http://www3.lastampa.it James Hansen "Ora ci vuole
un Churchill contro i gas serra" "Salvare il pianeta è una guerra giusta come quella contro i nazisti. Solo politici coraggiosi posso vincerla: tassando petrolio e gas" James Hansen, lei è il più celebre climatologo del mondo, padre degli studi sull’«effetto serra», ed è anche molto arrabbiato: nella lezione dell’altro ieri a Roma, organizzata dalla Fondazione Aurelio Peccei e dal WWF Italia, ha invocato la fine dell’«appeasement» con la lobby del petrolio, augurandosi di vedere in azione un nuovo Churchill che guidi la battaglia per salvare il Pianeta dalle catastrofi ambientali. Non sta correndo troppo con la fantasia? «Credo che la questione ambientale sia un problema morale. Ciò che stiamo facendo oggi, infatti, costringerà i nostri figli e i nostri nipoti a pagarne il prezzo. Gli eccessi nell’utilizzo dei combustibili fossili sono ormai chiari, mentre non lo erano per i nostri genitori. Ma oggi ne siamo consapevoli e sappiamo bene quali saranno le conseguenze, se continueremo a bruciare petrolio. E’ fondamentale, perciò, che qualcuno si alzi in piedi e dica chiaro ciò che è necessario, come fecero Lincoln contro la schiavitù e Churchill contro il nazismo». Sono toni apocalittici. Come risponde a chi la accusa di essere un catastrofista senza se e senza ma? «Oggi dovrebbe essere un po’ più facile convincere l’opinione pubblica rispetto al passato. Vediamo tutto con i nostri occhi e abbiamo le prove scientifiche, nonostante le voci di alcuni contrari. Non c’è più nessun dubbio. Basta chiedere all’accademia delle scienze di qualsiasi nazione per capire quale sia la condizione della Terra: il clima sta cambiando e la causa è dei gas serra che continuiamo a immettere nell’atmosfera. E gli effetti nei prossimi decenni saranno molto gravi. E’ charo che la conclusione è sconveniente, perché richiede di trasformare tutto il nostro sistema energetico». Significa cambiare un’intera civiltà: come ritiene che sia possibile? «Oggi i combustibili fossili sono i più economici e quindi il comportamento più semplice sarebbe continuare a usarli. Già nel ‘92 la maggioranza dei governi si era accordata per stabilizzare la composizione chimica dell’atmosfera a un livello che evitasse pericolose interferenze, ma il problema è che da allora nessuno ha agito in modo concreto. In realtà si sta continuando con la logica del “business as usual”: dalla firma del Protocollo di Kyoto a oggi le emissioni sono cresciute del 2-3% l’anno». Poi è arrivato il summit di Copenhagen del dicembre scorso e lei l’ha giudicato un altro fiasco. Perché? «E’ emerso di nuovo il modello “Cap and Trade” per il mercato delle emissioni e di nuovo si è rivelato inefficace. Penso perciò che dobbiamo riconoscere un fatto fondamentale: i combustibili fossili rappresentano l’energia più conveniente e di conseguenza continueremo a sfruttarli. Ecco perché, invece di imporre dei limiti qua e là, si deve applicare in tutto il mondo un prezzo crescente sulle emissioni di CO2». In cosa consiste questa strategia? «Se si mettesse questa tassa, l’efficienza energetica, le fonti rinnovabili e il nucleare - e il resto che non genera emissioni nocive - diventerebbero subito più competitivi nei confronti dei combustibili fossili. La ragione per cui questi ultimi sono così a buon prezzo consiste nel fatto che non li costringiamo a pagare i danni che provocano alla salute e all’ambiente che le generazioni future riceveranno in eredità. Al momento, però, i governi non hanno intenzione di farlo». Quale dovrà essere il «mix» per sostituire petrolio, gas e carbone? «L’efficienza energetica dovrà essere al top della lista e subito dopo seguono le rinnovabili e il nucleare. Ma andrà bene anche qualsiasi altra fonte pulita. Il punto, comunque, è quello di imporre prezzi crescenti sulle emissioni di CO2 e poi lasciamo che le alternative competano tra loro e che il mercato faccia le scelte su ciò che risulta più efficace». Lei boccia tutti i governi. Anche l’amministrazione di Barack Obama che tante promesse ha fatto sulla «green economy»? «Purtroppo le leggi in discussione al Congresso Usa sono quelle del tipo “Cap and Trade” e non risulteranno efficaci: prevedono così tante scappatoie nelle loro migliaia di pagine da permettere comunque alle aziende di continuare a fare ciò che fanno». Lo scenario che lei descrive è molto pessimista: dov’è la via d’uscita? «E’ pessimista, tranne che per un fatto: imporre una tassa sulle emissioni è più facile che creare un mercato delle emissioni: basta pensare che ci sono voluti 10 anni per implementare il Protocollo di Kyoto e che poi non è servito. Se il denaro raccolto venisse distribuito alla collettività, allora l’opinione pubblica diventerebbe favorevole a questa tassa». Qualcuno ci ha provato? «Sì. Nella provincia canadese del British Columbia. Lì è stata varata la “carbon tax” e ha subito funzionato, tanto che la gente ha rivotato il governatore che l’aveva ideata. Il punto è che i fondi così ottenuti devono sempre essere redistribuiti». In che modo? Per diminuire le tasse sui redditi o per favorire gli investimenti in energie pulite? «Penso che questo denaro dovrebbe essere distribuito e non investito, perché è il settore privato che deve fare le sue scelte». A proposito di scelte, nel libro «Storms of my grandchildren» lei sostiene che la gente deve avere il coraggio di agire contro i grandi inquinatori, anche con la disobbedienza civile. «Non ho mai raccomandato di infrangere la legge, semmai di applicare i principi gandhiani di resistenza civile. E’ una rivolta pacifica contro le politiche che ci fanno del male». Un esempio? «A Kingsbrige, in Gran Bretagna, la gente si è mobilitata contro un incineritore. Intanto negli Usa, in Utah, un ragazzo si è opposto alle trivellazioni petrolifere e ora è sotto processo e rischia sette anni». Di recente lei è stato arrestato in Virginia. «Sì, mentre leggevo una richiesta per scongiurare il progetto di una miniera che avrebbe devastato una montagna». Lei è stato anche vittima della censura di Bush, che non apprezzava le sue critiche. Con Obama si sente più libero? «Ora non c’è alcuna interferenza con le mie ricerche, ma le nuove politiche non sono ancora adatte ad affrontare il problema climatico. Gli Usa hanno firmato un accordo con il Canada per una “pipeline” che trasporti il petrolio ricavato dalle sabbie bituminose e non è pensabile bruciarlo tutto senza alterare in modo significativo il Pianeta. L’amministrazione pronuncia le parole giuste, eppure le sue azioni non sono coerenti». Quanto siamo vicini, secondo lei, a un disastro irrimediabile? «Ci sono molti punti di non ritorno e uno fondamentale, a cui siamo sempre più vicini, è la stabilità dei ghiacci polari. Si sciolgono a una velocità crescente: è l’effetto dell’eccesso di energia che l’atmosfera non riesce a disperdere. Così tutti gli equilibri stanno saltando».
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