Disarmare Israele? UnUtopia o unIdea per la Pace di Ilan Pappe Lunedì 17 Agosto 2009 08:56 Tratto da http://rete-eco.it Ogniqualvolta i politici israeliani accennano alla possibilità che si costituisca uno stato palestinese indipendente, essi danno per scontato che i loro interlocutori sono in grado di comprendere che il futuro stato dovrebbe essere disarmato e smilitarizzato, per ottenere il consenso israeliano alla sua esistenza. Di recente, questa premessa era stata rammentata dallattuale Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu in risposta allidea dei due stati che il Presidente Barak Obama, aveva annunciato al mondo, in modo generico, durante il discorso tenuto al Cairo nel giugno di questanno. Netanyahu aveva posto questa condizione preliminare prima di tutto per uso interno: chiunque ha fatto riferimento nel passato alla creazione di uno stato indipendente accanto ad Israele, come pure chiunque lo fa oggigiorno in Israele, si auspica che ci sia una Israele completamente armata accanto ad una Palestina totalmente disarmata. Ma cera un altro motivo sul perchè Netanyahu aveva insistito tanto sulla smilitarizzazione della Palestina quasi fosse una condizione sine qua non: egli sapeva benissimo che non cera pericolo che neppure il leader palestinese più moderato avrebbe potuto accettare un avvertimento di tal genere da parte della forza militare più potente di tutto il Medio Oriente. In Israele, come in Occidente, la percezione di una Palestina smilitarizzata fa parte di uno scenario accettato e fattibile, mentre una pace basata anche sulla smilitarizzazione di Israele sarebbe considerata completamente insensata ed inutile, davvero inimmaginabile. Questa disparità nel concepire gli attributi di uno stato fa parte di un ben più grande divario nella capacità percettiva al riguardo della comunità internazionale e del suo atteggiamento nei confronti di Israele e della Palestina. La maggior parte degli israeliani considererebbero pura follia prevedere un futuro nel quale lesercito non venisse ad assumere un ruolo dominante e supremo nei confronti delle loro vite. E quindi con giusta ragione che gli studiosi considerano Israele non come uno stato con un esercito, bensì come un esercito con uno stato. Nei lavori di alcuni sociologi israeliani, critici coraggiosi, il loro stato si presenta come un caso importante per lo studio di una società militarizzata dei giorni nostri; nella quale cioè lesercito influenza profondamente ogni ambito della vita. Immaginare un Israele non soggetto a questa influenza è più di unidea utopica, è di fatto uno scopo nel contesto del momento. Eppure, a lungo termine la smilitarizzazione di entrambi, di Israele e della Palestina, può essere lunica via in grado di garantire una vita normale a tutti coloro che vi vivono, come pure a tutti coloro che vi dovrebbero vivere, cioè di quei milioni di rifugiati palestinesi che vennero cacciati dalla loro patria nel 1948 e anche dopo di allora. Ma questo articolo ha lo scopo di estendere il senso del verbo disarmare per giungere fino ad una versione più ampia e dichiaratamente più fluida. La definizione maggiormente estesa, si sosterrà in questa occasione, allontana lidea di disarmare Israele da una rappresentazione utopica, rivolta ad un futuro molto distante nel tempo quando venisse a trionfare la pace dei profeti, per trasformarla in un progetto politico concreto. Si può prendere in esame qualsiasi riduzione significativa di armi molto tempo prima; senza considerare il disarmo di tutti coloro che sono coinvolti nella questione palestinese, come condizione preliminare per una rappacificazione in Israele e in Palestina viene richiesto un diverso tipo di disarmo. Un quadro più ampio di disarmo deve riguardare Israele e meno la Palestina, almeno nelle sue fasi iniziali. Non ci sono attualmente tante altre sperequazioni politiche, economiche e militari quanto quelle che sussistono tra Israele e le poche centinaia di combattenti palestinesi (perfino il termine di combattenti riferito a questi