Firenze 8 settembre 2009
La Prevenzione dei conflitti armati, i Corpi Civili di Pace e la politica italiana
di Alberto L'Abate


L’opinione di quattro generali sulla prevenzione dei conflitti armati

Il secolo passato è stato quello nel quale sono morte più persone a causa delle guerre che in tutti secoli precedenti messi insieme, ma anche nel quale questi morti, che in precedenza erano in gran parte militari, sono stati in grande maggioranza civili. Si parla del 97% di morti civili nelle guerre moderne. E’ perciò urgente trovare metodi alternativi alla guerra ed alla violenza armata per difendere paesi da una eventuale aggressione esterna, o per trasformare regimi corrotti e autoritari in altri più democratici.
Ma nessuno meglio dei generali .che hanno dovuto vedere in prima persona gli orrori della guerra ne possono parlare con migliore conoscenza di causa, e possono indicarci la strada per fare questo . Accenneremo a quattro di questi: uno americano, uno inglese, uno italiano ed infine uno francese.
Il primo è il Generale D. Eisenhower, già comandante in capo delle forze alleate in Europa durante la seconda guerra mondiale, diventato poi il 34mo Presidente degli Stati Uniti. Questi, in uno dei suoi primi discorsi come tale, ha detto: “ Io odio la guerra come solo un soldato che l’ha vissuta può odiarla, così come uno che ha visto la sua brutalità, futilità, stupidità” ed oltre : “Ogni cannone costruito, ogni nave da guerra varata, ogni missile sparato, significa, alla fine, un furto verso coloro che hanno fame e devono essere sfamati, verso coloro che hanno freddo e non hanno di che coprirsi. Questo mondo non spende per le armi solo denaro, ma spende il sudore dei suoi operai, il genio dei suoi scienziati, le speranze dei suoi figli. Questo non è un modo di vivere nel vero senso della parola. Sotto le nubi della guerra c’è l’umanità appesa ad una croce di ferro (16 Aprile 1953). Ed il 17 Gennaio 1961, nel suo discorso di commiato alla nazione, dopo due mandati, aveva ammonito la popolazione del suo paese a stare attenta al complesso militare–industriale che era anche più potente dello stesso presidente e che non era affatto interessato alla pace ma che avrebbe tentato, per mantenersi in vita e potenziarsi, di portare il paese verso sempre più guerre . Speriamo che Obama, sulla nomina del quale a Presidente degli USA si sono accese tante speranze per un futuro più pacifico e più ecologico, non si lasci troppo influenzare da tale complesso .
Il secondo è il generale inglese Harbottle, autore del primo manuale del Peace Keeping delle Nazioni Unite . A Cipro, che era ed è tuttora divisa tra greci e turchi, c’è stato uno dei primi interventi delle World Peace Brigades, che sono stati a lavorare in quella isola per vari anni. Harbottle, che era il comandante dei Caschi Blu delle Nazioni Unite che erano nell’isola per evitare scontri tra gli eserciti di questi due paesi, venuto a conoscenza del lavoro delle World Peace Brigades si rese conto che il lavoro fatto da questi corpi civili era più valido di quello svolto dai suoi Caschi Blu. Infatti, mentre i caschi blu non potevano avere molti rapporti con la popolazione, per non essere considerati di parte, i corpi civili riuscivano a mettere insieme greci e turchi per ricostruire le case e tutte le cose distrutte da uno dei due eserciti. E riuscivano perciò a far comprendere reciprocamente le ragioni dell’altro. Si è perciò avvicinato alla nonviolenza ed è diventato uno dei massimi consulenti delle Peace Brigades International, ha fondato una associazione di “Generali per la Pace, cui hanno aderito generali di vari paesi del mondo, ed ha dato vita, nel suo paese, ad un importante centro di ricerca per la prevenzione dei conflitti armati, tuttora attivo anche dopo la sua morte avvenuta qualche anno fa
Il terzo è un italiano, il Generale Pasqua, che comandava in Libano le Forze delle Nazioni Unite, che erano però disarmate perché il loro compito era solo quello di evitare l’entrata in Libano di ribelli e di armi. Secondo il suo racconto essi sono riusciti a fare un lavoro di mediazione ed a convincere i ribelli a ricostruire gli acquedotti che avevano distrutto, cioè a lasciare le armi per iniziare le trattative, e questo proprio grazie proprio al fatto di essere disarmati. Infatti al momento in cui gli Stati Uniti sono intervenuti armati in quelle stesse zone, il loro lavoro di mediazione si era dovuto interrompere finché i ribelli non si sono resi conto che l’intervento degli Stati Uniti (e della Gran Bretagna con questi) non era affatto collegato a quello delle Forze Armate delle Nazioni Unite comandate dal Generale Pasqua. Solo a questo punto è stato possibile riallacciare i rapporti e completare il lavoro .
L’ultimo di cui voglio parlare è un generale francese, invitato ad intervenire ad un convegno a Parigi sui Corpi Civili di Pace,o meglio,nella loro dizione, di “Interventi Civili di Pace, presso la sede del Parlamento Francese, organizzato da un coordinamento di associazioni interessate a questi temi guidate da Jean Marie Muller. Il generale, che era venuto a parlare in nome del Ministero della Difesa francese, ha detto che in ogni conflitto ci sono tre fasi: la prima quella dell’intervento armato per superare i combattimenti e giungere a fare accordi di pace, il secondo quello di intervento misto militare-civile, per rimettere su le strutture civili del paese distrutte a causa della guerra, ed il terzo esclusivamente civile per riattivare la vita civile in quella zona. Ma sia Jean Marie Muller che il sottoscritto abbiamo insistito chiedendo al generale dove metteva la prevenzione dei conflitti armati che, secondo noi, veniva prima delle tre fasi da lui accennate. Lui per vario tempo non ha risposto alla nostra domanda, ma poi, ulteriormente sollecitato, ha dato una risposta pressappoco di questo tipo: “Anche noi militari vorremmo che prima di mandarci a fare le guerre, ed forse anche a morirci, i politici discutessero più a fondo su questi problemi e cercassero vie di prevenzione dei conflitti armati. Ma la prevenzione non spetta al nostro Ministero ma al Parlamento intero. E questo è, spesso, a grande maggioranza, a favore dell’intervento armato” . Ed infatti per l’intervento in Afghanistan il parlamento francese (come anche quello italiano qualche giorno dopo) si dichiarerà quasi all’unanimità a favore dell’intervento armato, senza tenere in alcun conto la proposta dei Talebani, apparsa per ben due volte nei nostri giornali, di consegnare Bin Laden purché venisse giudicato da un tribunale internazionale neutrale, e non dagli americani stessi come loro pretendevano .

