March 8th, 2010 | by Amir Terkel
Last week as I drove to Ofer Military Prison in the West Bank to attend a hearing of  Abdallah Abu Rahma from Bili’in, it struck me that most people driving past these huge walls on their commute to Jerusalem don’t realize they are driving past a prison. That’s actually not surprising considering the concrete landscape of the west bank.
Take the quiz for yourself and see how you do: Which of these photos is the a Military Prison in the Occupied Territories?

Which is the military prison?Top Left: Wall and guard tower around Ramallah. Top Right: Wall and guard tower around Bethlehem. Bottom Right: Wall and guard tower around Qaliqilya. Bottom Left: Ofer Military Prison



http://www.nena-news.com
1 settembre 2010

Cisgiordania: Bilin Sotto Processo
di Elena Arantes

La difesa di Mohammad Khatib chiama i suoi testimoni ad Ofer mentre continuano i controversi processi militari contro gli organizzatori della lotta popolare

Ramallah 1 settembre 2010, Nena News – “Ofer è un pugno nello stomaco quando la vedi,” afferma l’ex vice presidente del Parlamento Europeo e attivista pacifista Luisa Morgantini* riflettendo sul suo ritorno agli imponenti muri grigi sormontati da filo spinato della prigione militare israeliana vicino a Ramallah.

Costruita inizialmente come base militare nel 1968, all’inizio dall’occupazione israeliana, è stata convertita nel 1988, dopo lo scoppio della prima intifada, in un carcere per detenuti politici palestinesi.

“Da fuori questa prigione sembra, in miniatura, il muro che c’è intorno a Qalqilya,” continua, “e invece dentro è un agglomerato di container. I prigionieri sono rinchiusi in specie di tende circondate da recinti, in ogni tenda ci sono 22 persone; moltissime di queste sono qui in mera detenzione amministrativa. Si vedono anziane madri lì, in attesa, magari solo per poter vedere i loro figli[...], se si è fra i 16 ed i 35 anni non viene permesso di visitare i familiari tenuti qui. Non posso fare a meno di pensare a tutto ciò quando entro ad Ofer. Arrivando non potevo che pensare anche alle altre volte in cui ci sono stata per assistere ad altri processi come quelli di Adeeb e Abdallah [Abu Rahma, ndr] di Bil’in, o quelli di Ibrahim Amira e Hassan Mousa di Ni’lin…”.

Si ferma. “Quindi si entra in uno di questi container – sembra quasi una farsa – ma questa è l’aula del tribunale militare. Tutti giocano a fare i gentili, continuano a sorridere… si vedevano due soldati stravaccati in un angolo che non mostravano granché d’interesse. C’è una falsa aria di tranquillità, ma poi, dietro, in verità c’è una tragedia, perché Mohammed Khatib potrebbe benissimo essere condannato.”

Nel pomeriggio del 27 luglio, Morgantini stava arrivando ad Ofer per raggiungere Uri Avnery, ex parlamentare della Knesset (oltre che giornalista e fondatore dello storico movimento pacifista israeliano Gush Shalom) e Jonathan Pollack (attivista di spicco israeliano e portavoce per la lotta popolare nonviolenta). Tutti e tre sono stati chiamati a testimoniare dalla difesa del palestinese Mohammed Khatib, figura di rilievo nella lotta popolare di Bil’in, segretario del consiglio comunale, e Coordinatore del Comitato di Coordinamento della Lotta Popolare nonviolenta di tutti i territori occupati palestinesi.

La natura congiunta palestinese-israeliana-internazionale della difesa processuale di Khatib rispecchia così la stessa natura congiunta, e senza precedenti, della lotta popolare nonviolenta, grazie alla quale Khatib e il suo piccolo villaggio di Bil’in sono diventati così conosciuti.

Trascinato fuori dal letto e arrestato durante un raid notturno dell’esercito israeliano (IDF) a gennaio, Khatib, padre di quattro figli, è accusato di “incitazione”, in quanto presunto responsabile dei lanci di pietre dei giovani del villaggio durante le manifestazioni settimanali che Bil’in ospita dal 2005 contro il muro israeliano che separa il villaggio dal 49% dei suoi campi agricoli. L’esercito ha arrestato Khatib dopo aver catturato e interrogato tre ragazzini del villaggio accusati di aver lanciato pietre. Mostrandogli foto degli abitanti di Bil’in scattate durante le manifestazioni, gli agenti li hanno costretti a firmare testimonianze che identificavano per nome 60 persone.

“Come hanno arrestato Mohammed?” dice Avnery, “Hanno arrestato tre bambini, di 13 o 14 anni, e li hanno spaventati… è chiaro che questi bambini erano così spaventati che sarebbero stati disposti ad identificare chiunque l’esercito avesse voluto che riconoscessero… tutto è cominciato in questo modo.”

