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Dicembre 2010

Tamburi di Guerra di Nuovo in Israele
di Ilan Pappe

Ilan Pappe è co-autore insieme a Noam Chomsky di “Ultima fermata: Gaza”
ed Ponte delle Grazie.
Traduzione in italiano per Nena News a cura di Barbara Antonelli

Ancora una volta ascoltiamo tamburi di Guerra in Israele e risuonano perché è ancora una volta l’invincibilità di Israele ad essere in discussione. Nonostante la trionfante retorica dei reportage commemorativi apparsi nei diversi media, due anni dopo “Piombo Fuso”, il sentimento è che quella campagna fu un fallimento tanto quanto lo è stata la seconda guerra del Libano del 2006. Sfortunatamente, i leader, i generali e la maggior parte dell’opinione pubblica nello stato ebraico, conoscono solo un modo per affrontare le sconfitte e i fiaschi militari. Possono trovare riscatto solo attraverso un’altra operazione di successo o una guerra, basta che siano condotte con maggiore forza e crudeltà della precedente, con la speranza di ottenere migliori risultati al prossimo round.

Forza e potenza, così come sono spiegate dai commentatori di punta nei media locali (ripetendo a pappagallo ciò che ascoltano dai generali dell’esercito) sono necessarie come “deterrente”, “per dare una lezione”, e per “indebolire” il nemico. Non esiste un nuovo piano per Gaza – non c’è il vero desiderio di occuparla e metterla sotto diretto controllo israeliano. C’è l’intenzione di abbattere la Striscia e la sua popolazione ancora una volta, ma con più brutalità e per un lasso di tempo più breve. Ci si potrebbe chiedere, perché questa volta dovrebbe portare  a risultati diversi da quelli ottenuti con Operazione Piombo Fuso? Domanda sbagliata. La questione è, cosa altro l’attuale elite politica e militare di Israele (che include il governo e i maggiori partiti di opposizione) fa?

Hanno saputo per anni cosa fare in Cisgiordania, colonizzare, ripulire etnicamente, dissezionare l’area fino alla morte, mentre pubblicamente sono rimasti fedeli al futile discorso della pace o piuttosto del “processo di pace”. Il risultato finale che ci si aspetta è una docile Autorità Palestinese all’interno di una Cisgiordania pesantemente “giudaizzata”. Ma non sanno assolutamente cosa fare per gestire la situazione della Striscia di Gaza, da quando Ariel Sharon ha attuato il piano di “disimpegno”. La riluttanza della popolazione di Gaza a essere distaccata dalla Cisgiordania, e dal mondo, sembra molto più difficile da sconfiggere, anche dopo la terribile perdita umana che i palestinesi di Gaza hanno pagato nel dicembre 2008 per la loro resistenza e sfida.

Lo scenario per il prossimo round si sta schiudendo davanti ai nostri occhi e somiglia in modo deprimente alla stessa situazione in via di deterioramento che ha preceduto il massacro di Gaza due anni fa: bombardamenti quotidiani sulla Striscia e una politica che tenta di provocare Hamas così da giustificare un maggior numero di attacchi. Come un ufficiale dell’esercito ha spiegato, c’è al momento la necessità di tener conto dei danni provocati dal rapporto Goldstone: vale a dire che il prossimo grande attacco dovrà apparire più convincente di quello del 2009 (ma questa preoccupazione potrebbe non essere così cruciale per questo governo; né servirebbe da ostacolo).

Così come sempre in questa parte del mondo, altri scenari sono possibili, meno sanguinosi e forse più promettenti. Ma è difficile immaginare chi possa dare vita a un futuro diverso a breve termine: la infida amministrazione di Obama? Gli incapaci regimi arabi? La timida Europa o le disabili Nazioni Unite? La risolutezza della popolazione di Gaza e quella dei palestinesi in generale comporta che la grandiosa strategia israeliana che vuole che  questa risolutezza appassisca – come il fondatore del movimento sionista, Theodore Herzl, sperò di fare con la popolazione nativa della Palestina già alla fine del XIX secolo – non funzionerà. Ma il prezzo potrebbe salire ancora ed è ora per tutti quelli che hanno fatto sentire la loro voce con forza e vigore DOPO il massacro di Gaza due anni fa, di farla sentire ADESSO, e cercare di prevenire il prossimo.

Questa voce viene descritta in Israele come il tentativo di “delegittimare” lo Stato ebraico. E’ l’unica voce che sembra preoccupare seriamente il governo e l’elite intellettuale di Israele ( molto più irritante per loro di qualsiasi condanna soft da parte di Hillary Clinton o dell’Unione Europea). Il primo tentativo di contrastare questa voce è stato rivendicare che la delegittimazione era antisemitismo camuffato.  Ciò sembra aver avuto un effetto contrario da quando Israele ha preteso di sapere chi nel mondo sostenesse le sue politiche; è venuto fuori che i soli sostenitori entusiasti della politica israeliana del mondo occidentale oggi sono organizzazioni e politici dell’estrema destra, tradizionalmente antisemiti.  Il secondo tentativo è tentare di argomentare che gli sforzi sotto forma di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni, renderanno Israele ancora più determinato a continuare a essere uno stato canaglia. Si tratta però di una vuota minaccia: le politiche israeliane non sono generate da questa voce morale e onesta; al contrario, questa voce è uno dei pochi fattori che fa da contenimento alla politica aggressiva, e chissà quando, se in futuro i governi occidentali si uniranno alle opinioni del loro pubblico, come è avvenuto alla fine nel caso dell’apartheid in Sud Africa, si potrebbe anche arrivare alla fine di queste politiche e permettere a ebrei e arabi  di vivere in pace in Israele e Palestina.

Questa voce è efficace perché mostra chiaramente la relazione tra il carattere razzista dello stato e la natura criminale delle sue politiche nei confronti dei palestinesi. La voce si è trasformata recentemente in una campagna organizzata e definita con lucidità , con un messaggio chiaro: Israele rimarrà uno stato reietto fino a quando la sua costituzione, le sue leggi e politiche continueranno a violare i diritti umani e civili dei palestinesi, dovunque essi siano, incluso il diritto a vivere e esistere.

Ciò che è necessario oggi è che la nobile ma totalmente futile energia dispiegata dal campo della pace israeliano, così come avviene in occidente nel concetto di “co-esistenza” e nei progetti di “dialogo”, sia reinvestita nel tentativo di evitare un altro capitolo di genocidio nella storia della guerra di Israele nei confronti dei palestinesi, prima che sia troppo tardi.

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