La prevenzione dei conflitti armati ed i Corpi Civili di Pace

Malgrado l’opinione di questi generali che sottolineano la necessità di superare le guerre, e l’importanza della prevenzione dei conflitti armati, questa ultima è la cenerentola degli Stati. Ad un convegno su questi temi tenuto a Bolzano-Bologna uno dei maggiori esperti internazionali di questo tipo di interventi ha sostenuto che, a livello internazionale, per la prevenzione dei conflitti armati si spende 1 Euro contro 10.000 Euro spesi invece per fare le guerre . E’ chiaro perciò che dobbiamo cercare di superare questo squilibrio se non vogliamo un futuro pieno di guerre Uno dei primi a comprendere l’importanza dei corpi civili di pace per la prevenzione dei conflitti armati è stato il deputato altoatesino al Parlamento Europeo, Alex Langer, che, con il suo collega Ernest Guelcher, del gruppo verde europeo, è riuscito a fare approvare dal Parlamento Europeo (Rapporto Bourlanger/Martin, del 15 maggio 1995) un testo che riconosceva l’importanza di questo organismo. Dice il testo : “un primo passo verso un contributo nella prevenzione del conflitto potrebbe essere la creazione di un corpo civile di pace europeo con il compito di addestrare osservatori, mediatori e specialisti nella risoluzione dei conflitti”. Mozioni simili verranno approvate dallo stesso Parlamento sia nel 1999 che nel 2002. Ma anche se è cresciuta negli organismi internazionali la coscienza dell’importanza di questo tipo di attività (vedi “Agenda per la Pace” delle Nazioni Unite, di Boutros Ghali ), e che se ne parli anche nella prima bozza del Trattato Europeo (mai approvato) questi corpi non sono ancora stati costituiti, e si continua privilegiare gli interventi armati, o quelli civili ma di polizia, anche questa munita di armi. Comunque, da parte delle Nazioni Unite e dell’Europa, sono previsti anche interventi civili non armati di esperti per la ricostruzione e la democratizzazione dei paesi oggetto di conflitti armati, e per le rimessa in moto della vita civile, come è successo nel Kossovo. Ma per la prevenzione dei conflitti armati, che è il compito fondamentale di questo tipo di interventi, niente o poco viene fatto. Ma a livello mondiale le organizzazioni non governative, non solo quelle italiane ma anche internazionali (come ad esempio le Nonviolent Peace Forces ), hanno lavorato moltissimo in questo campo, ed hanno dimostrato concretamente l’importanza di questi tipi di interventi
Un primo bilancio di queste attività, non solo di quelle delle ONG ma anche di quelle governative, oltre che al convegno di Bolzano-Bologna , è stato fatto recentemente a Roma, nel primo incontro di presentazione del progetto sugli “Interventi civili di Pace”. In questo Kai Brand-Jacobsen, del Patrir, Dipartimento di Operazioni per la Pace della Romania, che era stato anche uno dei principali relatori a Bolzano-Bologna, ha presentato un quadro tutto sommato ottimistico di quanto sta avvenendo in questo campo a livello mondiale. Secondo lui infatti c’è, da parte dell’opinione pubblica mondiale, un sempre maggior riconoscimento dell’importanza di trovare metodi più efficaci di trattare i conflitti, una maggiore delegittimazione delle perversioni e degli orrori della guerra e della violenza, ed una presa di coscienza che la pace è possibile, pratica e necessaria. Ed a questa presa di coscienza dell’opinione pubblica, secondo questo studioso, che per la sua attività si trova impegnato in vari paesi del mondo nella progettazione di interventi di questo tipo, e nella formazione del personale che in questi servizi va ad operare, corrisponde anche una notevole crescita e miglioramento degli interventi stessi. In particolare ci sono più organizzazioni che in varie parti del mondo se ne occupano, sono anche aumentati gli attori (governi - in Europa, ad esempio, la Svezia, la Germania e l’Inghilterra – organizzazioni intergovernative, ONG, autorità locali, i mezzi di comunicazioni di massa, ed altri). C’è stato anche un allargamento dei problemi affrontati, dal “peace building” o costruzione della pace, alle segnalazioni precoci, al peace-keeping civile nonviolento, all’educazione alla pace, alla messa in atto di infrastrutture di pace, allo sviluppo di forme di giustizia ricostruttiva, ecc., ecc.. C’è stato, inoltre, un notevole miglioramento delle metodologie e degli approcci con i quali vengono programmati e valutati questi interventi, ed un notevole sviluppo delle capacità e delle conoscenze necessarie agli interventi di peace-building, che hanno portato a notevoli miglioramenti di questo tipo di intervento, ed una sensibile crescita del riconoscimento dell’importanza di imparare dall’azione, e cioè di quella che, in termini tecnici, si chiama la ricerca-azione.

