http://it.peacereporter.net Kosovo, l'indipendenza e l'inganno Il viaggio per sentire il polso del Kosovo indipendente Pavarësi Sopa è nata il 17 febbraio del 2008, appena cinque minuti dopo la dichiarazione di indipendenza proclamata l'anno scorso dal premier Hashim Thaçi davanti al parlamento. È la prima figlia del nuovo Stato ed entrambi, lei e il Kosovo, hanno compiuto il loro primo anno di vita. Le immagini di Pavarësi, che letteralmente in albanese significa ‘Indipendenza', scorrono in tv al telegiornale delle venti su Rtk 1: è una bellissima bambina, rosa in volto e abbastanza in carne da far pensare che stia crescendo bene. Lo stesso non si può dire del suo coetaneo. A un anno dalla dichiarazione unilaterale di indipendenza, il Kosovo, nato con la benedizione degli Stati Uniti, ha molto lavoro da fare ed è lontano dal capire quali strade seguire, in particolare per l'integrazione delle minoranze etniche. Certo, la gente è ugualmente esplosa in un moto di gioia e di entusiasmo: i fuochi d'artificio, gli abiti a festa e i concerti di piazza hanno segnato la fiera appartenenza dei kosovari albanesi a un'entità ben distinta e separata dalla Serbia e dal passato; le bandiere blu del Kosovo, poche, e quelle rosse, onnipresenti, dell'Albania pure. Il 17 febbraio non era il giorno adatto per parlare di malanni e di carenze, ma già il giorno successivo, quando le luci della festa si sono spente e il Kosovo è tornato alla quotidianità, tutti, o quasi, tirando una coperta sempre troppo corta hanno ripreso a lamentarsi delle disfunzioni e anomalie di una nazione che più che zoppicare sembra essere rimasta seduta per terra: a galleggiare nel limbo non sono solo i serbi, ma anche i rom e gli stessi albanesi.
L'indipendenza, un anno dopo. Come è ovvio che sia, l'epicentro dei festeggiamenti è a Pristina, ma il punto nevralgico è settanta chilometri a nord, a Mitrovica. Raggiungere la moschea nel centro della città, è un'impresa; il minareto è come un miraggio che si allontana a ogni metro guadagnato. Il fiume rosso albanese ha invaso la strada e le vie secondarie hanno assunto il ruolo di affluenti. Nella piazza principale davanti alla moschea, due Hummer gialli - i grossi fuoristrada americani - con impianti audio da concerto, danno ritmo alla marea ondeggiante. La polizia è schierata all'inizio del ponte che divide i serbi dagli albanesi per evitare qualsiasi tipo di provocazione. Una volta dall'altra parte, lo scenario cambia totalmente. Il vento che soffia da nord tiene lontano i suoni della festa che sembra distante chilometri, ma che in realtà e a qualche centinaia di metri. Quella poca gente che c'è in giro si sforza di non volgere lo sguardo a sud. Il gestore di un caffè se ne sta seduto a un tavolo fumando una sigaretta: "Oggi potevo anche starmene a casa. La gente è uscita solo per andare a lavorare o a scuola. Anche il mercato è vuoto", dice con aria sconsolata. La città sembra a lutto e gran parte della popolazione è a Zvečan, una cittadina di diecimila abitanti poco lontana da Mitrovica, per ricevere l'abbraccio di una delegazione parlamentare in arrivo da Belgrado.
