Il Presidio Permanente Il 16 gennaio 2007 montavamo le prime strutture del Presidio Permanente. Era una giornata di freddo e nebbia. Pochi giorni prima l’ambasciatore statunitense Spogli aveva decretato il suo ultimatum: «gli Stati Uniti esigono una risposta definitiva sulla nuova base Usa al Dal Molin entro il 19 gennaio». E il Presidio nasceva per esistere fino a quella data, per dimostrare la determinazione dei vicentini ad un Governo che ancora doveva esprimersi e che più volte aveva dichiarato di voler «riconsiderare la vicenda alla luce della volontà della comunità locale». Invece quello stesso giorno, mentre eravamo impegnati nei frenetici lavori di montaggio, la doccia fredda: «non mi oppongo ai progetti statunitensi», dichiarava dall’estero Romano Prodi. Da quel momento il Presidio è diventato Permanente, la sua azione politica un divenire quotidiano fondato sulla partecipazione e sulla determinazione di tante donne e uomini che, provenienti da culture politiche, gruppi sociali, esperienze anche molto diverse tra loro, hanno identificato un obiettivo comune costruendo forme di agire nuove e mai sperimentate. Il Presidio Permanente è divenuto un crogiolo di idee, un percorso di confronto quotidiano in cui tutto è sempre in discussione perché tutti hanno qualcosa da dire ed hanno il diritto di esprimersi. E’ per queste sue caratteristiche che il tendone di Ponte Marchese è diventato, nei mesi, da una parte la metafora più bella di questo movimento simbolo di resistenza e trasversalità, dall’altra l’obiettivo delle critiche e degli attacchi di quanti in buona o cattiva fede hanno nostalgia per le forme di organizzazione e di azione politica “storiche”, dove organizzazioni e gruppi competono per uno spazio politico e dove le pratiche di costruzione delle decisioni sono standardizzate, legate a pesi e contropesi, alleanze e compromessi. COMUNITA’ e TRASVERSALITA’ Parlare di Vicenza vuol dire ragionare su una città che per decenni ha vissuto la presenza di un importante centro militare statunitense con indifferenza. La caserma Ederle, la cui presenza è oggi messa in discussione da gran parte della cittadinanza, è sorta negli anni ’50 con la ridislocazione delle forze statunitensi in Europa e il ritiro delle truppe dall’Austria. Accanto ad essa, altre strutture militari sono sorte nel territorio vicentino, facendo della città berica uno dei centri fondamentali per la logistica e le strutture di comando dell’esercito Usa. E’ noto a tutti: Vicenza non è mai stata, negli scorsi anni, una terra di movimento; ci sono state, in corrispondenza con eventi nazionali ed internazionali, esperienze significative che però hanno saputo agire con scarsi risultati nella cultura e nella sensibilità della comunità locale. E’ per questo che molti hanno definito la nostra città la Sagrestia d’Italia, caratterizzata da una massiccia adesione al principale partito di Governo (la Democrazia Cristiana) e da un’inclinazione alla laboriosità che ha sacrificato spesso la politica e la socialità. Il movimento vicentino nato contro la costruzione della nuova base Usa al Dal Molin fa i conti con questo passato di sobrietà politica e scarsa mobilitazione, ma rappresenta una discontinuità rispetto a decenni di conformismo. Esso, infatti, raccoglie da una parte energie e identità inespresse, restate per decenni rinchiuse nei salotti domestici e nelle discussioni in osteria, dall’altra ridefinisce in modo forte le culture politiche che per tanti anni erano restate ai margini della società berica. A Vicenza si apre uno spazio politico tutto nuovo, nel quale identità, convinzioni, pratiche e forme vengono messe in discussione, smontate e riassemblate. In questi mesi abbiamo più volte enfatizzato la trasversalità che ci caratterizza; ma con questo termine non vogliamo indicare, semplicemente, una sommatoria di identità diverse che si alleano strategicamente per il raggiungimento di un fine comune, mantenendo inalterati i propri confini e le proprie differenze. Per noi trasversalità significa rottura dei confini, costruzione di un terreno di dialogo che sa generare una