Gli obbiettivi e le principali attività dei Corpi Civili di Pace

Questi aspetti sono stati sviluppati a fondo nel convegno di Bolzano-Bologna, che ha visto la partecipazione di vari esperti internazionali, e di molti operatori sul campo. Arno , del Centro di Formazione di Statslaining, uno dei centri europei più attrezzati ad approfondire questo tema, nella sua relazione introduttiva al lavoro della commissione formazione, ha messo in evidenza quelli, che secondo lui, sono i principali obbiettivi dei Corpi Civili di Pace. Questi sono 1)la prevenzione delle crisi, 2) la nonviolenza, 3) l’ , ovvero l’aiuto alle popolazioni ad essere attive e non passive, 4) l’ownership, ovvero l’essere attenti a che tutto quello che viene fatto nella zona, ed alla popolazione stessa dell’area in cui avviene l’intervento; 5) la lotta alle cause dei conflitti (tra quelli possibili: i diritti umani violati; i rapporti squilibrati tra stato e società, l’economia drogata dalle armi, l’ ecologia distrutta, la militarizzazione della sicurezza, della cultura, della formazione, e dell’ informazione), 6) no-harm, ovvero come fare interventi privi di effetti negativi per la popolazione locale, e per eventuali ritorni di fuoco; 7) la escalatadei conflitti, e cioè quella che viene di solito definita come attività di “mitigazione dei conflitti”, 8) migliorare le condizioni di vita delle donne, 9) il cercare di stimolare la cooperazione tra gli attori internazionali, 10) una corretta informazione, 11) la formazione ed il training (per gli operatori).
Ma se si passa a vedere quali sono le principali attività che vengono portate avanti da questi interventi dalle conclusioni del convegno di Bolzano-Bologna queste risultano essere le seguenti:

Peacekeeping Tra le attività nonviolente importanti in questo settore (e cioè in termini tecnici quelle che puntano ad interrompere il conflitto armato ed aprire spazi di trattative) possiamo indicare:

Presenza. La presenza, in una situazione di conflitto, di osservatori esterni (spesso definiti CCP), tende ad avere un effetto di mitigazione rispetto alla violenza diretta, e rappresenta un riconoscimento dell’importanza della situazione locale conferendo anche dignità alle popolazioni del posto. Inoltre funge da stimolo per l’informazione e l’attenzione dell’opinione pubblica anche di altri paesi.
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Accompagnamento, si veda, come esempio, l’attività messa a punto dalle Peace Brigades International in vari paesi del mondo, che cerca di proteggere, senza l’uso di armi, ma con un collegamento stretto con gruppi attivi a livello internazionale, le persone a rischio per le loro attività per la pace e per la protezione dei diritti umani. Un esempio di questa attività portata avanti dalle PBI presso le comunità di pace della Colombia è stato presentato a Firenze in un incontro di studio su queste tematiche

Interposizione, su questa attività, tra le più rischiose (si veda la morte di Rachel Corrie, la volontaria americana che con il suo corpo cercava di difendere una casa di palestinesi dalla distruzione di un buldozer israeliano), è bene parlarne un po’ di più. Ne accennerò più tardi in questa stessa relazione.

Monitoraggio . un esempio di monitoraggio elettorale in Africa è stato presentato nello stesso incontro di Firenze, dai Beati Costruttori di Pace, ma altre volte questa attività riguarda la verifica di accordi di pace, o di interruzione del conflitto armato, o simili.

Negoziazione. questa può, ad esempio, cercare di facilitare il passaggio di convogli umanitari per l’aiuto alle popolazioni vittime della guerra . E’ un attività svolta normalmente dall’ONU, dalla Croce Rossa, oppure dai Medici senza frontiere e spesso anche da Emergency. Ma questa attività può riguardare anche aspetti più vasti, e cioè, una negoziazione di accordi per superare il conflitto o almeno per iniziare un processo di descalata dello stesso.
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Informazione. La corretta informazione, specie nelle fasi di pre-conflitto, nelle quali i contendenti cercano di mostrare l’avversario come un grosso pericolo per le loro vite per convincere i propri adepti a partecipare al conflitto armato - si pensi al ruolo avuto dai “Media dell’Odio” nell’imbarbarimento del conflitto dei Balcani- è un lavoro fondamentale per migliorare la situazione e giungere a dei possibili accordi.

Facilitazione. La maggior parte dei conflitti, sia a livello internazionale che interni, sono conflitti squilibrati, in cui una delle due parti in conflitto ha maggiore potere e maggiori capacità di risolvere il conflitto nel senso ad essa favorevoli (tra i tanti esempi, sovrani autoritari e loro sudditi; colonizzatori e colonizzati; rapporti uomo-donna; marito-moglie , ecc. ecc.). In questo caso estrema importanza ha il lavoro di riequilibramento del conflitto, non per rovesciare i rapporti e portare al potere quelli ora senza potere –sarebbe un lavoro politico e non professionale - ma per far si che ambedue abbiano lo stesso potere e possano trattare, alla pari, sulle migliori strade per superare il conflitto. E’ questo il tipo di lavoro che si definisce di facilitazione, od anche di “Empowerment” che tende ad aiutare i gruppi più deboli a prendere coscienza della propria situazione, a superare la loro disorganizzazione e cominciare ad organizzarsi in modo da potersi confrontare, alla pari, con la parte con maggiore potere per trovare soluzioni che vadano alla risoluzione del conflitto, e non ad accrescere il potere di quello già più potente. Un lavoro abbastanza simile è quello che, in lingua inglese, si chiama di “advocacy”, che cerca di aiutare le persone ed i gruppi, vittime di soprusi e vessazioni, a difendersi da questi in modo nonviolento ed incruento .

Peacebuilding Le attività di peacebuilding hanno come obiettivo fondamentale la creazione di una pace sostenibile a lungo termine, e sono quindi presenti in tutte le fasi del conflitto. Per questo, lavora anche sulle cause della violenza, diversamente dal peacekeeping e dal peacemaking
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Il peacebuilding si esplicita nelle seguenti funzioni: 1) capacitazione (empowerment) della società civile; 2) creazione di reti fra le persone; 3) favorire i flussi di informazione; 4) creazione di spazi di dialogo; 5) promozione del dialogo; 6) facilitazione della riconciliazione; 7) monitoraggio della fase di riconciliazione; 8) monitoraggio e diffusione di rapporti umani e sociali; 9) mediazione; 10) diplomazia parallela ai diversi livelli; 11) coordinamento con altri attori sul campo (nel caso di interventi internazionali: con la cooperazione, l’aiuto umanitario, le forze armate; nel caso di interventi interni: i servizi sociali, i comitati cittadini, le forze dell’ordine)

Peacemaking L’intervento di peacemaking ha come obiettivo la realizzazione di un accordo esplicito fra le parti. I CCP in questa attività rappresentano uno degli attori che può assumere una maggiore o minore responsabilità, una significativa voce in più.

