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28/12/2009
Trita Parsi "Ormai la rivolta non si ferma più"
"Siamo a un bivio, si va verso lo scontro finale"
Intervista di Maurizio Molinari
Trita Parsi, nato in Iranma cresciuto in Svezia, è un esperto di questioni mediorientali. E’ cofondatore e attuale presidente del National Iranian American Council.
Molinari
Stiamo andando verso una svolta nelle manifestazioni a Teheran: o ci sarà un compromesso o una delle due parti in lotta prevarrà sull’altra». Trita Parsi, direttore del «National Iranian American Council», la più rappresentativa organizzazione degli iraniani in America, interpreta le violenze in corso a Teheran come lo specchio «dell’incapacità da parte del regime di mettere a tacere l’opposizione popolare».
Perché la polizia ha fatto fuoco sui dimostranti?
«Le forze di sicurezza non sono più in grado di contenere le manifestazioni nelle strade perché coinvolgono migliaia di persone. Il presidente Mahmoud Ahmadinejad aveva considerato le proteste un capitolo chiuso, archiviato. Ma non è così perché oramai il movimento di opposizione è cresciuto rispetto alla fase in cui chiedeva solamente la riconta dei voti espressi alle scorse elezioni presidenziali».
Che cosa distingue, a suo avviso, le nuove proteste da quelle post-elettorali?
«Due fattori. Primo: si autorigenerano e dunque non dipendono più da alcun leader politico, non è più Mir Hossein Mousavi a guidare la piazza e non c’è una guida riconosciuta. A una protesta ne segue un’altra, portando nelle strade un numero crescente di persone comuni, a cominciare dai giovani e dalle donne. Secondo: l’obiettivo dei manifestanti non è più ridiscutere il risultato presidenziale ma contestare Ali Khamenei, la Guida Suprema della rivoluzione, considerato un despota, un vero e proprio dittatore. Al quale si chiede di lasciare al più presto il potere».
Dunque, che cosa può avvenire?
«Siamo in una fase di crescita delle manifestazioni. Il regime è stato preso alla sprovvista e la polizia, in difficoltà, spara, iniziando a uccidere».
Teme repressioni indiscriminate?
«Non siamo ancora all’escalation in grande stile delle violenze. Se Khamenei e i suoi seguaci avessero scelto di ordinare la repressione, avremmo visto non quattro ma centinaia di morti e la reazione dei manifestanti sarebbe stata durissima. Ciò che oramai è evidente a tutti è che nessuna delle due parti in campo è in grado di prevalere».
Si va a una resa dei conti?
«Siamo a un bivio: il regime e i manifestanti possono trovare un compromesso oppure andare verso un confronto totale, che si preannuncia molto doloroso. Saranno i prossimi giorni, le prossime settimane, a suggerire la direzione presa dagli eventi. Tutto può ancora avvenire».
Che cosa pensa dell’uccisione di Ali Mousavi?
«Non conosco la dinamica di quanto è avvenuto ma potrebbe essere stato un avvertimento recapitato dal regime a Mousavi per fargli capire che lui e la sua intera famiglia potrebbero pagare un prezzo molto alto se le proteste dovessero continuare. Si tratta però di un avvertimento destinato ad avere scarso esito perché, come dicevo, Mousavi non sembra più in grado di coordinare nulla. La fase in cui era lui il leader di riferimento è superata, anche se forse Ahmadinejad e Khamenei non se ne rendono ancora pienamente conto. Ciò che tiene banco in questo momento in Iran, e non solo nella capitale, è la rabbia della popolazione contro il despotismo di Ali Khamenei».
Come giudica le contromisure adottate dal presidente Ahmadinejad?
«Il presidente sembra oramai relegato in un ruolo marginale. All’estero parla solo del programma nucleare, ignorando cosa avviene in patria, è incapace di riportare l’ordine nelle piazze delle maggiori città e ha delegato la gestione delle forze di sicurezza a Khamenei. La sua debolezza politica è evidente. La soluzione della crisi non sembra più essere nelle sue mani».
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