da il Fatto Quotidiano del 16 settembre 2010 Ecco come stanno svuotando la Costituzione Pubblichiamo il testo della video-intervista su “La questione morale”, promossa dall’associazione “Il Libro Ritrovato” e presentata ieri sera al teatro Carignano di Torino, che Marco Travaglio ha realizzato con Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Corte costituzionale, dal titolo “La Guardia è stanca“. La prima domanda che viene da fare a un ex presidente della Corte costituzionale che si ostina a difendere la Costituzione è: qual è lo stato di salute della Carta oggi? L’impressione è che molti temano che la Costituzione venga cambiata, sconvolta, modificata, ma che il peggio sia già avvenuto, che la Costituzione sia già stata cambiata senza nemmeno toccarla, svuotata dall’interno lasciando soltanto la corteccia. Infatti si dà per scontato che, su quella scritta, prevalga una non meglio precisata “Costituzione materiale”… Questo discorso che fai sulla Costituzione si potrebbe fare sulla democrazia più in generale. Costituzione e democrazia sono degli involucri, bisogna vedere cosa c’è dentro: è più importante quello che c’è fuori o quello che c’è dentro? Questa è una domanda che ti farei socraticamente. Volendo usare un’altra immagine: sono più importanti le regole formali o gli uomini che fanno funzionare le regole? È una domanda antica: sono più importanti le istituzioni o la qualità degli uomini? Normalmente si dice: le istituzioni sono molto importanti, ma non c’è nessuna buona istituzione o Costituzione che può dare dei buoni risultati, se è in mano a un personale politico di infimo livello. Viceversa una mediocre Costituzione può dare luogo a risultati accettabili se è manipolata, usata da un personale politico a sua volta eticamente accettabile. Dico eticamente perché bisogna avere il coraggio di ripristinare alcune categorie, alcune parole: quando si dice “eticamente” a proposito della politica, non si fa del moralismo, si indica semplicemente la necessità che coloro che occupano posizioni pubbliche siano consapevoli e coerenti con l’ethos che quella funzione comporta. In generale, la Costituzione stabilisce, prevede, auspica che coloro che occupano posizioni pubbliche adempiano alle relative funzioni “con disciplina e onore”: che parole desuete, sembrano quasi delle prese in giro… È l’articolo 54, ma nessuno lo conosce. Infatti, in tanti anni di esami all’università, credo di non averlo mai indicato come oggetto di una possibile domanda. Onore e disciplina: purtroppo sono quelle norme che non hanno sanzione, che indicano addirittura il presupposto di una decente vita pubblica prima di tutto, prima ancora che democratica. Quindi, tornando a noi, allo stato di salute della Costituzione: dal punto di vista formale, la nostra Costituzione dimostra di essere fortissima, sono più di 30 anni che ci si arrabatta per modificarla nelle parti essenziali, senza che nessuno sia mai riuscito a stravolgerla dal punto di vista formale. Ma dal punto di vista sostanziale naturalmente le cose stanno diversamente. Per cui sono dell’idea che oggi non si tratti tanto di difendere la Costituzione, ma di ripristinarla: è un compito molto più impegnativo perché oggi il 90 per cento delle nostre forze politiche in Parlamento vogliono cambiarla. Però non basta volerla cambiare: bisognerebbe essere d’accordo sul come cambiarla, e lì si crea il blocco. Questo le dà una grande forza: la Costituzione come documento formale è importante che resti, perché è pur sempre un punto di riferimento ideale, in base al quale si possono condurre determinate battaglie civili. Ma l’oggetto delle battaglie non è il testo costituzionale, ma la realtà costituzionale, l’ethos, i princìpi che la Costituzione indica. Il punto principale è la concezione della democrazia. Si è realizzata, nei fatti, una trasformazione che definirei proprio un rovesciamento della concezione della democrazia. Prendiamo la legge elettorale come sintomo: essa è l’espressione più evidente del rovesciamento del principio di sovranità. La sovranità in una democrazia comporta prima di tutto che i