crescita collettiva e una contaminazione tra pratiche differenti. Trasversalità è sinonimo di ragionamento collettivo, nella misura in cui il messaggio politico che noi costruiamo è frutto di una condivisione fatta di confronto e discussione. Non vogliamo nasconderci dietro un dito: il nostro percorso non è privo di contraddizioni e di differenze. Ma quel che più conta, oggi, è la sua metamorfosi, ovvero la capacità di dar vita a un laboratorio di discussione collettiva, dove tutti si mettono in gioco. E’, questo, uno dei punti di forza di questo movimento, perché fa del Presidio Permanente una casa comune. Ed è per questo che ci piace definirci “comunità”: il nostro, infatti, non è un agire orientato ad un’ideologia, bensì un fare quotidiano che crea sensibilità comune e di conseguenza una nuova cultura che ha, tra i suoi punti fondanti, il ripudio della guerra, la difesa dei beni comuni, la costruzione di nuove forme di partecipative. Questi tre punti non erano scontati quando abbiamo incominciato il nostro percorso: è stato un processo di crescita collettiva, di ragionamento e confronto a far diventare patrimonio comune queste tematiche, mettendole al centro del nostro movimento e facendo si che esso non restasse confinato nei quartieri adiacenti l’aeroporto Dal Molin. Vicenza non è un “movimento Nimby (not in my back yard)” perché ha saputo riportare su un piano astratto e generale rivendicazioni concrete e locali: difendendo il nostro territorio abbiamo imparato ad apprezzare il valore della terra e dei beni comuni, rifiutando una base militare abbiamo costruito una cultura di pace, subendo le imposizioni abbiamo sperimentato l’importanza della partecipazione. E’ stato un percorso in divenire, compiuto passo dopo passo, un “camminare domandando”, come insegnano le comunità indigene del Chiapas, che ha un punto di partenza ben preciso la nuova base Usa al Dal Molin ma che non conosce destinazioni. POLITICA e SOCIALITA’ Nei mesi il Presidio Permanente è divenuto, come dicevamo, metafora del movimento No Dal Molin. Esso, infatti, da una parte è il simbolo tangibile e “visibile” della resistenza di gran parte della comunità vicentina, aggrappata con le unghie e con i denti alla propria terra; dall’altra è un luogo di partecipazione nel quale le assemblee vedono la partecipazione settimanale di centinaia di persone. Il Presidio Permanente non è soltanto il luogo della politica. Esso, infatti, è presto diventato uno spazio sociale, la «nuova piazza di Vicenza», come lo ha definito Don Gallo. Dibattiti, corsi, feste, cene sono divenuti appuntamenti fissi del tendone. Il Presidio esprime una socialità nuova, slegata dal posto di lavoro e alternativa ai locali commerciali. Si creano nuovi legami sociali che, in una situazione di normalità mai avrebbero avuto luogo; ma, soprattutto, si genera un confronto quotidiano che ci fa dire di essere, da oltre un anno, in assemblea permanente: «al Presidio non si parla mai del tempo atmosferico», aveva detto una donna durante uno dei corsi di formazione organizzati. Socialità e politica non sono in antitesi; l’una, invece, è alla base dell’altra, perché senza socialità non potrebbe esserci fiducia e, senza quest’ultima, non avrebbero potute essere realizzate tante delle azioni che abbiamo fatto. Non solo: la socialità è anche alla base della crescita collettiva che fa dire agli osservatori esterni che questo movimento, indipendentemente dai risultati che otterrà, ha rivoltato la città come un calzino, cambiandola in modo drastico e irreversibile nella sua cultura politica e nell’analisi degli eventi. Il Festival No Dal Molin, che abbiamo organizzato nei due passati autunni, è servito anche a questo: quell’ evento è stato caratterizzato non solo da dibattiti e azioni come la piantumazione degli alberi all’interno del Dal Molin, ma anche, più banalmente, dalla costruzione di un luogo di incontro e socialità. Da una parte, con la partecipazione attiva di centinaia di persone che hanno contribuito al funzionamento delle cucine, all’organizzazione degli eventi, all’apertura del campeggio, al montaggio e allo