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01/02/2010

Birmania, la speranza non muore mai
di Simone Casalini

Reportage dal Myanmar, dove la popolazione è pronta a tornare in piazza in occasione delle elezioni farsa previste per quest'anno

Ci sono dei luoghi in cui la storia non dà tregua. Le sue voci più profonde sono un coro sommesso di disprezzo per il regime militare guidato dal generalissimo Than Shwe che promette elezioni farsa entro al fine dell'anno a cui nessuno crede. Basta percorrerla l'ex Birmania.

Basta sondare i suoi umori più popolari, esplorare le classi sociali, muoversi tra le differenti etnie (dalla bamar, predominante, alla shan, dai kachin ai chin per arrivare ai riottosi mon e karen). Basta fermarsi ad ascoltare nei crocicchi, in mezzo alla polvere, nei segreti spazi di un monastero, nelle afone distese di riso o nel sedile posteriore di un taxi facendo i ventriloqui. Il popolo birmano è fiaccato dalla dittatura, inseguito dagli spettri, minacciato dai lavori forzati e dalle detenzioni estenuanti eppure non abbandona il campo. "Pronto a nuove mobilitazioni e proteste" assicura un giovane monaco buddhista di 24 anni, residente in uno dei monasteri più importanti di Yangon (ex Rangoon), capitale fino al 2006 prima del trasferimento, deciso a mezza strada tra superstizione e realpolitik, nel villaggio di Naypyidaw che ora conta 300mila abitanti.

"Nessuno ha fiducia nella scadenza elettorale, nessuno. Dubito persino che si terranno delle elezioni, ma se così fosse sarà una farsa per dare legittimazione al regime di Than Shwe. Allora ci saranno nuove manifestazioni" profetizza il monaco raccogliendo l'assenso di compagni e superiori. E rievocando la rivoluzione dello zafferano di appena due anni fa racconta: «Io c'ero, sorreggevo una bandiera e scandivo gli slogan. Ad un certo punto ho visto un militare che ha alzato la pistola, preso la mira e sparato. Voleva uccidermi, ma ha colpito ad un braccio un altro monaco che mi ha fatto da involontario scudo. A seguito di quelle proteste i militari hanno ammazzato a sangue freddo 2.700 monaci. Sono fuggito da Mandalay, la mia città di origine, e sono rimasto per sei mesi nella foresta. A meditare. Sono tornato quando le acque si erano quietate".

Nel caos di Mandalay, una delle città simbolo del buddhismo theravada e delle proteste del 2007, il clima è elettrico. Alla Mahahumi Paya, dove è contenuto uno dei Buddha più venerati, capita di incontrare schiere di poliziotti a presidiare tutti gli angoli strategici dell'immensa pagoda. Motivo? Uno dei massimi vertici del regime militare (qualcuno sussurra lo stesso Than Shwe) è venuto a venerare la statua del Buddha, con codazzo di luogotenenti-fotografi che lo immortalano, come estremo tentativo di blandire il popolo a cui si può toccare tutto, tranne la propria fede religiosa.

Qualche isolato più in là c'è l'abitazione dove vivono i Moustache Brothers, la compagnia teatrale che con i suoi spettacoli irriverenti e la farsa si prende gioco dei militari. Par Par Law è stato arrestato tre volte, si è fatto cinque anni e mezzo di lavori forzati a Myitkyina poi è stato liberato dopo una poderosa campagna internazionale di sensibilizzazione. Aveva ironizzato sulla dittatura. Non si può. Incontriamo suo fratello Lu Maw poco prima dello spettacolo che i Moustache Brothers tengono ogni sera nel minipalco improvvisato dentro casa. E' l'unico luogo dove possono ancora esercitare il mestiere, fuori dalla porta agenti in borghese sorvegliano ventiquattro ore al giorno i loro movimenti. Per questo il pubblico è composto solo da stranieri, troppo rischioso per un birmano essere associato a quel luogo di eversione.

Parla a ruota libera, senza paura di apparire, a differenza degli altri interlocutori terrorizzati dalle possibili conseguenze. "La situazione è sempre peggiore - attacca il 58enne Lu Maw lisciandosi i baffoni - e la promessa di libere elezioni è uno specchietto per allodole". Nemmeno il pressing delle diplomazie americana, internazionale e dell'Asean che si sono attivate chiedendo "elezioni libere, giuste e oneste" sortirà alcun effetto, secondo il comico, perché "la Cina ha troppi interessi nel nostro Paese". "La gente soffre - prosegue -, l'Aids sta diventando una piaga diffusa perché molte donne sono costrette, alcune anche dalle proprie famiglie, a prostituirsi per tirare su qualche kyat". Nello spettacolo, che unisce politica e danze della tradizione birmana, si sprecano le invettive contro il regime paragonato alla mafia: "Anche l'istruzione è diventata un affare per ricchi, solo i figli dei militari o dei businessman collusi con il potere possono permettersela". Ma alla fine c'è spazio per un sorriso: "Salutatemi il mio amico Dario Fo e continuate a parlare della Birmania. E' l'unica speranza che abbiamo".

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