rappresentati eleggano i propri rappresentanti. Ma, con la legge elettorale attuale, per i motivi che tutti conosciamo, i capi-partito nominano i loro rappresentanti. E il corpo elettorale è lì a fare che? A distribuire le quote dell’azionariato politico dei vertici dei partiti. Forse un punto debole della Costituzione, o almeno di chi dovrebbe garantirne i principi fondamentali, è che assistiamo continuamente alla coesistenza di una Costituzione che dice una cosa e di leggi che dicono esattamente il contrario, consentendo una serie di prassi che sono totalmente antitetiche rispetto a quello che prevede la Costituzione. Allora una persona semplice si domanda: ma com’è possibile che non sia intervenuto nessuno a bloccare o a cancellare o a fulminare una legge elettorale così palesemente incostituzionale? Manca qualche valvola di salvaguardia, nel sistema costituzionale? Qui si entra in una discussione molto tecnica. Che questa legge sia palesemente incostituzionale non saprei dirlo: qual è la norma che viene violata? Bisognerebbe tenere distinto il giudizio di costituzionalità freddo, scientifico, giuridico. Dunque qual è la norma che viene violata dall’attuale legge elettorale? Sono decenni che si dice, per esempio, che le preferenze sono una cosa negativa, perché quando c’erano le preferenze plurime si facevano “cordate” molto permeabili agli interessi mafiosi. Poi si è passati alla preferenza unica, che però ha scatenato la lotta di tutti contro tutti: l’elezione è diventata molto costosa e questo ha favorito in linea di principio i gruppi di potere che disponevano di risorse economiche. Dunque l’abolizione delle preferenze e il premio di maggioranza non appaiono incostituzionali, anche perché l’abolizione delle preferenze non esclude che i partiti democraticamente si aprano alla società civile con qualche meccanismo che dia voce ai cittadini-elettori facendoli sentire padroni del meccanismo e non semplicemente clienti che vanno a votare su opzioni già prese da altri. Invece non è stato così, e questo rovesciamento dei rapporti fra cittadino ed eletto ha fatto scadere la qualità della nostra rappresentanza: quando sono i vertici che scelgono i propri rappresentanti, privilegeranno gente di fiducia, uomini e donne di fatica. E questo con la democrazia non ha molto a che vedere. I candidati vengono cooptati in base al servilismo e alla fedeltà… Quindi poi, nell’equilibrio tra i poteri costituzionali, il Parlamento oggi fa la figura non dico neanche dell’incomodo, ma del superfluo. Tant’è vero qualcuno ha detto: non aboliamolo tout court, ma…facciamo votare soltanto i capigruppo. I capigruppo in proporzione al peso elettorale… Poi di fatto il Parlamento viene emarginato con i voti di fiducia… Nessuno se lo ricorda più, ma il Parlamento dovrebbe essere il primo organo di controllo del governo: abbiamo perso proprio l’essenza del Parlamento, considerato ormai come un luogo dove si mette il timbro su decisioni prese altrove. Che poi sono perlopiù leggi per sistemare problemi personali o di poche combriccole… Abbiamo tutti, o molti, certamente noi due, la sensazione che questa legge elettorale sia uno stravolgimento dei principi della democrazia. Ma non è facile individuare la norma specifica che viene violata. È tutta una concezione che viene messa in crisi. Lo stesso vale per le leggi ad personam: sono tutte formulate in termini generali. Se si fa uno scudo penale per l’attuale presidente del Consiglio, si fa una legge che riguarda il presidente del Consiglio, cioè la carica e non la persona. Se si fa il “processo breve”, si dice che è nell’interesse della generalità dei cittadini avere processi brevi (anche se poi “processo breve” è un eufemismo: questo è il processo morto…). Tutte queste leggi e non potrebbe essere diversamente si presentano formalmente in termini generali, perché è chiaro che, se si facesse una legge che esplicitamente si riferisce a Tizio o Caio, con il nome e il cognome, non avrebbe alcuna possibilità di passare… Sarebbe uno sconcio tale che gli organi di controllo interverrebbero. Tutti sanno che certe leggi