterebbero con ogni mezzo i confini che li sparpagliano in quattro stati da cento anni.

In lontananza spunta all'improvviso il volto di Abdullah Ocalan. Apo, per tutti i curdi. Un ritratto enorme, adagiato sul fianco di una montagna. ''I turchi l'hanno bombardato qualche giorno fa'', racconta divertita la guida, ''dopo qualche giorno era di nuovo al suo posto. Li provochiamo!''. Dopo ore di sassi, sterrati e strade impervie, spunta un altro check-point. Questa volta con la bandiera del Pkk.
''Ci dovete consegnare i cellulari. Vi verranno restituiti al ritorno'', annuncia il capo posto, un omone grande e grosso con due baffi enormi. Le divise stazzonate, le radio tenute in vita da pile legate con del nastro adesivo, la guardiola fatta di mattoni raffazzonati, ma il check-point rende un'idea di efficacia. Un guerrigliero più giovane ci consegna, in cambio dei telefoni, una ricevuta spiegazzata.
Arriva un camioncino. Si parte a velocità sostenuta, ci sono quattro miliziani. Due di loro sono donne. Ridono e scherzano. Poco dopo ecco una fattoria, dove tutta la famiglia viene fuori per salutare gli ospiti. ''Siete ospiti nostri e della famiglia di Ibrahim. Tra un po' torneremo per fare quattro chiacchiere''. Comincia il rito del tè e degli sguardi incuriositi dei bimbi di casa, mentre solo un miliziano resta di guardia. Tutt'intorno recinti dove sono ricoverati gli animali, muretti a secco e prati verdi. Le montagne come una corona. ''Viviamo bene qui, non ci manca niente'', racconta Ibrhaim, ''ho un piccolo spaccio e le bestie ci danno quello che ci serve. Ma da quando sono iniziati i bombardamenti, a dicembre dello scorso anno, non viviamo più. Tante famiglie sono scappate, centinaia. E adesso vivono da profughi a Rania. Nessuno fa nulla per loro, il governo se ne frega. Fanno fare alla Turchia tutto quello che vuole, fregandosene dei curdi in Turchia, solo il Pkk ci difende!''. Una famiglia di guerriglieri? ''Macché, siamo poveri contadini''. Poco dopo arriva un altro mezzo, con gli stessi uomini a bordo. Solo che questa volta con loro c'è un miliziano più anziano.
''Awal Denis'', si presenta stingendo la mano con presa d'acciaio. Awal è la parola curda che indica il singolo miliziano. ''Essere awal è più importante anche dell'essere fratello e sorella'', spiega Denis. ''Significa compagno, essere awal significa mettere l'uno la vita nelle mani dell'altro. Non ci sono cognomi qui, siamo tutti awal''. Anche per tenere al sicuro le famiglie dei guerriglieri in Turchia, in Iran, in Siria o in Iraq. Comincia un garbato e serrato interrogatorio. Awal Denis vuol sapere tutto dei suoi interlocutori. ''D'accordo, aspettate qui e vi verremo a trovare noi. Venire voi con noi? Non è possibile, tra un bombardamento e l'altro siamo sempre in movimento. La situazione è pericolosa, non permetteremmo mai che vi accadesse qualcosa. Darebbero subito la colpa a noi!'', conclude con un sorriso gelido.
La televisione è sintonizzata su uno dei tanti canali satellitari curdi. L'argomento del giorno è uno solo: le manifestazioni in tutta Europa delle comunità curde per la denuncia degli avvocati di Ocalan. Il leader sarebbe stato torturato nell'isola-fortezza di Imrali, in Turchia, dove si trova rinchiuso dal 1999. Nessuno fiata. Ormai è scesa la notte, ma all'improvviso spuntano i fari di un paio di pick-up. Ibrahim salta fuori, per ricevere come si deve gli ospiti importanti. Sono awal Bryar e awal Agri, rispettivamente delegato politico e delegato militare del comitato centrale del Pjak. ''Il Pjak è nato nel 2004. Il suo congresso ha eletto sette delegati al comitato centrale, che coordina tutte le attività dal movimento. Politiche, militari e sociali'', spiega awal Bryar, occhialetti da intellettuale e baffoni neri, seduto per terra con le gambe incrociate. ''Vi chiedete perché proprio il 2004? Secondo molti - spiega il dirigente del Pjak - la nascita del nostro gruppo è legata all'invasione dell'Iraq. Gli Usa si servirebbero di noi per destabilizzare il regime iraniano. Non è così! Non siamo mai stati finanziati da Washington e non lo accetteremmo mai. Gli Usa, insieme a Israele, forniscono i droni (aerei senza pilota) che individuano i movimenti dei guerriglieri del Pkk e del Pjak sulle montagne. Passano i dati alla Turchia che bombarda la nostra gente. Potremmo mai allearci con loro? Questa è la versione del governo di Teheran, che ha tutto l'interesse a mostrarci come agenti al soldo di una potenza nemica'', dice awal Bryar, aggiustandosi gli occhialetti e non alzando mai la voce.