palestinesi richiede un certo sforzo della nostra immaginazione). Poichè queste differenze cerano già nel 1948, è logico che solo un processo di trasformazione nellatteggiamento e nella natura della parte più forte nellequazione darà lavvio sul terreno a qualsiasi importante riconciliazione. Nel corso di un centinaio di anni, allincirca, di conflitto arabo-israeliano, il movimento sionista e poi lo stato di Israele sono stati la parte più forte e da quel tempo le politiche riguardanti la popolazione indigena della Palestina sono cambiate molto poco. Questo articolo viene scritto in base alla premessa che solo un cambiamento sostanziale nelle politiche basilari di Israele nei confronti dei palestinesi e della Palestina può determinare un mutamento di atteggiamento nei confronti della comunità dei coloni ebrei che giunsero in Palestina nel tardo 19° secolo e colonizzarono il territorio. Contrariamente a quanto affermato dalla narrativa convenzionale israeliana e sionista, attualmente ancora strombazzata con arroganza in Occidente, la causa determinante lantagonismo regionale contro Israele e lostilità palestinese nei suoi confronti è data di fatto dalle dure politiche anti-arabe e anti-palestinesi dello stato ebraico . Perciò, finchè esse sono allorigine del conflitto e ne sono il motivo del suo protrarsi, richiedere il disarmo in questo caso è porsi alla ricerca di una via per smascherare ciò che si nasconde dietro alla politiche israeliane contro i palestinesi. Da quando queste politiche hanno dato il via allintroduzione di armi nucleari nella regione e la morte di decine di migliaia di palestinesi, di migliaia di persone nei paesi arabi vicini, di quasi venti mila ebrei in Israele, ha dato fuoco ad una nuova ondata di antisemitismo nonchè di islamofobia , rendendo alla fine i rapporti dellOccidente con il mondo musulmano inutilmente molto tesi, tali politiche rappresentano unarma mortale che ovviamente deve essere messa sotto controllo. Queste politiche sono il frutto di una determinata ideologia, il Sionismo, o per essere più precisi di una certa interpretazione dellideologia sionista. Quindi sottoporre tali politiche a revisione equivarrebbe a disarmare gli ebrei israeliani della versione letale della ideologia sionista, che li rende incapaci di condurre una vita normale, tranquilla e sicura nel paese che, alla fine del 19° secolo, essi avevano scelto come propria patria. La produzione di armi. Il sionismo fece la sua comparsa nellEuropa orientale e centrale alla fine del 19° secolo come un movimento la cui giustificazione faceva capo a due nobili sentimenti. Il primo consisteva nella ricerca da parte della dirigenza ebraica di un porto sicuro per la propria comunità che era sempre più esposta alle spinte di un ambiente anti-semitico ostile con la probabilità che il tutto si trasformasse in un genocidio, come poi accadde durante la seconda Guerra Mondiale. Il secondo sentimento scaturì dal desiderio di riformulare il giudaismo secondo una nuova configurazione con caratteristiche laiche, ispirata allo scaturire delle nazioni tuttattorno, nel momento in cui così tanti gruppi culturali, religiosi ed etnici vollero ridefinire se stessi secondo i nuovi termini inebrianti del nazionalismo. Come già detto, a quel tempo la ricerca di sicurezza e di una nuova autodeterminazione veniva considerata unaspirazione nobile e normale. Tuttavia, nel momento in cui questi sentimenti assunsero una connotazione territoriale, rivolta cioè verso uno specifico pezzo di terra, il progetto nazionale del Sionismo divenne automaticamente un progetto coloniale. Tutto ciò era pure considerato normale al tempo in cui gli europei, adducendo una profusione di motivi, erano emigrati in paesi non-europei, che i loro avidi governi avevano colonizzato per loro usando la violenza dellespulsione e del genocidio. Ma nobile non fu. Dove, purtroppo, venne messo in atto il genocidio, non rimase alcuna strada per il ritorno, ma laddove la colonizzazione non si era deteriorata fino a un tale livello