si fanno per Tizio o Caio, il nome c’è eccome: la sostanza è individuale, particolare, ma la forma è generale. E come fa la Corte costituzionale a bocciarle? Il fatto che ci siano delle leggi che noi tutti consideriamo prodotte da una mentalità malata ma che non violano specificamente una norma costituzionale precisa, non vuol dire affatto che queste leggi vadano bene: vuol dire che violano addirittura i presupposti, quei principi che sono così fondamentali che non c’è neanche bisogno di esplicitarli. Se avessero previsto questa classe politica, forse i Costituenti avrebbero aggiunto qualche premessa alla Costituzione… Le difficoltà della nostra democrazia e della nostra Costituzione, secondo me, si radicano su un terreno primordiale. Poi ci sono questioni che dovrebbero essere affrontate con gli strumenti dell’etica politica, della diffusione di una cultura politica. La vita costituzionale ha bisogno di questo humus. Infatti questo nostro incontro s’intitola “La guardia è stanca”… La “guardia stanca”, se non erro, è il popolo russo che protesta con Lenin perché la rivoluzione tarda a partire. Oggi forse possiamo leggere questo motto come la stanchezza di una parte della società civile nei confronti delle vergogne che ci vengono ogni giorno rovesciate addosso. Ma la guardia stanca potrebbe anche essere la metafora di tutti quegli organi di controllo che dovrebbero montare la guardia per controllare il potere, ma in questi anni sono stati fiaccati, perforati, neutralizzati, o magari semplicemente si sono stancati e non esercitano più il loro dovere di vigilanza… Sì, potrebbe anche essere. In che senso si è stanchi? Si è stanchi di aspettare e quindi è una stanchezza che prelude a un’azione, a un rinnovamento? Oppure la guardia è stanca perché è esausta? Credo che il nostro Paese si trovi un po’ su questo crinale: in certi momenti o in certi ambienti si può cogliere una stanchezza che vorrebbe anche trovare le forme di aggregazione per reagire, ma dall’altra parte c’è la stanchezza intesa come esaurimento, come rinuncia, come pessimismo. C’è un punto su cui credo che le forze politiche dovrebbero fare una riflessione: quelle che, almeno a parole, dichiarano che la situazione attuale non corrisponde alle loro aspirazioni, cioè l’opposizione. L’Italia è l’unico Paese in cui le forze di governo perdono consensi e le forze di opposizione non li guadagnano: questo dicono i sondaggi. Non ti pare che questo sia un sintomo di stanchezza, purtroppo nel secondo senso? La gente che non si riconosce più nelle forze di maggioranza non trova un approdo in altre formazioni, in altri schieramenti, questo forse è il segno dello scoramento, che sfocia nell’astensione. Io credo che sia vero che molti elettori votano per le forze di opposizione perché la maggioranza è questa. Il giorno in cui non ci fosse più questa maggioranza con questi capi, anzi con questo capo riconosciuto, non sarebbe un grande risultato per l’opposizione. Forse è per questo che da anni il grosso dell’opposizione sostiene così amorevolmente il presidente del Consiglio: se non ci fosse più lui, nessuno li voterebbe più. Conosciamo tanta gente che dice: questa è l’ultima volta che vado a votare. Poi ci va ancora, per cercare di evitare o limitare il peggio. Ma il giorno in cui non ci fosse più quel peggio lì, sarebbe un tracollo anche per l’opposizione. Quindi ci troviamo in questa situazione paradossale: la sconfitta della maggioranza non si trasforma in vittoria dell’opposizione. Invece ogni democrazia ben funzionante si regge su questa legge: se perde la maggioranza, vince l’opposizione. Quando questa legge viene smentita dai fatti è a rischio la democrazia, perché subentra il distacco dei cittadini. Quindi non sarei tanto soddisfatto, se fossi un politico dell’opposizione, dinanzi al declino di consensi della maggioranza, perché mi domanderei: dove vanno questi voti? E se non vanno all’opposizione, c’è da fare una riflessione molto profonda. La Televisione Unica del Padrone Unico ha imposto al Paese una serie di parole e di slogan malati: per esempio, quello secondo cui “le