''Il 2004 ha segnato solo il compimento di un lungo processo di presa di coscienza del popolo curdo in Iran. Noi subiamo, come tutte le altre minoranze iraniane, la repressione del centralismo persiano da decenni. Ahmadinejad non è che l'ultimo passaggio'', spiega il guerrigliero. ''Solo che, dopo l'invasione dell'Iraq e la sostanziale indipendenza del Kurdistan iracheno, gli stati confinanti hanno avuto paura di un effetto domino tra i curdi dei loro Paesi. E hanno incrementato la repressione. L'autodifesa è stata un passaggio necessario. Molti di noi avevano combattuto per anni nelle file del Pkk e l'arresto di Ocalan ha spinto tanti giovani verso la lotta armata. La repressione in Iran ha fatto il resto'', conclude Bryar, spegnendo la centesima sigaretta e sorseggiando l'ennesimo tè. Agri, il delegato militare, annuisce per tutto il tempo. La postura a gambe incrociate è una sofferenza per il suo fisico massiccio, a stento contenuto dalla divisa. Interviene all'improvviso: ''La strategia della Turchia e dell'Iran è chiara: vogliono militarizzare la zona al confine, spingendo la popolazione civile ad abbandonare la regione. Per toglierci il nostro supporto vitale, il rapporto con la nostra gente. Per questo motivo bombardano i monti Qandil e costruiscono il muro al posto di frontiera di Haji Omran, al confine tra Iran e Iraq. Queste operazioni non hanno alcun risultato pratico nel confronto militare: rendono solo un inferno la vita della gente che vive qui. Per costringerla ad andar via''.
La mattina dopo, di buon ora, le montagne Qandil sono avvolte da una fitta foschia. Il muro, con un clima così, risalta nel grigiore generale con i suoi paletti rossi. Una barriera di cemento per un tratto, una rete metallica per la parte ancora in costruzione. Non più di cinque chilometri, per il momento. Ma gru e betoniere dimostrano che non sono finiti i lavori. ''Dovete fare in fretta, abbiamo pochi minuti'', dice Sidwar, la guida. ''Vedete quella base militare? Ci sono gli americani, là dentro. A poche centinaia di metri dal confine con l'Iran...si possono guardare negli occhi''.
Una strada sterrata e contorta conduce a Lawji, minuscolo villaggio devastato dai bombardamenti. ''Ecco gli obiettivi militari dei turchi!'', esclama awal Roj, che si aggira tra le macerie, scalciando pezzi di un letto e il telaio di una finestra. La scena è desolante: un asino si aggira solitario tra quel che resta di case abitate da persone come tante. Un cd, una mappa, un libro di scuola. Tutto quello che resta di abitazioni innocue. Un cratere segnala il punto dove è caduta una bomba. Schegge, taglienti come lame, di un razzo sono ancora ben visibili. Porte e finestre sono tutte contorte, spinte in una posa innaturale verso l'interno. Come se un vento cattivo si fosse accanito, senza pietà, su quelle costruzioni. Tra le macerie awal Roj lascia un mazzetto di fiori. Con un bigliettino. ''Lo lasciamo in ogni casa distrutta. C'è scritto un vecchio proverbio curdo che dice 'il lupo è lupo quando ha il coraggio di combattere con un lupo, non quando combatte un agnello'. Questo è quello che pensiamo dei turchi''.
Dal villaggio bombardato si torna indietro. Verso le linee sicure per i guerriglieri del Pjak e del Pkk. Una piccola radura, un circolo di pick-up dei guerriglieri con kalashikov d'ordinanza.