Festa e lutto. Nella notte tra il 17 e il 18 una morbida, silenziosa nevicata ha ricoperto tutto il Kosovo, rendendo il paesaggio bianco e uniforme. Le strade sono deserte: le tracce delle poche macchine che le percorrono sono immediatamente ricoperte dal soffice manto. Nel tratto che da Klina, attraverso Istok, porta a Mitrovica si incrociano solo jeep e mezzi pesanti della Kfor, la missione Nato presente sul territorio da dieci anni. Rispetto al giorno precedente, Mitrovica sud sembra un'altra città: la folla sorridente e felice, i colori della festa esaltati da un sole luminoso assomigliano a un lontano e sbiadito ricordo. Al contrario, Mitrovica nord ha assunto nuovamente i caratteri di un centro abitato. I caffè sono pieni di clienti e il mercato lungo la strada principale che taglia in due la "riserva" serba, è ricca di voci, di mani che valutano la merce in vendita, di donne con buste gialle cariche di prodotti tutti rigorosamente serbi. Qui la moneta di scambio è ancora il dinaro, quello di Belgrado, ma non è raro incontrare cartelli dove, timidamente, appaiono le prime conversioni in euro, la divisa corrente in tutto il Kosovo: "E' triste ammetterlo, ma dobbiamo adeguarci. D'altro canto gli stranieri che sono a Mitrovica pagano in euro; e poi non posso nascondere che fa comodo averne un po' da parte, vista la debolezza del dinaro", dice Petar che, nonostante la stazza, quasi scompare dietro le ceste di formaggio e i pani di grasso ordinatamente sistemati sul suo banco. Molte delle auto parcheggiate hanno targa serba, altrettante sono senza. Mi viene subito spiegato che quelle prive di targa sono macchine immatricolate in Kosovo: hanno la sigla Ks. Andarci in giro verrebbe vista dai serbi come una provocazione e così vengono montate e smontate non appena si supera il ponte, un pò per sano patriottismo serbo, un po' per evitare di ritrovarsi la macchina con qualche ricamo o, nella peggiore delle ipotesi, in fiamme. Le 'Tre Torri'. Sulla riva nord del fiume Ibar si stagliano alte nel cielo grigio le "Tre Torri", palazzi di oltre dieci piani dove vivono, fianco a fianco, porta a porta, famiglie serbe e albanesi. Intorno a queste sentinelle di cemento grigio si sono verificati, negli ultimi nove anni, ripetuti incidenti tra le due fazioni: lancio di pietre, scontri fisici e armati, esplosioni di granate. È molto difficile superare la diffidenza delle persone che vi abitano: intere famiglie vivono qui da anni sull'orlo di crisi nervose. Dopo aver bussato a molte porte che non si aprivano perché, forse, non piacevamo all'occhio che guardava attraverso lo spioncino, una si apre. Nascosta per metà da una pesante porta blindata, una donna serba sulla trentina con in braccio un bambino chiede quale sia il motivo della nostra visita: "Preferisco non parlare di questo palazzo, ho un bambino piccolo e ho molto da fare. Provate a un altro piano". Un ragazzino, che non deve aver superato da molto i dieci anni, ha assistito in disparte a tutta la scena con sguardo curioso. "Volete conoscere la mia famiglia? Vi accompagno io". Entriamo in ascensore. La cabina accenna un pigro sussulto, ma poi non parte. "Lo sapevo", dice il ragazzino, "funziona solo quando ne ha voglia. Andiamo a piedi".
La famiglia Milic. Slatan Milic, serbo, abita con la moglie e sei figli al terzo piano della Torre numero Uno. Come è usanza da queste, ci si toglie le scarpe prima di entrare in casa: soffici tappeti decorati ricoprono i freddi e probabilmente anonimi pavimenti. "Ma non lasciatele fuori, portatele dentro", ci dice Slatan. "C'è il rischio di non ritrovarle o che gli albanesi ci mettano qualcosa di sgradevole dentro". La casa è ampia e luminosa, i soffitti sono alti. Le grandi finestre del soggiorno guardano sul fiume e sulla parte meridionale della città. Slatan e la sua famiglia sono originari di Urosevac, una città a sud di Pristina. Nel 1999 i guerriglieri dell'Uçk gli bruciarono la casa. "Con mia moglie decidemmo che lei e i nostri bambini sarebbero dovuti andare via e che io, invece, sarei rimasto a Urosevac con mia madre e le mie tre zie". Fu la madre, dopo qualche tempo, a dirgli di raggiungere i figli e la moglie che nel frattempo avevano trovato posto in un centro di accoglienza allestito dalla Chiesa Ortodossa a Leposavic. "A guerra finita, sono tornato a Urosevac per cercare mia madre. Non trovai lei né le sue sorelle. Mi dissero che erano andate via, ma nessuno sapeva dove". Slatan le ha cercate a Belgrado, alla Croce Rossa, a Pristina. "Non so neanche se qualcuno ha avuto la pietà di seppellirle". I Milic hanno vissuto per sette anni e mezzo nel centro di Leposavic, poi la Chiesa gli ha offerto l'appartamento a Mitrovica, "fino a quando non troveremo una sistemazione definitiva", dice il figlio maggiore di Slatan. Non hanno nessun rapporto con gli albanesi del palazzo e con i vicini, "quelli della porta a fianco", sono pessimi. "Per loro noi non abbiamo diritto ad abitare qui, dicono che prima nel palazzo ci vivevano solo famiglie albanesi e si stava benissimo".