riforme sono buone purché condivise”. Non ho mai capito per quale motivo una riforma dovrebbe essere buona solo se la condividono in tanti: se è una porcheria ed è condivisa da tanti, peggio mi sento; una porcheria rimane una porcheria anche se la votano tutti; eppure ci viene ogni giorno spiegato che, se le riforme sono condivise da tanti o da tutti, allora vanno bene a prescindere. Tra le riforme che siamo quasi obbligati a condividere, per esempio, c’è quella del federalismo fiscale che nessuno sa esattamente cosa sia: qualcuno lo intende come un’anticamera del separatismo, altri come la panacea che dovrebbe liberarci dalla burocrazia. Ma è ancora possibile dire “io sono contro il federalismo” o si rischia di bestemmiare in chiesa? Tu vorresti una risposta secca, ma hai posto due domande e due problemi: la corruzione delle parole e la questione del federalismo. Primo: come cittadini politicamente responsabili che non godiamo nel vedere la situazione stupefacente che si è creata, ma avvertiamo l’obbligo di fare qualcosa per migliorarla, per bonificarla, sappiamo che uno dei punti principali del degrado italiano è la corruzione delle parole. Per esempio, c’è un’espressione che è largamente utilizzata dagli uomini di governo, ma anche dell’opposizione: “Non abbiamo messo le mani nelle tasche degli italiani”. Pare sempre una trovata brillante. A parte la veridicità o meno del contenuto, questa espressione ha avuto un grande successo, purtroppo, a destra come a sinistra. Ora, io la trovo di una volgarità senza pari, perché sottintende questo è il messaggio subliminale l’idea che uno Stato che chiede ai cittadini di partecipare alle spese pubbliche sia un ladro sempre e comunque. Quindi, se lo Stato è ladro, ben si giustifica l’evasione fiscale. E il cerchio si chiude. Mettere le mani in tasca? Ma in un paese civile tutti i cittadini dovrebbero essere chiamati responsabilmente a far fronte, secondo criteri di giustizia, alle esigenze della collettività. La Costituzione prevede sistemi fiscali progressivi: nessuno se ne ricorda più, ma “imposte progressive” vuole dire che chi più ha più deve contribuire rispetto a chi meno ha. Applichiamo questo semplice schema mentale alla manovra finanziaria in corso, e ci accorgiamo che dovrebbe portare a porre dei problemi che nessuno osa porre: l’imposta patrimoniale sulle grandi fortune, la tassazione delle speculazioni finanziarie… Anziché ai ladri, questa manovra mette le mani in tasca alle guardie: poliziotti, magistrati e cittadini onesti… Purtroppo dobbiamo pensare a ricostruire la nostra convivenza sulla base di parole non malate, perché la corruzione di ogni regime politico è accompagnata dalla corruzione delle parole. C’è un libro interessantissimo pubblicato da Mondadori qualche anno fa e da poco ripubblicato in versione più ampia: l’autore è Victor Klemperer, un filologo ebreo tedesco, marito di una donna ariana (uso queste categorie che non ci sono proprie), che ha seguito la trasformazione della lingua sotto il Terzo Reich. Uno studio interessantissimo su come si avvelenano gli animi modificando il senso delle parole o inventandone di parole. Ora è uscito da Giuntina un seguito: LTI. La lingua del Terzo Reich. Bisognerebbe leggerlo, per capire il veleno che le parole possono contenere. Tu ora dicevi “riforme condivise”. È uno slogan che presenta un aspetto malato: se siamo tutti d’accordo, questa sarebbe la riprova che la cosa che stiamo facendo è buona. Ma in una democrazia liberale il non essere d’accordo è il fatto positivo, perché il dissenso crea il distacco e dà lo spessore del problema. Nella democrazia liberale l’unanimismo, l’essere tutti insieme e tutti d’accordo, non è un valore, anzi. Però in questa formula c’è anche un dato positivo che non va sottovalutato: le riforme costituzionali devono essere condivise perché non possono essere imposte nell’interesse di una sola parte, altrimenti l’esito terminale sarebbe una Costituzione ad personam. E ognuno se la cambia a suo uso e consumo a ogni mutare di maggioranza. Come in certi regimi sudamericani, in cui le forze politiche (per