Al centro del cerchio awal Bozan. Basta uno sguardo dei suoi occhi azzurro ghiaccio perché i miliziani attorno a lui si muovano all'istante. Alto e robusto, capelli sale e pepe. Sorriso aperto, ma non caldo. ''Non amo parlare di me e del mio passato'', dice secco, ''vi dico solo che sono nel Pkk da diciotto anni e sono il vice comandante del Kck. Il Kck è un sistema al quale fanno riferimento tutte le organizzazioni curde: militari, politiche, sociali, economiche. Ha un compito di coordinamento, ma ciascun gruppo è libero di decidere. Questo è importante, perché rispetta il principio del nostro leader Ocalan: l'emancipazione dei singoli per il bene collettivo''. Quindi il Pjak ha aperto un secondo fronte sulle montagne Qandil, riuscendo a mettere d'accordo Iran e Turchia nel combattervi, di testa sua? ''Certo, nessuno può impedire alla gente di difendersi. Se il loro processo di emancipazione ha portato alla lotta armata, è giusto così. Per i curdi, dopo il 2003, la pressione si è fatta enorme. Tutti gli stati hanno temuto che il Kurdistan iracheno diventasse la base per una rivolta in Turchia, Iran e Siria. Quei governi hanno reagito di conseguenza. E noi ci siamo dovuti difendere''. Solo un'autodifesa, dunque. Questo significa che sulla vostra aspirazione all'indipendenza si sbagliano. ''Certo che si sbagliano. La nostra strada è chiara, come l'ha indicata Ocalan. Noi puntiamo a una confederazione, che segni la fine degli stati nazionali e del nazionalismo. Se si risolve così il problema curdo si risolve il focolaio del Medio Oriente. E se si risolve il focolaio del Medio Oriente si risolvono i problemi di questo tempo''. Per portare avanti la vostra proposta, però, usate le armi. E per alcuni anche gli attentati contro i civili. ''Non è mai stato vero - risponde battendosi il pugno destro nel palmo della mano sinistra - lo sanno tutti che il Pkk colpisce solo obiettivi militari. Per difendere la sua gente dagli attacchi turchi. Gli attentati contro obiettivi civili in Turchia non sono opera nostra. Possono essere i servizi segreti turchi, oppure elementi curdi fuori controllo. Ma noi no. La stampa ci addossa queste responsabilità per screditarci e nessuno riporta anche il nostro parere''. Rispetto ai media turchi, più o meno, questo atteggiamento potrebbe essere comprensibile. Ma perché i media internazionali dovrebbero avercela con voi? La figura di Ocalan, per anni, è stata considerata quella di un leader importante. Poi è diventato un terrorista. ''Sul carisma di Ocalan non hanno alcun effetto le cose che vengono dette e scritte. Basta pensare alle folle che, spontaneamente, sono scese in piazza per difenderlo dalle torture che subisce. Arafat, per esempio. Prima terrorista, poi Nobel per la pace, poi terrorista. La stampa fa gli interessi del potere e il potere, in questo periodo storico, ha bisogno di fare di Ocalan un terrorista'', risponde awal Bozan. ''Il capitalismo mostra il suo volto peggiore, perché attraversa una crisi molto grave. Il Pkk, in questa regione, è l'unica reale forza di popolo, che si pone tra gli interessi degli Usa e dell'Ue e le potenze regionali, Iran e Arabia Saudita su tutte. Siamo un problema, perché fino a quando esisteremo noi - dice sorridendo il dirigente curdo - il progetto del Grande Medio Oriente degli Usa non si potrà realizzare. Noi non siamo in vendita. Non abbiamo bisogno di molto per vivere. Quel poco che ci serve ci arriva dai curdi della diaspora, che da tutto il mondo sostengono la nostra lotta. E dalla gente comune, che divide con noi quel poco che ha. In tanti ci davano per finiti quando hanno catturato illegalmente Ocalan...adesso può tornare a casa e dire a tutti che il Pkk è ancora qui. E non smetterà di lottare fino a quando i curdi saranno oppressi''. Il tempo è finito, awal Bozan saluta con un cenno del capo, mentre i suoi uomini si stringono attorno a lui. I pick-up vanno via in fila indiana, tra queste montagne che appartengono al silenzio.

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