Uno sguardo più approfondito alle attività di interposizione nonviolenta

Non starò qui a riprendere quanto ho già scritto in un capitolo specifico su questo tema, apparso in un mio recente libro (Per un futuro senza guerre).Le persone interessate possono andare a leggere questo capitolo. Cercherò solo di sintetizzare alcuni dei principali commenti al grafico qui accluso



Questo grafico nasce da una mia discussione, conclusasi con un accordo, con uno studioso australiano, T. Weber, che ha studiato a lungo questi tipi di interventi e che è anche autore di uno dei primi libri dedicati a questo tema . Egli considerava gli interventi delle ONG, nei conflitti a larga scala, come velleitari perché richiedevano una grande capacità di organizzazione, molti soldi, e molti strumenti (macchine, aerei, ecc,) che queste non possedevano, o avevano a livello non sufficiente. Ma riteneva invece importante il loro impegno nei conflitti a piccola scala che potevano servire a preparare anche gli altri. E pensava che gli interventi nei conflitti a grande scala dovessero essere riservati alle Nazioni Unite, od altri organismi intergovernativi, con maggiori capacità strumentali ed organizzative delle ONG. Io ero d’accordo su questo ma facevo notare come gli stati, che controllano e gestiscono questi organismi, non erano ancora disponibili a fare interventi di questo tipo, e che tendevano invece a privilegiare, rispetto al peace-keeping, interventi di peace-enforcing (imposizione della pace) meno rischiosi per la vita dei loro soldati, e più produttivi per la vendita delle loro armi più sofisticate (le cosiddette bombe intelligenti, o gli aerei invisibili, ecc.). Perciò ritenevo ancora necessario un lungo lavoro dal basso, da parte di ONG che si dovevano organizzare meglio e coordinarsi, per sperimentare questo tipo di intervento e convincere gli stati, e gli organismi sopranazionali, a farli propri. Per questo nel grafico presentavo un serie di esperienze, definite da me di “interposizione nonviolenta” o almeno non armata, come quelle delle PBI che avevano avuto risultati molto positivi. Ma questi validi interventi non erano avvenuti solo in conflitti a bassa intensità ma anche in altri a scala elevata, molti di questi spontanei ed altri invece organizzati ed esterni alla zona del conflitto. E concludevo che i risultati migliori, vedi la freccia sul conflitto su Israele-Palestina, si potevano avere solo mettendo insieme interventi esterni e quelli interni, come quelli fatti da “Time for Peace” in questa zona. Infatti unendo le forze pacifiste interne ad una determinata situazione, con quelle esterne interessate ad una soluzione pacifica del conflitto, si poteva dar vita ad una massa critica molto più forte e molto più capace di influenzare i due attori in conflitto a trovare accordi di pace . Solo in seguito, quando questi interventi dal basso avessero dimostrato concretamente la loro la validità, si sarebbe potuto sperare in un coinvolgimento maggiore dei singoli stati e delle stesse Organizzazioni Governative.

Interventi interni ed esterni e loro collegamento reciproco

Ma questo richiede una maggiore organizzazione dei movimenti, e delle organizzazioni per la pace, spesso del tutto divise e talvolta anche in concorrenza l’una con l’altra. Il progetto sugli Interventi Civili di Pace, che ha visto lavorare insieme moltissime organizzazioni italiane, finora slegate, è un ottimo esempio di come dobbiamo, e possiamo, lavorare. Ma spesso c’è la tendenza a vedere gli interventi dei Corpi Civili di Pace all’estero come staccati e completamente diversi da quelli che si devono portare avanti nel nostro paese. Questo grafico, anche questo già apparso in un altro mio lavoro mostra invece come questo non sia vero, e come, per avere validi interventi nonviolenti anche all’estero, bisogna essere capaci di usare questa arma per affrontare e possibilmente risolvere anche problemi interni.



Come si può vedere da questo grafico, quello che ho definito il triangolo della pace necessita di gruppi locali che devono essere ben preparati ad affrontare, con la nonviolenza, i tanti problemi locali che sono presenti nelle nostre realtà, razzismo, mafia, pregiudizi contro gli immigrati, droga, corruzione, militarizzazione della società (si pensi, ad esempio, allo stesso problema dell'allargamento della base USA di Vicenza) ecc, ecc. Un esempio di questo tipo di lavoro l’abbiamo, avuto, nell' incontro di Firenze, nell’attività dei Berretti Bianchi della Versilia, per la valida integrazione della popolazione rom ivi presente. Ma il triangolo necessita anche di avamposti, che qui abbiamo definito ambasciate di pace, che nei luoghi dei possibili conflitti, o di quelli già in atto, siano presenti a lungo termine e collaborino strettamente con le tante forze, che, nello stesso luogo, si danno da fare per evitare il conflitto armato e per cercare soluzioni che vadano a vantaggio di tutti, e non solo di una delle parti del conflitto. Ma il terzo corno del triangolo è una migliore organizzazione a livello nazionale ed internazionale che permetta di superare le debolezze e le carenze (come fondi, come personale e strutture) delle singole organizzazioni, come stiamo tentando di fare, a livello nazionale, con il progetto “Interventi Civili di Pace”. Come si vede dal grafico tra questi tre angoli è necessario un continuo interscambio (le freccie di andata e ritorno) che permettano di essere sempre in contatto e organizzarsi, e rispondere, prima possibile, alle esigenze emerse in ciascuno degli altri angoli. Ed in alcuni casi dar vita ad interventi più episodici ma importanti, che qui definisco “Forze Nonviolente di Pace” (ma l’organizzazione che ha poi preso questo nome in realtà è stanziale e lavora a lungo termine nell’isola dello Shri Lanka) che invece prendono il carattere di interventi temporanei, come missioni di studio o marce pacifiste e simili, che tendano ad appoggiare il lavoro per la pace fatto dalle organizzazioni locali, dando a queste ultime un appoggio che spesso non hanno e facendole sentire parte di un movimento più largo che va ben oltre il confine nazionale. E’ questo ultimo un elemento fondamentale per dar vita ad un processo di globalizzazione dal basso per la pace che tenda a superare gli scompensi della globalizzazione dei mercati che sta portando il mondo in una situazione insostenibile.