La famiglia Behrami. Nell'appartamento a fianco ci sono i Behrami, albanesi. La signora Jazide ci apre la porta e con modi affabili ci invita in casa. "Ma le scarpe portatele dentro... è meglio", bisbiglia la donna ripetendo, all'inverso, quanto aveva detto poco prima il suo vicino. È quasi ora di pranzo. Jazide è sola in casa e sta cucinando un pasticcio di patate: presto tornerà il resto della famiglia. Alla spicciolata, infatti, arrivano Sochoil, il capofamiglia, e i due figli Boujori e Ramadan. I Behrami, che vantano una parentela con Valon, il calciatore che ha giocato per quattro anni nella Lazio e adesso in Inghilterra nel West Ham, sono tutti nati e cresciuti a Mitrovica. Vivevano nel quartiere di Anka Spaic, "in una bella casa con un ettaro di terreno alle spalle". Poi nel 2000 furono cacciati dai serbi - così come altre centottanta famiglie albanesi, e acquistarono l'appartamento nella Torre Uno. "Allora c'erano solo due o tre appartamenti occupati da serbi, poi il governo di Belgrado ha cominciato a comprare appartamenti offrendo grosse somme agli albanesi. "Anche con me ci hanno provato, ma non ho ceduto", dice con fierezza Sochoil. "I serbi raccontano che gli appartamenti siano distribuiti dalla chiesa, ma non è vero. C'è Belgrado, dietro. Stranamente loro, i serbi, hanno gli appartamenti con vista sul fiume e controllano Mitrovica sud. Sono come delle guardie in un avamposto". Secondo Sochoil, tutti i serbi che vivono nelle Torri hanno armi e rice-trasmittenti. E che nell'ospedale di Mitrovica ci sarebbero gli uomini dei reparti speciali serbi che si fingono degenti, pronti a entrare in azione in caso di necessità. "Tutti sanno che nei sotterranei è rimasto intatto l'arsenale che lo stesso Milosevic predispose negli Anni '90, anche gli uomini della Kfor ne sono a conoscenza, ma tacciono. È risaputo che francesi e spagnoli sono dalla loro parte", dice Boujori rubando le parole al padre. A supporto di quanto affermato dal figlio, Sochoil aggiunge: "Quando ad abitare questi palazzi erano solo albanesi, i soldati venivano ogni giorno a fare controlli a tutte le ore, anche nel cuore della notte. Da quando sono arrivate le famiglie serbe, nessuno è più venuto". Il 31 dicembre scorso, una discussione tra un trafficante albanese di Djakovica e un serbo di chissà dove si è trasformata, dopo poco, in una sparatoria: un gruppo di serbi armati ha aperto il fuoco e Ramadan, il figlio minore dei Behrami, è rimasto ferito. "Era nel parco con gli amici. Un proiettile gli è entrato in pancia. Da allora ho giurato che non avrei mai più trattato con un serbo", ringhia Sochoil puntando l'indice verso l'alto. Ramadan, con un movimento meccanico di chi ha compiuto molte volte quel gesto, si alza la maglia e mostra lo squarcio sulla pancia fatto dai medici per estrargli il proiettile.