esempio, certi colonnelli) si presentano alle elezioni con la loro Costituzione al punto numero 1 del programma. Il nostro concetto di Costituzione, radicato nei secoli, è invece quello di un testo, un documento di princìpi stabili, più stabili della politica. Perché è la politica che deve sottostare alla Costituzione e la Costituzione non può mai diventare uno strumento della politica. Da questo punto di vista, vedrei nella formula “riforme costituzionali condivise” un aspetto positivo, questo; e non l’altro, quello secondo cui dobbiamo per forza essere tutti d’accordo. Anche perché poi questo discorso sulle riforme condivise si inserisce in un contesto in cui si dice: le riforme si devono fare, “res publica reformanda est”, e chi è contro certe riforme è un pazzo, un irresponsabile, un passatista. Secondo me, bisognerebbe riuscire a dire laicamente che le riforme, di per sé, non sono né bene né male. Bisogna vedere cosa ci si mette dentro. Vista l’esperienza degli ultimi anni… Vista l’esperienza… se uno volesse fare un po’ di qualunquismo potrebbe anche dire: una classe politica così degradata che cosa può produrre di buono? Sarà un discorso qualunquistico, ma evangelicamente l’albero si riconosce dai frutti, quindi… Veniamo al tema del federalismo: anche qui direi che viviamo in un clima di pensiero unico. Chi oggi osa proclamarsi non-federalista? Dico “proclamarsi” perché sappiamo benissimo che le perplessità o i dubbi in materia sono molto diffusi, ma c’è questa cappa ideologica per cui essere contro il federalismo non è à la page… Questi discorsi sul federalismo, secondo me, hanno qualcosa di fondato rispetto ai problemi che abbiamo: ormai la dimensione delle questioni politiche non coincide più con la dimensione degli Stati nazionali, quindi il federalismo dovrebbe servire a creare dimensioni sopranazionali. Invece, detto per inciso, il federalismo di cui si parla in Italia è rovesciato: non si tratta di creare unità politiche più ampie, ma di spezzare o ridurre o limitare l’unità politica nazionale verso il basso. Dall’altra parte, si dice, ci sono esigenze di avvicinamento e di sburocratizzazione. Quali sono le tue perplessità sul federalismo? Mentre l’esigenza di un federalismo che si rivolge a una dimensione sopranazionale la vedo chiara (anche se mi sembra che purtroppo l’Italia in generale non sia particolarmente attiva nel creare forme di solidarietà sopranazionali, europee, ma non solo europee, anzi la nostra vita politica mi pare molto provinciale), non riesco a condividere chi auspica il federalismo verso il basso. Non come dice il motto costituzionale americano ex pluribus unum, per un processo verso l’alto finalizzato a creare unità politica, ma al contrario ex uno plures. Ecco: dove ci porterà questo plures non lo sappiamo. Temo che possa essere un primo passo verso una divisione del nostro Paese. La balcanizzazione dell’Italia. La balcanizzazione. L’idea che muove il federalismo all’italiana è che le regioni del Sud sono sottosviluppate e inquinate dalla criminalità (come se quelle del Nord non lo fossero…) e dunque devono essere sottoposte a una scossa, per responsabilizzarne le classi dirigenti liberandole dalla tutela dello Stato centrale e costringendole a guarire da sole le proprie magagne e a risolvere da sole i loro problemi. E se non li risolvono? Quali motivi abbiamo per sperare che le regioni del Sud, lasciate da sole, siano in grado per esempio di combattere il malaffare, la criminalità organizzata, meglio di quanto non riesca a fare lo Stato centrale? Infatti personalmente non solo sono anti-federalista, ma comincio a provare una certa nostalgia dei prefetti, possibilmente tedeschi. Adesso non esageriamo. Tra le ragioni che oggi muovono il pensiero federalista in Italia, ce ne sono di apprezzabili: chi di noi non vorrebbe una maggiore vicinanza delle classi dirigenti ai bisogni delle popolazioni? Chi non vorrebbe una burocrazia pubblica più limitata? Chi non vorrebbe anzi, mi viene freudianamente da dire: chi vorrebbe classi politiche più oneste? Tutto questo fa certo parte delle nostre speranze. Ma