I Corpi Civili di Pace e la politica italiana

Questa politica è stata finora ed è tuttora molto influenzata dalla cultura prevalente, troppo legata alla concezione hobbesiana dell’ “homo homini lupus” che richiede necessariamente, per prendere delle decisioni e superare i conflitti, il “Leviatano”, e cioè un potere centrale molto forte ed autoritario, e che svaluta, perciò, la concezione opposta, che è invece quella tipica della democrazia, che il potere è nel singolo cittadino che deve perciò usarlo nel modo migliore, e nel modo più cosciente possibile (se le regole del gioco e gli strumenti di comunicazione di massa glielo permettono, o per lo meno lo aiutano a farlo). Ed è anche necessario capire a fondo i limiti dei conflitti armati che tutti dicono di voler superare ma per il superamento dei quali si spende, secondo quanto già detto, solo 1 ¤ contro almeno 10.000 ¤ destinati a fare le guerre. E questo anche perché, purtroppo, al momento attuale, queste rendono molto, sia perché l’attuale modello di sviluppo dei paesi occidentali, compreso il nostro (copiati pedissequamente da parte della Cina ed India), che ha alla base risorse non rinnovabili (petrolio, gas, uranio, ecc.) e che perciò, se le popolazioni di questi paesi vogliono mantenere il proprio livello di vita, come in realtà desiderano (malgrado la crisi attuale che cercano di superare solo con qualche regola in più per controllare lo sviluppo capitalistico), servono le guerre per conquistare o tenere sotto controllo queste risorse, oppure per vendere le armi che sono tra le industrie che rendono di più e non sono in crisi.
In appoggio a questa mia tesi è importante tenere conto quanto scriveva, nel 1991, Alex Langer : “Contro la guerra, cambia la vita: le guerre scoppiano "a valle", quando tutta una infausta concatenazione di soprusi, violenze e fallimenti si è già prodotta e sembra diventata irrimediabile; i popoli, la gente comune, sono poi chiamati a pagare il conto finale senza aver potuto intervenire sulle singole voci che lo hanno via via allungato. Ma dinanzi al fallimento della politica e della negoziazione, che sfocia nella guerra, bisognerà pur rafforzare gli "anti-corpi" a disposizione di ogni singola persona per prevenire le guerre e per non lasciarsene, comunque, catturare, una volta che sono scoppiate. Se tutto uno stile di vita (consumi, produzioni, trasporti, energia, banche...) nel quale siamo largamente coinvolti, per potersi perpetuare, ha bisogno di condizioni assai ingiuste che regolano le relazioni tra i popoli e con la natura, bisognerà dunque intervenire "a monte" e mettere in questione la nostra partecipazione (anche individuale) ad un "ordine" economico, politico, sociale, ecologico e culturale che rende necessarie le guerre che lo sostengono”. E prosegue Alex: “Se il consenso alla guerra (sotto forma di nazionalismi, razzismi, pregiudizi, stereotipi, ecc.) può con tanta facilità diventare maggioritario - non certo soltanto tra i "fondamentalisti islamici"! - si dovrà intervenire anche qui "a monte" ed allargare una solida base ideale e culturale di disposizione alla pace ed alla convivenza, disintossicando cuori e cervelli. Se è considerato scontato che, una volta scoppiata la guerra, non resta che allinearsi ed arruolarsi (materialmente e culturalmente), bisognerà pur che qualcuno lavori per suscitare e consolidare scelte di "obiezione alla guerra” .
Ma un altro autore, anche questo a me molto caro, conferma questo legame tra guerra e modello attuale di sviluppo e chiede che questo venga modificato; questo è John Friedmann, uno dei più importanti pianificatori territoriali mondiali. Scrive questo studioso: ”Il principio capitalistico della ‘crescita illimitata’ è insostenibile a lungo termine e alla fine ci condannerà ad una guerra permanente tra nazioni per l’accesso a risorse, come il petrolio e l’acqua, per la giustizia distributiva e per i mezzi di sopravvivenza collettiva. Tale stato di guerra è già in atto in diverse parti del mondo. Lo sviluppo alternativo deve quindi trovare il modo di superare il principio obsoleto, ma ancora dominante, di accumulazione illimitata e di crescita economica, per dar vita ad uno sviluppo orientato principalmente al soddisfacimento dei bisogni umani primari di tutti i membri all’interno delle loro comunità a base territoriale … E’ possibile raggiungere uno sviluppo socio-economico che assicuri ad ognuno, per prima cosa, l’accesso alla sussistenza di base in modo da rendere possibile la crescita delle capacità individuali….L’unico illimitato potenziale degli esseri umani è l’universo dello spirito creativo che cerca la conoscenza, la scoperta e l’illuminazione ….Le istanze per uno sviluppo alternativo sono universali, sono, a mio parere le istanze di coloro attualmente privati del potere (disempowered), ed annunciano un altro modo di stare al mondo. Ma la loro realizzazione dipende da una continua lotta nonviolenta, a livello locale e globale, contro gli attuali poteri costituiti del mondo” .
Ma a questo punto mi resta solo da presentare le conclusioni che diano atto di come muoversi per raggiungere questa società alternativa che vogliamo costruire. La prima indicazione metodologica, che richiama anche quanto già detto da Friedmann, ce la dà Aldo Capitini: “Per trasformare tutta la società è .... necessario cambiare il metodo, e farla cominciare dal basso invece che dall’alto. Bisogna cominciare uno sviluppo del controllo dal basso che dovrà crescere sempre di più. Essere uniti, ma anche attivi, pronti a dedicare un po’ di tempo, un po’ di energie, un po’ di soldi, ad organizzare libere associazioni, perfezionandole sempre più. E bisogna cercare di conoscere i fatti, di sapere come vanno le cose politiche, sociali, sindacali, amministrative”. Ed aggiunge: “E’ vero: ci sono i partiti, i sindacati, le amministrazioni comunali e provinciali, il governo con i suoi ministeri; ma questo non basta, è necessario aggiungere il controllo di tutti dal basso, per criticare, approvare, stimolare, per dare elementi che quelli dall’alto non conoscono, e fare proposte a cui essi non hanno pensato” .