di criminalità, che rappresentava la norma, i coloni se ne ritornarono finalmente nei loro luoghi di origine e i paesi colonizzati divennero indipendenti. Dopo aver esaminato altre possibilità di localizzazione territoriale, il movimento sionista pretese il possesso di quella che era la Palestina, sulle cui terre aveva abitato il popolo palestinese per centinaia di anni. I primi coloni sionisti di Palestina arrivarono negli anni 1880, senza dichiarare apertamente il loro sogno di assumere il controllo del territorio e senza rivelare la loro volontà di ripulirlo dalla popolazione indigena. Fino agli anni 1930, la dirigenza della comunità ebraica era impegnata nel conquistare lappoggio e la legittimazione internazionale che lImpero Britannico aveva concesso loro con la Dichiarazione Balfour del novembre 1917 e nellacquisire un sostegno, in quanto stato senza uno stato, che il governo mandatario britannico aveva già permesso loro di ottenere. In quel periodo, la principale difficoltà della loro situazione era dovuta al fatto che il mondo degli ebrei non pensava alla Palestina se non come luogo per la loro salvezza o loro punto di arrivo. Fu solo con il sorgere in Europa del Nazismo e del Fascismo che acquistò fondatezza il valore della Palestina come porto sicuro per il popolo ebraico e la comunità dei coloni crebbe numericamente. Tuttavia, fino alla fine del Mandato Britannico, essa rappresentò solo un terzo della popolazione totale e possedeva in Palestina meno del dieci per cento del territorio. Fu solo negli anni 1930 che venne forgiata la sovrastruttura ideologica, presto trasformata in autentiche armi da distruzione. Comparve una formula che divenne condivisa , quasi sacra, per coloro che guidavano in quel momento il movimento sionista, come pure per quelli che oggigiorno sono al governo dello stato di Israele. La formula era semplice: perchè il progetto sionista in Palestina si affermi, il movimento ha dovuto impossessarsi di quanta più terra della Palestina fosse possibile ed assicurarsi che vi rimanesse il minor numero possibile di palestinesi. Tutto questo venne fatto, sebbene possa suonare cinico perchè il nuovo stato fosse democratico. La speranza era quella di conservare una maggioranza ebraica che avrebbe votato democraticamente perchè lo stato preservasse in eterno il suo carattere ebraico. Negli anni 1930 si fece avanti una ulteriore constatazione: non cera alcuna speranza che la popolazione indigena della Palestina sarebbe diminuita numericamente, o avrebbe rinunciato al proprio diritto naturale di vivere come popolo libero sulla propria terra, né allora né nel futuro. Quindi, perchè la formula esistenziale si affermi cera bisogno di imporre la forza delle armi. Ciò non ha solo implicato lallestimento di un esercito, ma ha comportato anche la concessione alle forze armate di un ruolo di primo piano, fino al punto di poter dominare, in quanto comunità ebraica, su tutti gli altri aspetti della vita in Palestina. Coraggiosi sociologi israeliani hanno scoperto, con stupore, quanto questo processo è stato sistematico e in espansione fin da quando, negli anni 1930, venne presa la decisione consapevole di militarizzare il Sionismo. [ii] La dirigenza politica, i responsabili economici e perfino il direttivo sociale e culturale vennero conquistati tutti grazie alla loro formazione militare o a una carriera da loro svolta nella piovra della sicurezza che gestisce Israele. Inoltre, tutte le più importanti decisioni riguardanti la politica estera e della difesa in particolar modo quella riguardante il mondo arabo in generale e i palestinesi in particolare fin da prima degli anni 1930 vennero assunte da generali. Lesito finale è molto evidente oggigiorno in Israele: la finanza e leconomia nel suo insieme, il processo di socializzazione e il sistema educativo, perfino i mezzi di informazione, sono tutti finalizzati a servire lesercito. Un Esercito con Uno Stato. In tal modo, il processo di militarizzazione della società israeliana è stato intenso e ad andamento