http://it.peacereporter.net 'Il capitalismo ha fallito, occorre ripensare il sistema' La crisi è globale e richiede un approccio globale, che non spezzetti un problema generale in una serie di microproblemi. Eppure una via d'uscita c'è Inutile soffermarsi su singole questioni: quella demografica è legata a quella ambientale ma anche a quella economica e soclale. Un problema di enorme gravità che ci deve far interrogare sulle responsabilità di questa crisi generale che nei Paesi in via di sviluppo si manifesta nello spopolamento delle campagne e nell'urbanizzazione selvaggia e nel ricco occidente nella precarizzazione spinta. Giuseppe De Marzo, economista e studioso impegnato nello studio di sistemi di sviluppo alternativi ed ecosostenibili che ha illustrtao nel libro Buen Vivir, ha spiegato i nessi delle tante crisi e di come tutte abbiano origine dall'agonia del capitalismo. Ma forse, dice, non è troppo tardi per fare qualcosa e salvare questo pianeta, l'unico che abbiamo.
L'India è una potenza demograficamente fuori controllo. L'Africa sta asssistendo allo spopolamento delle campagne e ad una fuga di massa verso le città. Come legge queste notizie apparse di recente su diverse testate europee? E' positivo che inizi a emergere una certa preoccupazione sulla stampa europea, però per noi non è una novità. Da tempo ci interroghiamo su quale sia il nostro futuro. Però manca qualcosa. Bisognerebbe interrogarsi sulla distribuzione delle ricchezze e sull'impatto dei consumi. Se la Cina per fare uscire il mondo dalla crisi, così come auspica la World Bank, producesse un certo tipo di consumi, avremmo bisogno di tre pianeti in più per sostenerli. Questo modello di sviluppo per funzionare può essere esteso solo a due-trecento milioni di persone, ma non a sette/otto miliardi, è impossibile. Quindi non si tratta solo di una questione indiana o africana. No, non è una questione di uno o due continenti. Il problema è più ampio e investe le relazioni malate tra nord e sud del mondo, il fallimento della governance. Se questo non è chiaro, allora vedremo i problemi a pezzettini: quello della demografia, del clima, dell'energia, quella alimentare, delle migrazioni, la crisi finanziaria. Questa per molti osservatori occidentali questa è una crisi congiunturale. Dal nostro punto di vista, è una crisi di sistema. O adottiamo un approccio multidisciplinare e capiamo che dobbiamo guardare più in profondità e capire che è necessario lavorare con nuove categorie o altrimenti non ne usciamo. E' miope pensare di risolvere il problema ambientale senza discutere del sistema di sviluppo, ma ricorrendo a un maquillage di verde, alla cosiddetta green economy. Chi è responsabile dell'aumento della temperatura della terra, dei disastri ecologici, della disoccupazione, della precarizzazione? E' la crisi del capitalismo, che da due decenni mette sul mercato diritti e beni che noi pensavamo di aver conquistato e che appartenessero alla comunità Come l'acqua? L'acqua cos'è? Un grande mercato potenziale per il capitale in crisi, che vede una via d'uscita nella privatizzazione delle risorse. Ma questa è solo una delle due strade imboccate dal capitalismo in crisi. L'altra è la creazione di un esercito di manodopera di riserva che faccia pressione sulla classe operaia. Noi stiamo vivendo la più grande spinta di proletarizzazione nella storia dell'umanità. Abbiamo un miliardo di nuovi proletari: chi sono? Sono quei pescatori, quei pastori, quegli indigeni che vivevano in spazi che sono stati privatizzati, che subiscono l'impatto dei megaprogetti o dei cambiamenti ambientali che inaridiscono le terre e li costringono a migrare. Parliamo di quasi un miliardo di migranti ambientali nei prossimi 30 anni e questi sono dati del World Public Forum di Kofi Annan. E qui veniamo all'allarme per l'urbanizzazione selvaggia verso la quale si avvia l'Africa. Le megalopoli che vanno nascendo sono l'esempio degli effetti di questo capitalismo feroce. Lagos era una città di circa duecentomila abitanti, negli anni Cinquanta, oggi ne ha quasi sedici milioni. Perché? Perché tutto l'ecosistema del delta del Niger, sfruttato dalle multinazionali del petrolio, ha prodotto un meccanismo di distruzione ambientale e sociale che ha spinto 25 milioni di Igbo e Ogoni non più a utilizzare l'economia locale, il fiume, la terra, a sostenere l'ecosistema con le loro produzioni sostenibili ma le ha buttate nelle grandi città. Eppure l'Africa avrebbe dovuto essere il continente della speranza. L'Africa in questo momento è il continente più aggredito da questo modello, per varie ragioni storiche, soprattutto perché lì i movimenti sociali, proprio a causa delle repressioni, ha vissuto una frammentazione dei movimenti di liberazione che non sono di massa come invece accade nell'America Latina. E allora ci dovremmo interrogare sull'importanza dell'Africa per quanto riguarda la sovranità alimentare o la lotta ai cambiamenti climatici. Se noi vogliamo immaginare l'Africa come il continente della speranza, dobbiamo mettere a riparo lo spazio riproduttivo, arginare il sequestro e la conquista della terra proprio a partire da quei movimenti che continuano a difendere la sovranità alimentare e le economie locali, perché così contribuiremo alla lotta per emanciparla ma lavoreremo insieme su uno scenario globale per la lotta ai cambiamenti climatici. C'è poi il paradosso per cui l'Africa sta perdendo enormi porzioni di territorio, comprato dalle compagnie straniere dell'agrobusiness. E' un dramma. La gente forse lo ignora ma l'agrobusiness incide sull'emissione di CO2 nell'atmosfera sta tra il 44 e il 57 per cento. Il principale responsabile dei cambiamenti climatici sono le multinazionali dell'agrobusiness. Allora, la risposta della sovranità alimentare, a partire dal sostegno alle comunità contadine, è una risposta complessa che non risponde solo agli interessi africani, ma anche ai nostri ma produrrebbe anche alcuni milioni di posti di lavoro, tenendo quelle persone nelle campagne, evitando quei fenomeni di urbanizzazione selvaggia. Dovremmo capire che i dati discussi a Copenaghen nella Cop 15 (margine di due gradi prima del disastro, ndr) sono una fesseria: noi che lavoriamo coi movimenti africani sappiamo che i calcoli degli scienziati che già se la temperatura dovesse aumentare di un grado solo, l'Africa andrebbe per aria. L'ecosistema Africa è più delicato e più complesso rispetto al nord del mondo. I problemi sono chiari ma in concreto cosa si può fare? Ci sono due nuove costituzioni, in Ecuador e Bolivia che partono proprio dal buen vivir, che rimettono al centro del paradigma civilizzatorio un altro rapporto tra uomo e natura. Il che non è solo auspicabile, visto che abbiamo un pianeta solo e ci conviene conservarlo ma è qualcosa di - mi si perdoni il termine da marketing - di molto desiderabile. Il progetto che noi offriamo, quello di immaginare una democrazia della terra, è desiderabile da parte della maggior parte degli abitanti del pianeta, perché consente di vivere bene. La proposta è quella di immaginare di ricostruire il contratto sociale partendo da due pilastri: giustizia sociale e giustizia ambientale. Dobbiamo ripensare forme più complesse di democrazia, come quella comunitaria, quella partecipata, che rimettono al centro della scena i territori, le persone in carne ed ossa, così da immaginare un futuro migliore, più giusto, più equo, più sostenibile per tutti.
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