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Gabriel Bertinetto Intervista Rouzbeh Parisi Al telefono da Parigi lo svedese Rouzbeh Parsi, esperto di Iran, ricercatore presso l’Istituto dell’Unione europea per gli studi sulla sicurezza (Euiss). L’opposizione senza guida oggi appare debole, dice, ma i vertici del potere sono divisi da lotte di fazione. Un anno fa il movimento d’opposizione era in piena fioritura. Ora le cose sembrano essere notevolmente cambiate. Cosa sta accadendo in Iran, dottor Parsi? «È vero, per qualche tempo dopo le elezioni dello scorso giugno la protesta popolare e la denuncia dei brogli nelle piazze era sotto gli occhi del mondo. Ma allora si produsse anche un fenomeno meno visibile esteriormente, e cioè l’approfondimento di una lotta interna all’élite del Paese. A poco a poco lo scontro politico-sociale in Iran si è trasformato nello sforzo di logorare gli avversari da parte del potere, ma anche in una sorta di guerra di posizione che coinvolgeva varie fazioni in modo confuso e non sistematico. In generale potremmo dire che gli eventi succedutisi nell’ultimo anno hanno scosso le fondamenta della Repubblica islamica, ed il processo non ha ancora trovato un suo assestamento». La forza d’urto della cosiddetta onda verde si è smorzata? Per quali ragioni? «La questione è complessa. In linea di massima potremmo dire che nella realtà iraniana attuale l’energia di un soggetto si manifesta in maniera direttamente proporzionale alla debolezza dell’altro. La disorganizzazione dello Stato ha favorito l’emersione di forze antagoniste. In una prima fase la repressione non ha fatto altro che riattizzare il fuoco della contestazione, anche perché il movimento antigovernativo non aveva una sua centralità organizzativa. Il potere non sapeva dove colpire. Ma alla lunga la dispersione e lo scarso coordinamento delle iniziative, che aveva avvantaggiato inizialmente gli oppositori, si sono ritorti a loro danno. Se non c’è una struttura direttiva, la mobilitazione prima o poi si spegne». La pluralità un po’ anarchica delle azioni di lotta è frutto di una scelta, è dipesa dal caso, oppure ancora da uno stato di necessità? «Non è stata certamente una cosa voluta. Cercavano di organizzarsi, ma non ci riuscivano». Vuol dire che i vari leader, da Moussavi a Khatami a Karroubi non sono all’altezza? «Bisogna sottrarsi alla tentazione di romanticizzare la figura del leader, soprattutto nel particolare contesto odierno della crisi iraniana. Non dico che le performance dell’opposizione non migliorino anche grazie alla bravura dei dirigenti, ma non è questo il fattore principale. Il cuore del problema risiede nel fatto che l’onda verde non scorre nel vuoto, ma si muove in uno stretto intreccio con il cosiddetto establishment. L’opposizione attraversa lo stesso schieramento conservatore. Il Parlamento ed il suo presidente Larijani in particolare sono ostili ad Ahmadinejad pur appartenendo alla medesima area politica in senso globale». Alcuni analisti notano una profonda frattura in particolare all’interno del clero. È così? «Sì. Ed aggiungerei che il presunto carattere teocratico della Repubblica islamica non impedisce che la condivisione dei suoi valori fondamentali sia limitata ad una ristretta minoranza di persone, anche fra i religiosi. Sono sicuro che perfino a Qom, la città santa, i fautori della sottomissione dello Stato al clero rimarrebbero sconfitti se si potesse liberamente scegliere con voto segreto in un referendum. Non solo dallo scorso giugno, ma già da dieci o quindici anni, molti protagonisti della rivoluzione khomeinista hanno cambiato radicalmente opinione. Oggi i leader religiosi per lo più tacciono o subiscono passivamente. Solo una sparuta minoranza si pronuncia apertamente a favore di Ahmadinejad e Khamenei. E degli ayatollah politicizzati la maggioranza è contro sia l’uno che l’altro. Persino i Pasdaran, i Guardiani della rivoluzione, non sono monoliticamente uniti. Le divisioni della società si riflettono anche nei corpi di sicurezza». Se il regime è così lacerato a ogni livello e in ogni settore, viene spontaneo chiedersi: com’è che resta in piedi? «Per l’assenza di un’alternativa. E poi perché il concetto di opposizione in Iran oggi sfugge alla logica del sistema binario. Esiste piuttosto un continuum che nella società e nelle istituzioni si articola attraverso diversi gradi di disaffezione verso il potere statale. Ci sono persone deluse per il cattivo andamento economico, indignate per la frode elettorale, turbate per la repressione, etc. Non costituiscono però un blocco compatto». L’opposizione più che un movimento è allora uno stato d’animo? «In parte. Esiste comunque un trend che può sfociare nel rovesciamento del regime. Benché le autorità si sforzino di convincere che il Paese è tornato alla normalità, le cose stanno diversamente. Non sono state affatto intelligenti nel gestire la crisi. L’eccesso di repressione può nuocere a loro stesse. Un potere tirannico può reggere anche avendo un consenso limitato al 10% della nazione, solo se agisce in maniera tale che il 50 o 60% rimanga in uno stato di neutralità o indifferenza. Il ché non si concilia con l’arroganza di cui danno prova in questa fase, che rischia di risvegliare sezioni del Paese potenzialmente disposte a tollerare senza ribellarsi». La Repubblica islamica è ormai diventata un regime militare, sostengono alcuni osservatori. È d’accordo? «In parte è così, ma bisogna avere presente che i corpi militari in Iran non si occupano solo di armi e sicurezza. Sono inseriti nel mondo degli affari e del commercio. Gestiscono fondi pensionistici. Posseggono imprese di costruzione. Sono un establishment in divisa economicamente molto attivo. Le istituzioni militari si sono per così dire sciolte nella vita e nelle attività sociali».
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