esponenziale. Israele, a dire il vero, divenne un esercito con uno stato. In questo contesto, due sono gli aspetti messi in risalto con particolare rilievo. Il primo è dato dalla militarizzazione del sistema educativo. Poichè questa parte della realtè garantisce che una percezione militarizzata della vita venga riprodotta centinaia di volte in ogni nuova generazione di giovani uomini e donne che saranno in grado di vedere la realtà solo nella prospettiva di un conflitto armato, di valori militari e di guerre. Il secondo consiste nel ruolo predominante che lindustria israeliana delle armi viene a giocare nel campo della produzione nazionale dello stato e, in particolar modo, quanto questa sia nevralgica nel bilancio del commercio e dellesportazione. Israele è il quinto maggiore esportatore di armi nel mondo e quindi ogni discorso contro la militarizzazione, senza iniziative, può essere facilmente rappresentato come quello che mettere a repentaglio la reale sopravvivenza economica e industriale di Israele. Questa posizione eminente non potrebbe essere sconfitta senza loccasionalità di una prova a seguito della quale la forza militare fosse venuta a mancare drammaticamente. Ci sono due tipi di interventi militari: uno di confronto ciclico con gli eserciti regolari arabi, che non hanno avuto sempre inizio a causa di Israele ( la guerra del 1973 fu dovuta ad un intervento Siro - Egiziano ), ma il tutto avrebbe potuto essere evitato se lesercito israeliano non avesse desiderato essere impegnato sul campo di battaglia per amore della propria morale, del proprio status e per la necessità di sperimentare i propri armamenti e di esercitare i propri soldati. Cosa ancor più importante, ogni guerra ha dato la garanzia a Israele di poter ampliare il suo territorio in una ricerca senza fine di spazi vitali e di confini di sicurezza. Lultima fase di questo tipo di confronto militare si svolse nel 1973 e nonostante Israele abbia tentato per ben due volte di impegnare lesercito siriano, prima nel 1982 e poi nel 2006, negli ultimi trentacinque anni le truppe israeliane non hanno più combattuto una guerra contro un esercito convenzionale. La maggior parte dei suoi armamenti, tra i più sofisticati e moderni nel mondo, sono stati costruiti per vasti spazi e campagne aeree tra eserciti regolari di dimensioni gigantesche, mentre negli ultimi trentacinque anni sono stati usati invece prevalentemente contro civili disarmati e combattenti da guerriglia. Il danno collaterale è inevitabile, in quanto ci sono dei dubbi sulla capacità degli israeliani di impegnarsi in una vera guerra convenzionale. Il secondo uso della forza militare è stato utilizzato per mettere in atto lideale sionista insieme alla formula precedentemente citata per sostenerlo: la necessità cioè di mantenere loccupazione sulla maggior parte della Palestina con il minor numero possibile di palestinesi, se si vuole che il progetto sionista sopravviva. Tale progetto ebbe inizio nel 1948, una volta che ebbe termine il Mandato Britannico, con un piano progettato con grande attenzione che prevedeva la pulizia etnica del paese di quanti più palestinesi fosse possibile. Nel febbraio del 1947, il governo britannico decise, dopo trentanni di dominio, di riporre la questione della Palestina nelle mani delle Nazioni Unite nella semplice speranza di non essere più coinvolta nelle sorti di un paese che da un lato avevano sviluppato, mentre dallaltro ne avevano facilitato la distruzione con la loro politica filo-sionista e anti-palestinese. Dopo gli sconvolgimenti dovuti alla seconda Guerra Mondiale, il crollo della potenza inglese nel mondo, una crisi economica devastante e la perdita di uomini sul terreno, Londra ne aveva avuto abbastanza. La classe dirigente politica palestinese e i circostanti paesi arabi speravano che le Nazioni Unite avrebbero deliberato per molto tempo su ciò che si sarebbe dovuto fare con la minoranza dei coloni che viveva in mezzo ad una maggioranza indigena, ma essi si sbagliavano. Le Nazioni Unite furono