TRANSCEND Media Service
09.08.10  


Ministeri di pace?
di Johan Galtung

Traduzione di Miky Lanza per il Centro Studi Sereno Regis

L’argomentazione a favore è ovvia. Ci sono dappertutto ministeri dell’ambiente; il che dà in linea di principio un portavoce nel governo all’insieme di tematiche attorno a esaurimento-inquinamento, forse in competizione con i ministri dell’industrializzazione o dello sviluppo. Corrispondentemente, il ministro della pace potrebbe entrare in dialogo – pacifico, si presume – con i ministri degli esteri e della “difesa”.

L’argomentazione contraria è altrettanto ovvia. Le forze per l’industrializzazione in generale, la modalità capitalista di produzione, e per la guerra, sono più forti in molti paesi. Tali ministeri sarebbero deboli, il patriarcato li allocherebbe alle donne, che svolgerebbero funzioni da alibi smobilitando per giunta i movimenti per l’ambiente e per la pace. Mamma stato ci pensa lei, andate a casa, dormite bene.

C’è del vero in tutto ciò. Ma diamo uno sguardo al problema dall’angolo visuale dello stato: che cosa riguarda una tale organizzazione? Dal sistema statuale in Europa, decollato effettivamente nel 1648 – pace di Westphalia-, c’è una risposta preminente: il monopolio sul potere ultimativo, l’ultima ratio, vale a dire la forza, all’interno e all’estero. All’interno per mantenere legge e ordine, come definito dai possessori dello stato – classe, nazionalità, regioni, partiti. E all’estero per attuare il diritto alla guerra. Tale diritto è stato limitato dalla Carta ONU, Articolo 2, ma poi con le famose scappatoie: difesa individuale, difesa collettiva, se ordinato dal Consiglio di Sicurezza, su invito del paese da difendere. E i paesi profondamente adusi ad andare in guerra continueranno a farlo secondo l’antica dottrina che la difesa può dover effettuarsi lontano dai rispettivi paesi, nel vasto mondo esterno dove possono incubarsi o perfino attuarsi attacchi.

Tuttavia tali paesi sono pochi, quasi tutti in Occidente, e con legami col proprio passato e presente coloniale e imperiale, e di solidarietà fra di essi come espresso dall’Articolo 5 del Trattato NATO. Per essi un ministero di pace sarebbe un impedimento al proprio diritto, anzi, dovere divino, di spegnere ovunque l’avvampare del male. l più bellicosi fra essi, gli USA, Israele e il Regno Unito, avranno probabilmente bisogno di un qualche sviluppo civilizzatore prima che siano pronti a un tale tipo di ministero. I loro alleati sono forse diversi al riguardo, ma molti sarebbero cauti per timore che i tre possano sentirsi offesi.

Faccenda alquanto differente è la pace domestica/all’interno. C’è una correlazione inversa fra la belligeranza a grande distanza e una profonda irrequietezza nazionale. La democrazia è un modo di sistemare la seconda, una ragione per cui le democrazie sono cosi bellicose (ma un po’ meno fra di loro): la loro belligeranza può essere sostenuta da un (quasi) consenso. Quindi ci aspetteremmo che l’idea dei ministeri di pace inizi in paesi in cerca di superare un’irrequietezza interna, come il Nepal e il Sudan. Si aggiunga il Costa Rica che è in permanenza progressista in faccende di pace (anche se la milizia non-esercito è un po’ grossa) e abbiamo i primi tre. Ce ne saranno molti altri in arrivo; ma può ben darsi che l’Occidente sia lento.

Ricordo quando qualcuno di noi lanciò quest’idea in Norvegia oltre 45 anni fa (vedi 50 Years: 100 Peace & Conflict Perspectives, TRANSCEND University Press, 2008, cap. 6). Un pranzo di gala con il primo ministro (generalmente a favore, ma non abbastanza da prevalere sui colleghi), col ministro degli esteri (del tutto superfluo, il mio ministero è un ministero di pace) e il ministro della difesa (del tutto contrario, esso minerebbe la nostra determinazione a difenderci). Lasciammo perdere.

Comunque è tutt’altra storia davvero la pace “domestica”. In linea di principio riguarda l’ambito dello stato senz’altri stati che interferiscano. Che cosa farebbero tali ministeri?

Il testo, il messaggio di un ministero, viene rivelato nei suoi paragrafi, come fanno così bene i 64 parlamentari USA guidati da Dennis Kucinich nella proposta di una norma di legge istitutiva di un Ministero USA di pace. Pensiamo in termini di tre compiti essenziali: mediazione degli attuali conflitti, conciliazione per i traumi della passata violenza, e costruzione di una pace più solida per il futuro. La formula generale sarebbe l’uguaglianza e l’equità fra i generi, le generazioni, le razze, le classi, le nazionalità e le regioni. Il che non è lo stesso che i diritti civili: i diritti civili sollevano il livello di base, mentre l’equità è una relazione, che costruisce uguaglianza nell’interazione.

Sono tutti e tre compiti difficili e la cooperazione fra tali ministeri sarebbe un bel passo avanti, scambiarsi esperienze, per dire, fra il Nepal e il Sudan. Tali esperienze metterebbero in questione il ruolo di Kathmandu e Khartoum, tuttavia, ed è lì dove probabilmente i ministeri verrebbero situati, per il resto si vedano le due argomentazioni iniziali. Per la carità, movimenti, non smobilitate, anzi, siate per tali ministeri quel che Amnesty International è da tempo per i diritti umani, le braccia estese della società civile, al tempo stesso critici quando necessita.

E per quanto riguarda l’agenda globale, se si pensa in termini di un ministero con giurisdizione sia interna sia globale? Esattamente la stessa suddivisione. Ma, come detto, questi compiti sono difficili. Ci vuole formazione, e parecchia. Ci sarà molta incompetenza tanto per cominciare e non abbastanza professionalità per contrastare i gruppi di pressione sulla loro “pace” auto-gratificante. Come col perenne “libero scambio” occidentale, che genera immense iniquità, al contrario dell’autosufficienza, il commercio Sud-Sud e il commercio equo. Tuttavia, altro argomento a favore di tali ministeri: possono servire a mettere in luce tali tematiche cruciali.

Allora, benvenuti Ministeri di Pace! Come tutto il resto nel campo della pace, non siete la risposta. Ma certo una risposta.