“L’accusa è ridicola”, continua Avnery, “perché lo scopo stesso delle manifestazioni di Bil’in è di mostrare come le proteste possano essere nonviolente e basate su una cooperazione fra palestinesi e israeliani. Questi sono i principi fondamentali di Mohammed e dei suoi colleghi. Ed è stata questa la mia testimonianza: non solo che l’accusa non è vera, ma che non può essere vera, perché noi vogliamo sensibilizzare l’opinione pubblica mondiale, europea e israeliana stessa, tramite la nostra lotta congiunta nonviolenta. Ogni pietra lanciata va contro l’efficacia della nostre manifestazioni”.

“Mohammed Khatib è una persona di grande forza morale nonviolenta,” afferma Morgantini, “ come io ho avuto modo di vedere, non soltanto durante le molte manifestazioni a cui abbiamo partecipato insieme, ma anche nella sua vita privata… come ho testimoniato, le volte in cui è venuto in Italia per parlare durante varie iniziative, il pubblico è rimasto impressionato per la sua serenità e desiderio di pace e giustizia nonostante le confische, le intimidazioni, gli arresti e le perdite subite dal suo villaggio [...]. Nessuno dal corpo del corteo ha mai incitato qualcun altro a tirare pietre. I giovani sono dei ribelli, che cominciano a tirare le pietre dai margini del corteo, perché i soldati lanciano lacrimogeni, granate assordanti, e sparano pallottole rivestite di gomma […], ma sicuramente nessuno ha dato loro ‘ordini’ di farlo”.

Bil’in è riuscita senza dubbio a catturare l’attenzione del mondo. Personaggi illustri come l’arcivescovo Desmond Tutu hanno formalmente espresso il loro appoggio alla lotta di Bil’in, e la vincitrice del Nobel per la pace Mairead Maguire è scesa in piazza insieme alle molte altre figure celebri che lungo il corso degli anni si sono presentate nel villaggio per partecipare al corteo del venerdì. Il villaggio di Bil’in si è affermato come prototipo per la resistenza dal basso: le sue manifestazioni a cadenza settimanale, le cui immagini filmate sono puntualmente pubblicate su YouTube perché tutto il mondo le possa guardare, hanno attraversato il pianeta, caratterizzate non solo dalla loro essenza di azioni congiunte fra palestinesi, israeliani e internazionali, ma anche dalla loro immancabile creatività.

Dopo che a febbraio scorso gli abitanti del villaggio hanno commissionato ad un artista locale di trasformare alcuni manifestanti in “Navi”, personaggi del famoso film “Avatar” di James Cameron, i filmati su YouTube hanno velocemente contato più di 250.000 visualizzazioni, un record per il villaggio, attirando perfino l’attenzione di Cameron stesso, che successivamente ha contattato di persona Khatib per dirgli che gli piacerebbe visitare Bil’in per conoscere meglio la loro situazione.

La resistenza popolare incarnata da Bil’in e da individui come Khatib va molto oltre le manifestazioni per lottare contro l’occupazione israeliana: organizzazione di scioperi, di azioni dirette, di innumerevoli processi legali e, allo stesso tempo, l’appoggio alla campagna internazionale di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) contro Israele.

Così, se risulta forse difficile credere che Israele – una delle maggiori potenze militari del mondo, che dispone di un impressionante arsenale di armi sofisticate, carri armati, caccia militari, bombe intelligenti e schiere di soldati ben addestrati – sia davvero preoccupato per un gruppetto di adolescenti che provocano l’esercito lanciando pietre con le loro fionde; è molto più facile capire come il potere di una copertura mediatica negativa su larga scala e le costose battaglie legali generate dalla resistenza nonviolenta, siano una minaccia molto più sentita.

“Israele di fatto ha paura della lotta popolare nonviolenta,” afferma Luisa Morgantini, “La teme da un lato perché non può più proporsi come la vittima e raffigurare i palestinesi come i terroristi. Diventa chiaro che i palestinesi sono un popolo che sta rivendicando il proprio diritto alla terra e alla libertà. Dall’altra, questa forte alleanza tra palestinesi, israeliani e internazionali è considerata pericolosa dalle forze di occupazione, e quindi Israele sta facendo di tutto per reprimere queste persone e per ridurle al silenzio.”

“E’ chiaro che il governo vuole mettere fine alle manifestazioni,” fa eco Avnery, “Le manifestazioni rappresentano una grande irritazione per le autorità dell’occupazione, non perché sono violente, ma perché sono nonviolente. L’esercito sa affrontare le manifestazioni violente… ciò che li preoccupa è questo tipo di nonviolenza, che può risultare molto contagioso…si sta diffondendo attraverso tutto il paese e numerosi villaggi arabi adesso organizzano manifestazioni come quella di Bil’in”.

Da parte sua, Israele, non ha mai nascosto le sue intenzioni: il portavoce dell’esercito Peter Lerner ha confermato l’attività militare dell’IDF nei villaggi, dichiarando a febbraio alla CNN che Israele deve fronteggiare gli organizzatori delle manifestazioni della Lotta popolare, in quanto “non possono considerarsi al di sopra alla legge.”

Ma che cosa si intende per “legge” in questo caso dipende completamente dal punto di riferimento da cui si parte.