sbrigative nel decidere di assegnare più della metà del territorio a quella che era la minoranza. Il mondo stava cercando un modo rapido per uscire dallolocausto, e costringere i palestinesi a cedere metà della loro patria sembrò un prezzo da pagare molto conveniente e ragionevole. Non cè da stupirsi che la dirigenza palestinese e la Lega Araba rigettassero pubblicamente il piano delle Nazioni Unite. Questo piano venne espresso in modo articolato con una risoluzione dellAssemblea Generale delle Nazioni Unite che, nel novembre del 1947, offrì ai palestinesi un mero 45 % del suolo della loro patria. La dirigenza sionista, sebbene scontenta per lassegnazione di solo il 55 % del territorio, si era resa conto tuttavia che la risoluzione aveva accordato al loro diritto di esproprio della Palestina un riconoscimento internazionale di carattere storico. Per giunta, le Nazioni Unite, a causa dellaccettazione sionista e del rifiuto palestinese, criticarono i palestinesi, osannarono gli israeliani ed ignorarono il fatto che sul terreno le forze ebraiche avevano già cominciato a scacciare i palestinesi con la forza dalla loro patria. Nel febbraio 1948, allinterno dellanno in cui la Gran Bretagna aveva deciso di lasciare la Palestina, la dirigenza sionista dette inizio alla pulizia etnica . Tre mesi più tardi, quando gli inglesi se ne andarono, centinaia di migliaia di palestinesi erano già divenuti profughi e facevano pressione sul mondo arabo perchè intervenisse, cosa che fece il 15 maggio 1948. Ma il numero limitato di truppe che vennero inviate in Palestina non poteva eguagliare le efficienti truppe ebraiche, per cui esse vennero sconfitte. Continuò la pulizia etnica e, alla fine, quasi un milione di palestinesi divennero profughi (metà della popolazione della Palestina) e insieme ad essi scomparvero metà dei villaggi e delle città , spazzate via dalla faccia della terra dalle forze ebraiche. Dopo il 1948 proseguì luso della forza contro i palestinesi come mezzo per conseguire il controllo sul territorio e la politica di contenimento. Esso venne utilizzato nel 1956 per massacrare gli abitanti palestinesi dei villaggi che erano rimasti come parte della piccola minoranza che era sopravissuta alla pulizia etnica del 1948 ed erano divenuti cittadini israeliani. Di tanto in tanto, ma non troppo spesso, quella minoranza avrebbe protestato contro la sua oppressione e avrebbe affrontato prima la forza dellesercito israeliano e poi delle autorità di polizia.. Ciò divenne allora prassi in uso nelle zone israeliane occupate nel giugno del 1967: la West Bank e la Striscia di Gaza , dove attualmente è molto frequente. Ogni volta che i palestinesi sotto occupazione hanno protestato e hanno lottato contro loccupazione, i soldati israeliani hanno risposto con tutta la loro potenza di fuoco. Blindati, aerei, cacciatorpediniere della marina e tutta la parte rimanente dellarsenale usato contro eserciti nei teatri di una guerra convenzionale o in casi simili, verrebbero impiegati senza pietà contro aree urbane e rurali densamente popolate della West Bank e della Striscia di Gaza, causando distruzioni e stragi di proporzioni inimmaginabili. Analogamente, nelle due offensive in Libano, quella del 1982 e quella del 2006, forze di tal genere vennero utilizzate per devastare gli spazi urbani e rurali del Libano. A questo proposito è particolarmente importante ricordare tre frangenti cronologici per illustrare la crudeltà degli armamenti quando essa è impiegata per mettere in atto una ideologia coloniale vecchia di un secolo. Nellottobre del 2000, un esercito israeliano frustrato, costretto appena allora dagli Hezbollah al ritiro dal sud del Libano, reagì con tutto il suo esercito sofisticato a un nuovo tentativo palestinese di resistere alloccupazione. Per la prima volta aerei F-16 e i potenti carri armati Merkava furono usati in un urbanicidio al fine di sopprimere la ribellione. La stessa potenza militare venne utilizzata nel 2006 contro il Libano dopo che due soldati israeliani erano stati catturati