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30 novembre 2010

Ecco Come Continua l’Assedio di Gaza

Malgrado la presunta politica di "alleggerimento" di Israele, la Striscia rimane stretta nella morsa. Nessun impatto reale da giugno ad oggi sui civili: lo dice un rapporto di oltre 20 gruppi umanitari.

Gerusalemme, 30 novembre 2010, Nena News

Minimi, praticamente nulli, i cambiamenti sulla vita quotidiana di 1,5 milioni di palestinesi a Gaza, dopo le azioni annunciate a metà giugno e intraprese dal governo israeliano, per “alleggerire” il blocco su Gaza. Una politica di “alleggerimento” che prevedeva l’ingresso di materiali e merci fino ad allora proibiti, da destinarsi solo ad agenzie internazionali e non ad uso di privati. Gaza rimane una enclave sotto assedio, lo dice un rapporto presentato martedì da una coalizione di 21 agenzie e gruppi internazionali che operano in difesa dei diritti umani, tra cui Amnesty International, CAFOD, Oxfam, Paz Christi International. Gruppi che oggi fanno nuovamente appello alla comunità internazionale perché assicuri la fine immediata e senza condizioni del blocco che soffoca Gaza da tre anni e che Israele aveva promesso di “alleggerire” in seguito alle pressioni internazionali derivate dall’uccisione, ad opera delle forze armate israeliane lo scorso 31 maggio, di 9 attivisti del convoglio umanitario Freedom Flottilla.

“Speranze infrante”, così si intitola il documento, che accusa Israele non solo di non aver affrontato i principali problemi derivanti dal blocco, attraverso azioni concrete, come riaprire l’export di merci da Gaza, ma anche di non aver rispettato alcuno degli impegni presi con gli annunci che il governo Netanyahu fece lo scorso giugno.  “Il cosiddetto “alleggerimento” non ha mutato la realtà dei fatti, cioè un blocco crudele e illegale che punisce collettivamente l’intera popolazione civile di Gaza” ha dichiarato il direttore UK di Amnesty International, Kate Allen.

Immediate le reazioni da parte israeliana: il COGAT, l’unità di coordinamento tra Ministero della Difesa, ANP e agenzie internazionali, responsabile per le attività nei territori palestinesi e il coordinamento con Gaza, ha definito le accuse delle organizzazioni “parziali e distorte”.

L’ingresso dei materiali da costruzione

Ma i dati del rapporto raccontano un’altra versione dei fatti: tra gli impegni presi dall’amministrazione israeliana, figurava consentire l’ingresso nella Striscia dei materiali da costruzione destinati  alle agenzie ONU e ai progetti finanziati dalla comunità internazionale, per permettere la ricostruzione di scuole, centri sanitari, ospedali, abitazioni private, sistemi di purificazione dell’acqua, ancora in macerie perché distrutti o danneggiati dalle operazioni militari israeliane del terribile attacco a Gaza, denominato Operazione Piombo Fuso, tra dicembre 2008 e gennaio 2009.

Nonostante il “battage” mediatico e le dichiarazioni di Netanyahu , secondo i dati del documento, Israele ha di fatto consentito  l’import di materiali da costruzione solamente per 25 progetti di riedificazione di scuole e cliniche gestiti dall’UNRWA, l’agenzia ONU dei profughi, cioè solo il 7% dell’intero piano stanziato dalla stessa agenzia per la ricostruzione di Gaza. Anche per i progetti già approvati, solo una bassissima percentuale dei materiali effettivamente necessari hanno fatto accesso a Gaza.

Secondo le stime delle Nazioni Unite, Gaza e la sua popolazione avrebbero bisogno – soltanto per la ricostruzione delle abitazioni- di almeno 670.000 carichi di materiali. Dalla data dell’annunciato “alleggerimento”, solo 715 camion di materiali da costruzione sono entrati, mensilmente, in quella che da anni è ormai denominata “una prigione a cielo aperto”. Con questi ritmi, serviranno decine di anni per sopperire ai bisogni abitativi dei gazaui, dicono i gruppi umanitari.

Lo stesso vale per le scuole: anche in questo caso, l’UNRWA non è riuscita a terminare la costruzione di nuove scuole, lasciando cosi 40.000 studenti per strada dall’inizio dell’anno scolastico.

La paralisi economica: no all’export

Janet Symes, a capo della sezione Medio Oriente per Christian Aid, ha sottolineato come “il continuo divieto imposto all’export” abbia paralizzato totalmente l’economia di Gaza. Una comunità devastata psicologicamente dalla dipendenza dall’aiuto umanitario.

Le facilitazioni nell’ingresso delle merci a Gaza hanno riguardato soprattutto cibo e prodotti di largo consumo, ma la politica di “alleggerimento” non ha avuto alcuna ripercussione pratica sull’export, che di fatto rimane ad oggi paralizzato; con conseguenze disastrose per i due terzi delle industrie di Gaza che rimangono chiuse, e con le restanti compagnie del terzo settore che operano in modalità ridotta. Anni di assedio hanno avuto effetti devastanti sui produttori locali, le cui merci sono state sostituite da quelle di importazione. A ben poco servono gli annunci del COGAT, rilanciate dalla stampa israeliana, sull’export recentemente consentito (dal 28 novembre) di carichi di fragole, pomodori ciliegia e fiori prodotti nella Striscia. Esportazioni che ancora una volta sono strettamente soggette alle condizioni imposte da Israele e collegate al cambiamento di logistica del valico di Kerem Shalom, con il suo rinnovamento previsto per metà del 2011, che vedrà in accordo con la UE, un controllo congiunto dello stesso valico tra Israele e Autorità Nazionale Palestinese.

Da Gaza non si esce

Nessun cambiamento nemmeno per il blocco navale che rimane in vigore né per la libertà di movimento della popolazione. Anzi secondo il rapporto la percentuale dei rifiuti alle richieste di permessi di ingresso e uscita da/per Gaza per lo staff locale delle agenzie di aiuti umanitari, è addirittura aumentata dall’estate. Mentre la popolazione civile rimane di fatto in prigione: permessi di viaggio, lavoro , studio e ricongiungimenti familiari vengono a tutt’oggi negati, e il numero dei palestinesi che lascia Gaza attraverso Erez (il principale punto di accesso e uscita dalla Striscia da/per Israele) rimane al di sotto dell’1% , rispetto ai numeri anteriori alla seconda Intifada. Nena News

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