Secondo me l’urgenza primaria, soprattutto in questo momento di crisi e di incremento vertiginoso di persone disoccupate, e con le moltissime famiglie prive di alcun reddito, o con redditi di fame, anche nei paesi cosiddetti sviluppati, è quella di ridurre in modo drastico le spese militari (personalmente penso che dovrebbero essere del tutto eliminate) per investire tutto in campo civile. E’ questa l’unica reale possibilità di superare questa crisi in tempi ragionevoli, oltre a quella già accennata di ricerca di un modello di sviluppo del tutto diverso da quello attuale;
Ma una persona giustamente critica, dopo aver letto tutto questo, porrà un quesito “ Ma per raggiungere tutto questo è necessaria una forte partecipazione di base dei cittadini che, specie nei paesi ricchi, sembrano essere addormentati dal consumismo ed essere alla ricerca non della giustizia ma del denaro, in quella che è stata definita “l'egolandia” , dove si pensa solo a se stessi e non agli altri”. Personalmente penso che la persona che si pone questo quesito abbia ragione. Io stesso trattando di questo tema, pur apprezzando i passi avanti fatti soprattutto grazie ai Forum Mondiali e Regionali per una Alternativa che sono riusciti a mobilitare, prima della seconda guerra del Golfo e contro di essa circa 100 milioni di persone in 70 paesi diversi, tanto che il New York Times ha parlato della nascita, oltre agli USA, della seconda potenza mondiale, ho sottolineato i limiti di questa partecipazione . Questa infatti dura, normalmente, un giorno o poco più, aiutata come è anche da partiti ed organizzazioni interessate, e non implica condanne o altre conseguenze negative alle persone che vi partecipano. Quando invece l'azione comporta rischi di imprigionamento o condanne, le persone che partecipano diminuiscono notevolmente. L'esempio più chiaro è quello dell'obiezione di coscienza al servizio militare nel nostro paese. Quando gli obbiettori andavano in carcere per uno, due, e talvolta anche tre anni, i giovani che facevano questa scelta erano poche centinaia. Quando è stata poi approvata, grazie a questi primi giovani coraggiosi, una legge che permettesse di fare un servizio alternativo le domande per l'obbiezione (se tale si poteva ancora chiamare) sono diventate oltre 110.000 nel 2001. E se si va a vedere a fondo i risultati di questi impegni di massa, ma episodici, come quelli citati prima per la seconda guerra del Golfo, sono serviti solo a ritardare di qualche mese la guerra, ma non ad impedirla. Dati i grandi interessi economici dietro le guerre, sia per la costruzione e la vendita delle armi, sia per lo sfruttamento di risorse energetiche indispensabili al nostro sviluppo, sia infine per le commesse per la ricostruzione dei paesi distrutti dalla guerra, una partecipazione così saltuaria ed epidodica serve abbastanza a poco. Se si vuole realmente “mettere la guerra fuori dalla storia” come suona uno slogan dei Forum Mondiali ci vuole una partecipazione molto più intensa e duratura, come quella, spesso durata mesi e mesi, che è riuscita a far cadere alcuni dei governi dittatoriali dei paesi dell'Est Europeo (spesso però, per mancanza di un progetto costruttivo, finiti in mano alla mafia ed al cosiddetto libero mercato a questa alleato), oppure, anche di gruppi piccoli, ma più coraggiosi, che affrontano le conseguenze delle proprie azioni, come appunto i primi e veri obbiettori di coscienza al servizio militare.
Se si fa infatti, un analisi seria dei cambiamenti avvenuti, in rapporto alla guerra ed alla violenza, nella nostra società, si può vedere che sono più quelli ottenuti grazie a lotte nonviolente che hanno portato a condanne e punizioni alle persone che le hanno fatte, piuttosto che da cambiamenti elettorali con l'avvento della destra o della sinistra al potere. Dato che qualche lettore sobbalzerà nel leggere questa affermazione cercherò di illustrarla più approfonditamente.
E' certo che la prima legge che riconosceva in Italia il diritto all'obiezione di coscienza non sarebbe mai stata approvata senza i primi obbiettori di coscienza tra i quali, ad esempio Pietro Pinna, che ha passato in carcere vari anni e senza le persone che, come Don Milani e Padre Balducci, hanno preso posizione a loro favore ed hanno subito anche loro condanne per questa scelta . E la sentenza della Corte Costituzionale che ha riconosciuto che il servizio civile alternativo doveva essere della stessa lunghezza di quello militare, quando invece la legge approvata richiedeva che fosse di vari mesi più lungo, non ci sarebbe mai stata senza i pochi ma determinati giovani che, dopo aver fatto il servizio civile per lo stesso periodo di quello militare, hanno preferito andare in carcere piuttosto che continuare nel loro servizio, ma nello stesso tempo hanno fatto ricorso alla Corte Costituzionale perchè giudicasse sulla giustezza dell'inuguaglianza di trattamento previsto per i due servizi . Ed infine anche le sentenze, sempre della Corte Costituzionale, che considerano il servizio civile alternativo e quello militare come equivalenti l'uno con l'altro per la rispondenza al dettato costituzionale di “Difesa della Patria” non ci sarebbero mai state senza gli innumerevoli processi affrontati dagli obbiettori di coscienza alle spese militari che chiedevano e chiedono il riconoscimento della difesa civile nonviolenta, e le tante sentenze (21 se non mi sbaglio) che li assolvevano dall'imputazione di disubbidienza alle leggi dello stato . Infatti la maggior parte di loro aveva già dovuto affrontare altre forme di rivalsa dello stato che consisteva nel pignoramento di beni il cui valore superava notevolmente la cifra obbiettata . Ed anche l'approvazione delle leggi che riconoscono l'importanza della Difesa Non armata e Nonviolenta ed istituiscono un organismo apposito di Consulenza al Ministero degli Affari Sociali è merito di queste lotte . E secondo studi approfonditi anche la riconversione della base nucleare di Comiso in Aereoporto Civile “Pio La Torre” (il sindacalista siciliano ucciso, sembra, proprio per il suo impegno contro la base militare) sarebbe merito anche delle lotte nonviolente contro quella base e contro tutte le basi nucleari dell'Occidente . Anche se i casi da citare sarebbero anche altri, come le lotte contro il nucleare civile in Maremma (per le quali il sottoscritto, sua moglie, ed altri amici sono stati condannati a sei mesi di carcere con la condizionale) che hanno sicuramente contribuito all'approvazione del referendum per l'eliminazione del nucleare anche civile nel nostro paese (referendum che però il governo attuale vorrebbe dare per non approvato), o quelle contro la “Mostra dei Mostri”, per la vendita di armi a Genova, che hanno fatto spostare la mostra in una nave in mezzo al mare, credo che, per la conferma della prima parte di quanto da me detto, sia sufficiente fermarsi qui, per passare ora alla conferma della seconda parte dell'affermazione dove confronto i risultati ottenuti da queste lotte con quelli, in questo stesso campo, ottenuti da governi sia della destra che della sinistra.