smontaggio delle strutture; dall’altra, con l’attraversamento di decine di migliaia di persone che hanno voluto segnalare una propria partecipazione e condivisione degli obiettivi che animano questo movimento. Non riconoscere la potenzialità della socialità sarebbe come condannarsi ad essere un movimento di nicchia, in grado di testimoniare contrarietà senza incidere sui processi decisionali. Stare insieme, confrontarsi e conoscersi significa costruire pratiche di condivisione, relazionarsi con le diversità e imparare da esse; sono, queste, caratteristiche fondamentali per la tenuta sul lungo periodo di un movimento che aspira ad impedire la realizzazione del più importante centro militare statunitense in Europa. RADICALITA’, LEGITTIMITA’, LEGALITA’ Abbiamo sempre ritenuto di essere un movimento radicale nei contenuti quanto nelle forme. La radicalità, però, non si misura nelle forme che un movimento pratica, bensì nella capacità di legare pratiche quotidiane a obiettivi concreti. Non crediamo che radicalità sia necessariamente rottura della legalità, anche se rivendichiamo azioni come l’occupazione della Basilica Palladiana, il taglio di cavidotti in fibra ottica funzionali alla nuova base Usa, il taglio delle reti, l’ingresso all’interno del Dal Molin, il blocco dei mezzi destinati al cantiere statunitense e altre forme di opposizione reale. Per noi è radicale tutto ciò che permette di dire che la vicenda vicentina è ancora aperta, che possiamo impedire la realizzazione della struttura militare statunitense. Non vogliamo legare la radicalità ad una singola iniziativa, non ci interessa la prima pagina dei giornali; misuriamo la nostra radicalità nella fermezza delle posizioni e nella capacità di costruire, giorno dopo giorno, dinamiche in grado di mantenere aperta la possibilità di non permettere la costruzione della nuova base Usa. Di fronte alle imposizioni calate dall’alto, la legalità è lo strumento con il quale si tenta di immobilizzare un movimento; non abbiamo mai fatto mistero di volerci mettere in gioco, anche violando la legalità e bloccando fisicamente i lavori, perché riteniamo che i cittadini siano legittimati a difendere la propria terra, il proprio futuro, la pace. Ma abbiamo anche sempre rivendicato una forte caratterizzazione vicentina del nostro movimento; non perché non apprezziamo il sostegno e la solidarietà che ci sono giunti da ogni angolo d’Italia e che rappresentano il nostro carburante, ma perché riteniamo che un’opera come quella prevista a Vicenza possa essere impedita solo con una forte partecipazione locale; e, d’altra parte, perché crediamo nel legame che la nostra azione politica esprime con il territorio. VICENZA ESPERIENZA UNICA In questi mesi abbiamo imparato ad essere autodidatti; non esistono schemi prefissati da seguire, ne movimenti da prendere come esempio per sviluppare la nostra lotta. I No Tav valsusini sono stati spesso un nostro punto di riferimento, ma abbiamo imparato che da loro possiamo prendere la determinazione e la passione, non le forme e le pratiche le quali, invece, si costruiscono nel e con il contesto in cui si agisce. Per questo riteniamo la nostra un’esperienza unica, non replicabile e allo stesso tempo non plasmabile da proposte politiche preconfezionate e indifferenti alla realtà locale. In questi mesi abbiamo più volte fatto appello a rispettare le forme che il movimento vicentino si da; non è, questa, un’espressione di arroganza, ma la volontà di difendere quello che noi riteniamo un nostro bene comune: il movimento No Dal Molin. D’altra parte, crediamo che l’esperienza di tante realtà locali che si battono contro le nocività e per la difesa dei beni comuni ci insegni proprio questo: che ogni realtà locale deve svilupparsi in base al proprio contesto, alla propria lotta, e soprattutto in base alle persone che quella lotta la rendono viva. Tante etichette ci sono state date in questi mesi; in molti hanno voluto caratterizzarci politicamente, leggendo la realtà vicentina con lenti che non possono far vedere le novità del movimento vicentino. Non ci interessa rispondere a chi ci