che la risposta sia il federalismo, questo non mi è chiaro: vedo un salto tra le speranze, i bisogni e la risposta. Invece vedo chiaro il pericolo: il giorno in cui si dovesse constatare che il federalismo, invece di promuovere quel movimento virtuoso di rinnovamento delle regioni più povere, più arretrate anche dal punto di vista della cultura politica, provocasse l’effetto contrario, a quel punto le pulsioni secessionistiche aumenterebbero. Un magistrato siciliano, Roberto Scarpinato, nel libro-intervista a Saverio Lodato Il ritorno del principe, sostiene che la nostra Costituzione è nata in un periodo eccezionale, perché in Italia le cose buone si fanno soltanto nei periodi eccezionali, quando la figura del Principe è molto indebolita e quindi è in questi intervalli della storia il Risorgimento, la Resistenza, la Costituente, Mani pulite che piccole élite illuminate riescono a prendere il sopravvento e a imporre a un Paese che non le vuole soluzioni più avanzate della cultura media nazionale. Quindi la nostra Costituzione fu una camicia di forza calata dall’alto sulle culture autoritarie che dominano da sempre nelle classi dirigenti italiane, infatti, non appena tornò il Principe, cominciò a picconarne i valori fondanti. Non a caso, da 15 anni, il centrodestra e il centrosinistra, al di là di quello che dicono di volta in volta secondo le convenienze del momento, sono entrambi allergici alla Costituzione. A cominciare dall’articolo 3 sull’eguaglianza, dall’articolo 11 sulla guerra, dall’articolo 21 sulla libertà di espressione, per non parlare dell’indipendenza della Magistratura. Sono 15 anni che partiti di destra e sinistra tentano di cambiare la Costituzione per attribuire maggiori poteri alla politica e smontare gli organi di controllo. Forse quella di Scarpinato è una tesi un po’ estrema, ma dal craxismo alla Bicamerale al berlusconismo, abbiamo visto avvicendarsi al governo un po’ tutti i partiti, e nessuno ha preso in mano la bandiera della difesa della Costituzione. Poi però, nel 2006, quando siamo andati a votare nel referendum confermativo sulla “devolution”, abbiamo scoperto che i cittadini apprezzano la Costituzione molto più delle loro classi dirigenti, a riprova del fatto che queste sono un po’ peggio della società che le esprime. Peggio o meglio, a me sembra abbastanza fisiologico che le classi dirigenti abbiano un atteggiamento, un rapporto di insofferenza con la Costituzione, perché le costituzioni sono state scritte e pensate per limitare l’onnipotenza del politico e della politica. Le costituzioni della tradizione liberale sono costituzioni dei cittadini, non delle classi politiche. Quella di Scarpinato è un’interpretazione un po’ élitista, ma c’è una buona dose di verità dove si dice che la politica l’hanno sempre fatta le élite. Però la democrazia non è oligarchia, e neanche oligarchia illuminata: la democrazia vive in quanto le regole costituzionali sono interiorizzate dai cittadini. L’esempio che facevi del referendum del 2006 è sotto certi aspetti consolante. Ma di lì bisognerebbe partire per dire che la difesa della democrazia e della Costituzione è un compito che devono assumersi i cittadini. Possiamo concludere con una verità lapalissiana: la democrazia è il regime dei cittadini, dunque la difesa della democrazia è in mano ai cittadini. Non possiamo fare distinzioni tra cittadini e forze politiche. Un sistema ben funzionante è quello in cui le forze politiche interpretano effettivamente le istanze dei cittadini in rapporto continuo di rappresentanza vera e vitale. Ma, nei momenti di crisi come quello che viviamo, questo rapporto vive una frattura. E allora questo è il momento in cui la “guardia stanca”, cioè i cittadini, deve darsi una mossa e ritrovare le ragioni del proprio impegno politico. E dare vita al partito della Costituzione. Sì, anche se “partito della Costituzione” è quasi una contraddizione, perché la Costituzione dovrebbe essere di tutti i cittadini, non di un partito. Diciamo che deve nascere un’opinione pubblica costituzionale.
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