Per quanto riguarda la destra il problema si risolve in modo molto semplice. Anche se Berlusconi attualmente si vanta di essere un pacifista e di aver aiutato a risolvere il conflitto tra Russia e Georgia, ed ogni tanto la Lega esce fuori con proposte come quelle di far uscire i nostri militari dall'Afghanistan (subito smentite dagli altri suoi alleati di governo) è certo che la posizione di questo governo è sempre stata a favore di interventi militari, sostenendo che chi fa veramente la pace sono solo i nostri militari, ed appoggiando in pieno, fin dai tempi dell'Iraq, la politica aggressiva di George Bush Jr, e sostenendo che il nostro intervento militare in quel paese era esclusivamente umanitario (in realtà la cifra utilizzata dai militari per interventi di questo tipo era solo, al massimo, del 10 % circa del costo complessivo), ed appena andato al potere Berlusconi il nuovo ministro della Difesa La Russa ha subito mandate in Afghanistan altri armi ed altri soldati e cambiate le caratteristiche della nostra missione in Afghanistan rendendo la nostra presenza in quel paese molto più aggressiva di prima.
Ma il problema non migliora molto se si guarda anche il curriculum pacifista della sinistra. Per questa analisi siamo aiutati dalle “confessioni” di D'Alema, quando era presidente del consiglio ed è stato “costretto” (così sembra voler dire) a fare la guerra contro la Serbia a causa del Kossovo. Ma sentiamo direttamente quello che dice D'Alema. Egli rispondendo ad una domanda dell’intervistatore, il giornalista F. Rampini, sulla limitazione di sovranità nazionale che ha poi fatto coinvolgere il nostro paese nella guerra jugoslava, risponde: “ Nella difesa e nella politica estera, la sfera decisionale è ormai particolarmente complessa: si combinano elementi sovranazionali e meccanismi formali intergovernativi. Chi rappresenta l’Italia decide insieme ad altri, può essere messo in minoranza ed io credo debba con responsabilità accettarla”; ma aggiunge, a parziale correzione di quanto detto ”a condizione, naturalmente, che ciò non pregiudichi gli interessi ultimi del nostro paese”. Ma incalzato dal giornalista che gli chiede se tutto ciò non pregiudichi le regole democratiche, risponde “Il rischio peggiore è stare in un paese che non conta niente, espulso dai luoghi dove si decide. Questo è un caso in cui l’eccesso di democrazia apparente ti preclude la democrazia vera, perché ti emargina dalle sedi dove si decide anche per te” . Scrivevo io a commento di queste frasi: “ Questo sembra significare, in altre parole, che l’appartenenza alla Nato sospende, o almeno riduce notevolmente, le regole democratiche del nostro paese, subordinandole appunto alle decisioni prese in altre sedi in cui gli interessi militari-strategici di altri possono prevalere su quelli dei cittadini italiani. Che significa questo se non che di fronte alle decisioni di fare la guerra o la pace la democrazia è ormai una parola vuota? A conferma di questo D’Alema aggiunge: “La delega a pochi è una condizione di funzionamento della democrazia moderna. Viviamo in un’epoca in cui il circuito delle decisioni non è più nazionale” . D’altra parte il libro di D’Alema sulla guerra del Kosovo, citato, pur scritto per giustificare l’entrata in guerra del nostro paese contro l’Jugoslavia, dà in realtà molti elementi di appoggio ad un giudizio opposto, che mostra invece l’assurdità di questa guerra. Come quando, dopo aver partecipato ad un summit negli USA, fa presente che gli strateghi militari americani erano convinti che la guerra sarebbe durata pochi giorni, mentre nella realtà è durata vari mesi. Oppure, nelle conclusioni dell’intervista, quando dice: ”Oggi sappiamo, con più chiarezza di prima, che dobbiamo impegnarci molto più a fondo nella prevenzione delle crisi. La tragedia potenziale del Kosovo era evidente già alla fine degli anni Ottanta: l’abbiamo trascurata, l’abbiamo lasciata marcire e poi esplodere, abbiamo a lungo guardato altrove ed alla fine siamo dovuti intervenire con la forza. Se avessimo reagito subito, “forse” (evidenziazione mia) l’uso della forza, con tutte le sue drammatiche implicazioni, non sarebbe stato necessario. E’ una lezione da non dimenticare: è cruciale che la gestione delle crisi sia costruita anzitutto su una capacità di prevenzione, quando possono essere ancora efficaci strumenti politici ed economici. L’uso della forza deve sempre rimanere l’eccezione” . Le virgolette sul “forse” l’ho aggiunte io perché il lungo periodo di permanenza mia e di mia moglie come “ambasciatori di pace” nel Kossovo, le tante interviste fatte a personaggi anche chiave delle due parti, la partecipazione a vari degli incontri di mediazione nella ricerca di una soluzione pacifica, l’analisi critica sui colloqui di Rambouillet fatta anche da altri studiosi, danno moltissimi elementi di conferma alla tesi che la guerra si sarebbe potuta evitare . Ma naturalmente questo avrebbe richiesto una diversa politica estera del nostro paese (ma anche degli altri) meno centrata sulla ricerca dei mercati, e sulla rilegittimazione della Nato, e più su quella della giustizia e della pace. Ma questa “confessione” di D'Alema è aggravata dal fatto che in varie occasioni, anche dopo, quando era ministro degli Esteri del Governo Prodi egli ha avuto scatti abbastanza negativi di ira contro il movimento pacifista sia a Vicenza (che lottava contro il raddoppio della base USA), che a Nogara (attivo contro gli F35), ed in altri luoghi, sostenendo che la politica