etichetta, ne argomentare perché essi sbagliano: una foto di una qualunque nostra iniziativa è la miglior risposta a chi vorrebbe portarci all’interno di logiche che non ci appartengono e non hanno a che fare con il nostro percorso collettivo. Vogliamo confrontarci con i tanti che si oppongono alla guerra e difendono i beni comuni; vogliamo, nel limite delle nostre possibilità, essere ponte tra queste due tematiche apparentemente lontane, ma in realtà fortemente complementari. Ma chiediamo rispetto per un percorso sicuramente ricco di limiti, ma basato sulla partecipazione reale e non sulla mera teorizzazione della lotta. DOVE ANDIAMO Alle nostre spalle ci sono ormai molti mesi di mobilitazione; iniziative entusiasmanti, cocenti delusioni, tanta solidarietà ed un legame sempre più forte. Con il passare del tempo siamo diventati una comunità, tanto che ci siamo definiti Altrocomune; lo abbiamo fatto non soltanto per porci in contrapposizione alla Giunta vicentina che ha svenduto la nostra città, ma soprattutto perché ci sentiamo un qualcosa d’altro, di nuovo e innovativo. Ci battiamo contro la nuova base Usa al Dal Molin perché rifiutiamo la guerra e respingiamo la devastazione ambientale che la realizzazione del progetto comporterebbe; ma anche perché, nei mesi, abbiamo imparato a condividere un’idea altra di città, costruita non sugli interessi economici e sui profitti, bensì sulle esigenze degli abitanti, sulla realizzazione di una quotidianità “qualitativa”, dove la vita di ognuno di noi non sia più un semplice esserci, ma un partecipare e valorizzare. Abbiamo imparato l’importanza della partecipazione nei processi decisionali; abbiamo scoperto la ricchezza dei beni comuni e della natura; abbiamo capito che una città non può essere semplicemente asfalto e cemento, ma deve essere socialità e benessere, equilibrio e rispetto. Siamo Altrocomune perché, attraverso il percorso che stiamo compiendo, ci sentiamo “fuori dal comune” nella misura in cui usciamo dall’anonimato della quotidianità metropolitana per dedicarci a ciò che è collettivo: il futuro della nostra comunità; ecco cosa lega il rifiuto della guerra, la difesa dei beni comuni e la sperimentazione di nuove pratiche di partecipazione. In questi mesi abbiamo sperimentato pratiche di condivisione e forme di mobilitazione; vogliamo continuare a farlo, convinti che soltanto attraverso la partecipazione collettiva e le idee di ognuno di noi possiamo costruire la contrapposizione alla realizzazione della nuova base di guerra statunitense. Non nascondiamo i limiti che hanno caratterizzato il nostro percorso; nessuno di noi ha le soluzioni preconfezionate ai problemi che, di volta in volta, incontriamo e incontreremo. Sarebbe molto più semplice cercare una scorciatoia, incaricare leader carismatici di indicarci la strada, costruire gerarchie e riprodurre formule organizzative e pratiche politiche già viste. Vogliamo, invece, continuare a sperimentare, perché la nostra trasversalità è anche la nostra ricchezza; un tesoro che non accantoniamo in banca, ma che vogliamo investire per raggiungere un obiettivo tanto ambizioso quanto reale: impedire alla prima potenza militare mondiale di costruire le proprie installazioni di guerra nel nostro territorio, mettere un granello di sabbia nei meccanismi della guerra, dimostrare che l’unica strada per costruire la pace è quella di opporsi alla guerra. E’ per questo che difenderemo sempre la nostra autonomia e la nostra autenticità; non accettiamo etichette e strumentalizzazioni politiche, vogliamo continuare a scrutare l’orizzonte decidendo collettivamente, di volta in volta, quale stella seguire. Nel corso di questi anni di movimento abbiamo riconosciuto un altro bene comune, dopo la pace, l’acqua, l’aria, la terra: è il nostro movimento, in quanto insieme di donne e uomini, giovani e anziani, lavoratori e inoccupati. Vogliamo impedire la militarizzazione della nostra città; a questo scopo dedichiamo, da mesi, la nostra quotidianità: continueremo a farlo perché, insieme, abbiamo imparato a sognare.
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