dagli Hezbollah, ma con un danno collaterale maggiore e laggiunta di bombe a grappolo. Da ultimo, in quanto è ormai troppo familiare, lesercito israeliano, applicando il più letale aspetto dellarte, ha sperimentato armi, quali bombe al fosforo e granate alle fibre di vetro, allo scopo di reprimere la ribellione di una Striscia di Gaza da più di otto anni sofferente sotto il giogo dellassedio e della fame. Se si aggiunge alle letali provviste dellarsenale israeliano la dotazione dei paesi arabi vicini, costantemente coinvolti in una pazza corsa agli armamenti, alimentata dapprima dalla guerra fredda e poi dallindustria militare mondiale, quanto ogni passo volto a disarmare i popoli dallimpulso ideologico a utilizzare la forza potrebbe rappresentare un contributo alla pace e alla riconciliazione. Va, inoltre, considerata lopzione nucleare che Israele ha a disposizione, ma che non è stata utilizzata (sebbene ci siano state denuncie in alcune occasioni sullimpiego tattico di armi nucleari). In Israele, le bombe atomiche vengono ancora considerate come armi del giorno del giudizio da utilizzarsi solo nel caso di una sconfitta imminente dello stato ebraico. Ma ho la sensazione che questo non venga più considerato dalla dirigenza militare e politica dello stato come la principale eventualità . In questo caso, esso viene considerato come il fattore principale che può accrescere il mito dellinvincibilità di Israele. Da qui il disperato tentativo di rispondere per le rime dei regimi arabi quali la Siria, lEgitto e, in unaltra parte del Medio Oriente, lIran; tutto sta portando ad una capacità di distruzione in crescita costante che può essere messa in atto in ogni momento. Come suggerito, tutti questi armamenti ed il loro uso frequente sono leffetto principale, ma non esclusivo, di un atteggiamento mentale di tipo ideologico. Lassioma consiste nel credere che la colonizzazione di parte del mondo arabo fu per il popolo ebraico una necessità vitale e che lo si potesse realizzare solo con la costruzione di una forza militare formidabile in grado di prendere il controllo del territorio con la più piccola presenza possibile di popolazione indigena. Laccumulo di armi ed il loro frequente impiego non rappresentano una minaccia solo per i palestinesi, esse tolgono infatti agli ebrei in Israele la possibilità di condurre una vita normale e costituiscono una minaccia alla stabilità della regione e probabilmente anche più in là . Poichè il disarmo, nel senso letterale della parola, è forse un sogno e molto francamente potrebbe trasformarsi in un incubo, nel caso in cui solo una parte fosse disarmata, è invece fattibile, affidabile e pacifica la diffusione dellidea. Divulgare e Disarmare: Passati Tentativi e Una Futura Road Map. Negli anni 1980, intellettuali israeliani, accademici, commediografi, musicisti, giornalisti ed educatori iniziarono a fare riflessioni sulla validità dellideologia sionista, ed alcuni non la ritennero del tutto scontata. La loro critica del sionismo si diversificava per intensità e rigore, ma, alla ricerca di un termine migliore, essi venivano tutti soprannominati post-sionisti, non anti-sionisti. Tutto sommato, la loro idea del sionismo era molto diversa dal modo in cui esso veniva inteso dalla maggioranza degli ebrei in Israele: nella loro raffigurazione il sionismo era e rimaneva un movimento colonizzatore di tipo coloniale, che plasmava una società militarizzata e un sistema prossimo alla segregazione razziale. Questa critica post-sionistica ebbe accesso per poco nella sfera pubblica e influenza, anche se in modo molto ristretto, sui programmi didattici, su alcuni dei film di carattere documentaristico per la televisione e nel discorrere comune. Questo nuovo modo di pensare durò circa un decennio, per tutti gli anni 1990. Poi venne la seconda Intifada, la rivolta, e lurgenza di unapertura venne meno, scomparendo quasi completamente. Allinizio del 21° secolo, la società ebraica in Israele ha chiuso la porta che aveva leggermente forzata negli anni 