estera la doveva gestire il governo e non la base. Dichiarazioni simili le ha fatte anche Prodi, durante il suo debole governo, con una maggioranza risicatissima e due suoi ministri alla paga di Berlusconi sempre pronti a farlo cadere, come faranno quando farà comodo a quest'ultimo. Questo governo, oltre ad aver confermato gli accordi per gli F35 (come se non bastassero i 120 Eurofighter già acquistati dal nostro paese che, anche questi, essendo sostanzialmente armi di attacco sono in contrasto con l'art. 11 della nostra costituzione) ed aver promosso la vendita delle nostre armi in Cina ed in India (la Finmeccanica durante il governo Prodi ha moltiplicato i suoi guadagni) ha anche del tutto trascurato i desideri della popolazione di Vicenza che si era espressa con manifestazioni molto numerose e nonviolente contro quel raddoppio. Potremmo anche qui continuare, ad esempio sottolineando da parte della sinistra al governo l'impostazione supina verso le politiche del FMI e della Banca Mondiale, che tutto sono fuorchè organismi di beneficenza, e che hanno strangolato, con le loro richieste, lo sviluppo autoctono di molti paesi del mondo. Ma sul contrasto tra la politica dei governi di sinistra e le nostre proposte di un modello di sviluppo alternativo, non bellicogeno, si legga anche il bel libro di Paolo Cacciari, Pensare la decrescita: sostenibilità ed equità . Ad essere obbiettivi c'è però da aggiungere che alcuni tentativi, da parte del governo Prodi, di distinguersi da quelli della destra su questi problemi, ci sono stati. Il primo il ritiro dei nostri militari dall'Iraq anche se sembra che questo sia avvenuto concordando con gli USA un nostro maggior impegno in Afghanistan. Per quest'ultimo conflitto la richiesta di fare una conferenza internazionale per studiare possibili soluzioni al conflitto, proposta trasformatasi in burletta per il rifiuto degli USA di trattare con i principali attori di quel conflitto, i talebani. E con un impegno diretto dei nostri militari il Libano, ma questa volta effettivamente con l'appoggio e con l'egida delle Nazioni Unite. Ultima, ma grazie alla Vice Ministro degli Esteri Sentinelli, di un partito ormai escluso dal nostro parlamento, l'approvazione del progetto “Interventi Civili di Pace“, di cui abbiamo già parlato, che ha visto la maggior parte delle organizzazioni pacifiste italiane coinvolte, in 8 regioni italiane e per un anno, a preparare studenti delle scuole medie superiori e possibili volontari a comprendere il significato ed il ruolo dei Corpi Civili di Pace (identificati nel progetto come “Interventi Civili di Pace”) per la prevenzione dei confliti armati sia nel nostro paese che all'estero. Ma tutto questo non è certo sufficente a superare quei limiti già indicati
Sembra in complesso che più un partito o una coalizione dei partiti, anche se di sinistra, si avvicina al potere, più c'e rischio che diventi succube dei poteri più forti a livello internazionale, come la Nato, il FMI e la Banca Mondiale che non sono certo strumenti umanitari e che sono tra i principali sostenitori di quella violenza strutturale di cui ha parlato spesso J. Galtung . Ma questo mostra quanto sia stupida ed assurda una politica di sinistra che invece di utilizzare e valorizzare il movimento di base contro la guerra (a Vicenza, a Nogara, in Sardegna, a Napoli, ed in tanti altri posti ultra- militarizzati del nostro paese) che tentano di resistere alle pressioni guerrafondaie di organismi come la Nato, il FMI e la Banca Mondiale, per fare insieme una politica più valida per il nostro paese ed anche per gli altri, si distacchi dal movimento per poi restare in balia di questi poteri forti in cui gli interessi delle multinazionali (più potenti di tanti governi) sono molto più presenti di quelli delle popolazioni di tutto il mondo che cercano giustizia e pace, e non guerre.
Ma per tornare a rispondere alla domanda sui dubbi sulla partecipazione di base, non si può dimenticare che la vittoria delle lotte contro il nucleare civile e del referendum contro questi impianti è avvenuta non solo grazie alle nostre lotte nonviolente, ma anche alla disgrazia di Cernobil che ha fatto disastri immensi che ogni giorno si cerca di nascondere, e che questa disgrazia ha reso immangiabili, per molto tempo, le nostre insalate ed altri prodotti agricoli, ed inbevibile il nostro latte. Una cosa che non mi sono mai dimenticato di dire ai miei allievi, e che credo sia importante tenere sempre presente, è che se si aspetta le disgrazie per mettersi in moto ed essere attivi c'è il grosso rischio che queste siano così grandi che non possano più essere rimediate. E questo significa che bisogna sviluppare l'arte della previsione e della prevenzione ed attivarsi molto prima delle guerre e dei conflitti armati come hanno fatto, ad esempio, gli aviatori che essendo i più colpiti dalle intemperie hanno sviluppato l'arte della previsione dei temporali e delle condizioni atmosferiche ed ora, dalle nostre televisioni, l'insegnano anche ai profani. Dato che le guerre fanno arricchire poche persone ma ne fanno morire tante altre, specie tra la gente comune e povera che, essendo spesso disoccupata, va a fare più di altre la professione di militare, e che la guerra ormai colpisce più i civili che i militari, sono i tanti poveri, ora in crescita, che devono darsi da fare per “far uscire la guerra dalla storia” come recita la frase dei Forum per l'Alternativa. Vicenza, secondo me, può essere un punto importante dello sviluppo di un forte movimento che, soprattutto in questo momento di crisi e di incremento vertiginoso di persone disoccupate, e con le moltissime famiglie prive di alcun reddito, o con redditi di fame, anche nei paesi cosiddetti sviluppati, lotti per far comprendre ai potenti della terra che è necessario ridurre in modo drastico le spese militari per investire tutto in campo civile, e che è fondamentale non fare le guerre ma metter a punto strumenti, come appunto i Corpi Civili di Pace, per prevenirle. E’ questa l’unica reale possibilità di superare questa crisi in tempi ragionevoli, oltre a quella già accennata di ricerca di un modello di sviluppo del tutto diverso da quello attuale.



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