Verso la fine del 2004, l’IDF ha consegnato agli abitanti di Bil’in gli ordini di confisca per la costruzione del Muro che li avrebbe separati dalla metà delle loro terre agricole, solo pochi mesi dopo che la Corte internazionale dell’Aia aveva dichiarato questo muro (e il regime israeliano degli insediamenti nel suo complesso) illegale e da smantellare.

Nel 2007, dopo anni di battaglie legali all’interno del sistema giuridico israeliano, Bil’in ha ottenuto la sua prima vittoria decisiva contro il Muro: la Corte Suprema israeliana ha stabilito che il tracciato del Muro attraverso Bi’lin non si poteva giustificare adducendo misure di sicurezza, ma al contrario sembrava solo aprire la strada ad una futura espansione dell’adiacente insediamento di Mattityahu Est. Il tribunale di conseguenza ha ordinato un cambiamento al tracciato del Muro nel villaggio.

Tuttavia, ad oggi, il Muro a Bil’in si erge ancora là dove è stato costruito nel 2005. Gli abitanti del villaggio ancora non riescono ad accedere ai loro campi, ormai inariditi da tempo, dall’altra parte.

Khatib, come le altre figure chiave della lotta popolare nonviolenta sotto processo ad Ofer, non è stato arrestato secondo i dettami della legge internazionale e nemmeno secondo quelli della legge nazionale israeliana, la sua incriminazione e il suo arresto sono basati solamente sulla legge militare israeliana: un amalgama draconiano in cui antiche leggi ottomane e giordane si affastellano alla legislazione risalente al mandato Britannico. Eredità delle precedenti potenze occupanti, questa “legge” è stata ritagliata su misura dall’esercito israeliano per applicarla discrezionalmente ai soli Palestinesi.

“La legge non è giusta in sé, è una legge militare e il tribunale è un’arma dell’occupazione… la legge è oppressiva, e l’occupazione è oppressiva”, precisa Avnery.

Mentre l’IDF prosegue nel processare i leader della lotta popolare, attira sempre più l’attenzione internazionale verso Ofer. La condanna del tribunale pronunciata il 24 agosto contro Abdallah Abu Rahmah, insegnante alle scuole superiori di Bil’in e membro di rilievo della lotta popolare accanto a Khatib, ha suscitato numerose e influenti critiche durante quest’ultima settimana.

In una dichiarazione inequivocabile rilasciata mercoledì scorso, l’alto rappresentante per gli affari esteri dell’Unione europea Catherine Ashton ha proclamato che l’UE considera Abu Rahmah “un Difensore dei diritti umani impegnato in una protesta nonviolenta,” e ha denunciato la sua incarcerazione quale deterrente mirato ad impedire il diritto legittimo dei Palestinesi di esprimere il proprio dissenso. Amnesty International ha pubblicato una condanna simile della sentenza giovedì scorso; e l’arcivescovo Tutu ha dichiarato la sua “profonda preoccupazione” per il verdetto in un comunicato stampa rilasciato venerdì. Tutu ha esortato le autorità israeliane a rilasciare Abu Rahmah immediatamente e senza condizioni, e ha puntualizzato che “Il tentativo di Israele di utilizzare provvedimenti punitivi contro questo movimento di resistenza tramite la criminalizzazione di proteste pacifiche è inaccettabile e ingiusto.”

Abu Rahmah, che potrà conoscere la pena che accompagna il verdetto solo il mese prossimo, è già in detenzione amministrativa da 8 mesi, e potrebbe scontare fino a 10 anni di carcere per “incitamento” e “organizzazione di manifestazioni illegali”. Le stesse testimonianze dei tre ragazzini usate contro Khatib costituiscono anche le uniche prove presentate contro Abu Rahmah.

Qualunque siano le misure punitive che l’IDF adotti, è chiaro che figure come Mohammed Khatib e Abdallah Abu Rahmah non hanno alcuna intenzione di abbandonare la resistenza nonviolenta, insieme agli altri abitanti dei villaggi cisgiordani, cittadini israeliani e attivisti stranieri che ogni settimana invocano giustizia. Così come la condanna di Abu Rahmah ha innescato una campagna internazionale di alto profilo per il suo rilascio, l’incriminazione di Khatib ha mobilitato le autorevoli testimonianze di Morgantini, Avnery e Pollak al suo processo, come parte integrante di una lotta popolare congiunta.

Perfino rinchiusi all’interno delle squallide mura di Ofer, i leader della lotta popolare continuano in questo modo a far appello al mondo per dare voce all’idea essenziale del movimento nonviolento palestinese: “Rifiutiamo di morire in silenzio”. Nena News

* Luisa Morgantini attualmente coordina la rete internazionale della lotta popolare palestinese nonviolenta. Ha organizzato una presenza di tre mesi nel parlamento europeo di due rappresentanti del Comitato Popolare, uno palestinese e uno israeliano, per dare maggiore visibilità alla resistenza palestinese non violenta e al contempo all’illegalità dell’occupazione.


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