Pubblicato da Il manifesto il 7 agosto. Il troppo lungo addio del presidente di ferro
BOGOTÁ, 9 agosto 2010 (IPS) - Il presidente colombiano Álvaro Uribe finisce oggi i suoi due mandati consecutivi, con il 75 per cento dei consensi popolari e un riconoscimento internazionale chiave, dopo la nomina la scorsa settimana da parte delle Nazioni unite a membro della commissione di inchiesta sull’attacco israeliano al convoglio umanitario diretto a Gaza. “Mano dura, cuore grande” è lo slogan della fortunata campagna che lo aveva portato per la prima volta al governo nel 2002, coniato dopo il fallimento di un ennesimo tentativo di pace con la guerriglia. Oltre alla guerra senza quartiere, il motto che ha fatto da sfondo agli otto anni della sua presidenza è stato “lavoro, lavoro, lavoro”. I colombiani hanno visto per la prima volta un leader viaggiare per il paese. L’immagine costruita di uomo “sincero” e “diretto” ha convinto molti che si trattava del miglior leader nella storia della Colombia. Ha vinto il secondo mandato avvalendosi di metodi, ritenuti illegali, fatti eseguire da terzi, un sistema che ha cercato di riproporre per un terzo mandato, finché la Corte costituzionale gli ha sbarrato il passo. Il suo grande argomento è sempre stato la popolarità, che ai suoi minimi storici ha sfiorato il 64 per cento. Uribe esce di scena tra gli scandali, e i suoi critici più feroci si dilettano tracciando parallelismi con Alberto Fujimori, che dopo aver governato il Perù dal 1990 al 2000 è stato condannato per corruzione e violazioni dei diritti umani. Poche ore dopo aver concluso il mandato si è scagliato ancora una volta contro la giustizia, che sta chiamando a rispondere i suoi parenti e alleati politici. Il suo governo ha usato fondi riservati alla sicurezza per indagare su magistrati delle corti di giustizia, difensori dei diritti umani, oppositori e giornalisti, secondo le rivelazioni di un ex alto funzionario dell’intelligence colombiana Das. La sua insistenza per i risultati militari e la sua politica delle ricompense hanno portato ai “falsi positivi”, gli omicidi sistematici di civili poi spacciati per uccisioni di guerriglieri in combattimento. Casi che costituiscono il peso maggiore del suo mandato: i diritti umani. Ha finito paradossalmente per rafforzare gli argomenti della guerra affrontata sul piano militare, e ha consegnato alle famiglie più ricche gli allettanti sussidi Agro Ingreso Seguro, nati per aiutare i settori colpiti dal Trattato di libero commercio con gli Usa, che alla fine non si è concretizzato. Sullo scenario estero spiccano la rottura delle relazioni con l’Ecuador, dopo l’attacco colombiano contro un accampamento militare temporaneo delle Farc nel paese vicino per evitare i negoziati internazionali in un episodio di cattura di ostaggi con uno dei loro capi. E la rottura con il Venezuela, dopo aver accusato il governo di Hugo Chávez di ospitare guerriglieri nel suo territorio. Grazie ai finanziamenti esteri ha ampliato la propria presenza militare. Ha riorganizzato le forze militari, che hanno conquistato e mantengono il controllo dei centri economici chiave, compreso le strade principali. Secondo l’Observatorio del Conflicto Armado de la Corporación Nuevo Arco Iris (Cnai), Uribe ha ridotto al 40 per cento le forze della guerriglia, anche se resta da recuperare metà del paese. I combattimenti si sono spostati nel resto del territorio, dove prima gli scontri non erano più intensi, e colpiscono il 40 per cento della popolazione. “In generale, le Farc mantengono la loro capacità militare e la forza pubblica ha consolidato il proprio controllo nel centro del paese”, secondo il Cnai. Il paese ha quasi raddoppiato le truppe militari, che superano le 445mila unità. Le spese per la difesa si aggirano intorno al 3,2 per cento del Pil, secondo il dipartimento nazionale di pianificazione, o al 6 per cento, secondo analisti indipendenti. Mentre la forza pubblica si è concentrata nella guerra alle Farc, sono nati e hanno prosperato altri gruppi irregolari di estrema destra. Il Cnai ha avvertito alla fine del 2009 che, ancora una volta, l’interminabile conflitto armato è impantanato. Il trattato che apre le basi colombiane agli Usa dimostra l’ostinazione con cui si vuole risolvere la guerra interna militarmente. “Le élite economiche e politiche locali continuano a fare uso di gruppi illegali per mantenere o espandere i loro capitali”, sentenzia l’analista del Cnai Ariel Ávila. Nel frattempo, la grande preoccupazione è l’insicurezza urbana, probabilmente legata alla mobilitazione di migliaia di paramilitari. © Il manifesto
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