I rom di Cesmin Lug. Una bufera di neve si è abbattuta sulla città, la temperatura è scesa ancora: alla radio, il bollettino meteo della Kfor annuncia -12°C. Qualche chilometro a est della Mitrovica serba, c'è il campo di Cesmin Lug, il campo dove vive quel che rimane della comunità rom. Due file di baracche costruite con materiali di fortuna sono disposte lungo una stradina senza uscita. Il legno delle imposte e le lamiere dei tetti emettono dei sordi lamenti sotto lo sferzare del vento, implacabile e gelido. Ma i rom sembrano non avvertire il freddo. Tutto è normale. Una donna ha appena steso i panni: con i piedi nudi che affondano nella neve e con indosso una maglia a maniche corte, torna, senza fretta, verso casa. Una bambina con una maglietta di cotone arancione e pantaloni da tuta, gioca con una stalattite di ghiaccio brandendola come si fa con una spada: sorridendo mi sfida a duello. Bajrush, un uomo sulla quarantina, sta rinforzando la sua baracca con tavole di legno e l'aiuto di suo figlio. Con un cenno ci invita al riparo. Quasi subito, la rabbia erutta dalla sua bocca piena di oro: i denti, quelli veri, non sono molti. "Anche voi siete venuti a vedere in che stato viviamo? È facile fare notizia con noi, perché siamo folkloristici, vero? Poi tornate da dove siete venuti e nessuno muove un dito per aiutarci". La gente sta morendo avvelenata dal piombo. Le baracche di Cesmin Lug poggiano, infatti, su una bomba di veleno a lento rilascio, sul terreno contaminato della miniera di Trepca. Quando l'Unhcr, l'Alta Commissione Onu per i Rifugiati, predispose l'istallazione del campo nel 1999, si disse che i rom sarebbero rimasti là per un periodo massimo di 45 giorni. Sono passati dieci anni e quaranta delle originarie settantadue famiglie rom, vivono ancora in una decennale provvisorietà. La comunità, prima della guerra, viveva in un quartiere, il Roma Mahalla, che fu distrutto dagli albanesi subito dopo la fine del guerra. Le sue rovine giacciono ancora sulla sponda meridionale dell'Ibar. "In verità - dice Bajrush - a me la casa l'hanno ricostruita, ma io in mezzo agli albanesi non voglio andarci a vivere. La cosa più importante è la sicurezza, e io a Mitrovica sud non mi sento al sicuro". Anche altre famiglie hanno riavuto le case, ma hanno preferito spostarsi in un altro campo piuttosto che tornare a Roma Mahalla. I rom chiedono di avere una sistemazione dignitosa nella parte serba che considerano più tollerante. "Anche se non stiamo bene, Mitrovica nord è pur sempre una città multietnica: qua vivono serbi, albanesi e bosgnacchi, dall'altro lato c'è stata una vera pulizia etnica e ci sono solo albanesi", conclude Bajrush, che tornando a lavorare fuori, ci fa capire che la conversazione è finita. L'inganno, un anno dopo. Da Pec a Pristina, da Mitrovica a Urosevac è difficile trovare voci di consenso su come il "Progetto Kosovo" si stia sviluppando. In uno dei migliori ristoranti della capitale, dove è possibile mangiare pesce dell'Adriatico montenegrino e bere vini italiani e francesi, mi incontro con M. M., uno dei volti più noti della televisione kosovara fin dai tempi di Milosevic. Dice di essersi sempre battuto per un'informazione obiettiva e indipendente: "Molte volte, dal 1999, mi hanno chiesto di entrare in politica, per sfruttare la mia immagine, ma ho preferito rimanerne fuori". M. potrebbe essere indifferente a tutto quanto gli succede intorno: vive in una posizione di privilegio, in una bella casa, con la moglie e il figlio dodicenne. E inoltre può permettersi di viaggiare in Europa, un sogno per molti kosovari che non possono vantare un lavoro, soprattutto remunerativo. "Ma questo Kosovo non lo vuole nessuno", mi confida Mustafa, appoggiandomi una mano sul braccio. "Il Kosovo è un'invenzione dell'Onu, della Nato e degli Stati Uniti. Il kosovaro non esiste, noi siamo albanesi. Nessuno avrà il coraggio di raccontarti la verità, che tutti vorrebbero unirsi all'Albania. Abbiamo accettato un compromesso, tutto andava bene pur di staccarci da Belgrado". E poi, versando l'ultimo bicchiere di Chablis: "Noi ci stiamo ingannando, ma alla prossima generazione, a mio figlio, come farai a spiegare e a convincerli che non sono albanesi, ma che sono kosovari?". Già... chi dirà alla piccola Pavarësi che non è kosovara, ma albanese?
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