1990. Oggigiorno, essa è divenuta perfino più rigida nellintransigenza delle sue convinzioni ideologiche. Quindi, di questi tempi sono ancora importanti tutti quei fattori che erano stati citati in precedenza riguardanti il militarismo e gli armamenti. Ma è questa vulnerabilità di una società rigidamente ideologizzata che può nutrire i semi di un futuro cambiamento. La logica delle realtà ideologiche attuali e le loro implicazioni militari è tale per cui, nel prossimo futuro, si può sperare in un cambiamento dallinterno. Senza una tale trasformazione continueranno inalterate la produzione di armi e il micidiale impiego di armamenti con il loro impatto mortale. Diventa così impellente darsi da fare per trovare una via alternativa per cambiare lopinione pubblica e il sistema politico, con la constatazione che, al momento, un mutamento dallinterno è impossibile. Di fronte a più di un secolo di spoliazione e di quarantanni di occupazione il movimento nazionale palestinese e gli attivisti stavano cercando una risposta appropriata alla politiche devastanti messe in atto contro di loro. Hanno provato di tutto: lotta armata, guerriglia, terrorismo e diplomazia. Nulla è servito. Malgrado ciò non stanno desistendo e al momento stanno proponendo una strategia di non-violenza, come quella del Boicottaggio, delle Sanzioni e del Disinvestimento (BDS). Con questi mezzi, desiderano convincere i governi occidentali di porre in salvo da un imminente bagno di sangue non solo loro, ma, ironicamente, anche gli ebrei in Israele. Questa strategia ha generato linvito ad un boicottaggio culturale di Israele. La richiesta viene sostenuta ad alta voce da ogni parte della realtà palestinese: dalla società civile soggetta alloccupazione e dai Palestinesi che vivono in Israele. E sostenuta dai rifugiati palestinesi ed è guidata da membri delle comunità palestinesi in esilio. La campagna BDS è divenuta una valida alternativa a causa del cambiamento fondamentale avvenuto nellopinione pubblica occidentale. Anzi, in occidente è un evidente cambiamento nellopinione pubblica, visto che non cè nulla di nuovo nella tragedia senza fine della Palestina. La Gran Bretagna è un caso in questione. Ricordo il mio arrivo nellisola nel 1980, quando, per aver sostenuto la causa palestinese, venni confinato a sinistra ed in quella allinterno di una sezione veramente particolare, una corrente didee. Tutto aveva giocato allora un ruolo importante nel dotare lo stato di Israele di unimmunità: il trauma del dopo-olocausto ed il complesso di colpa, gli interessi militari ed economici e la farsa riguardante Israele come lunica democrazia nel Medio Oriente. Pochissimi erano stati toccati, così sembra, dallespulsione di metà della popolazione nativa palestinese, dalla distruzione di metà dei loro villaggi e delle loro città , da una discriminazione applicata nei confronti delle minoranze tra quelle che vivono allinterno dei confini israeliani, grazie a un sistema di segregazione razziale e di frazionamento entro enclave di due milioni e mezzo di loro posti sotto unoccupazione militare dura e opprimente. Quasi 30 anni dopo sembra che tutti questi filtri e blocchi siano stati rimossi. Lampiezza della pulizia etnica del 1948 è ben nota, le sofferenze del popolo nei territori occupati ricordate e descritte perfino dal Presidente degli Stati Uniti come insopportabili e disumane. In modo equivalente, la distruzione e lo spopolamento dellarea della Grande Gerusalemme vengono annoverate quotidianamente e la natura razzista delle politiche nei riguardi dei palestinesi in Israele sono frequentemente censurate e condannate. Oggi, nel 2009, le Nazioni Unite definiscono questa realtà concreta come una catastrofe umanitaria. I settori consapevoli e onesti della società britannica conoscono benissimo chi è stato la causa di questa catastrofe. Non è connesso del tutto a circostanze vaghe, o al conflitto il tutto viene percepito con chiarezza come il prodotto delle politiche israeliane messe in atto nel corso degli anni. Quando lArcivescovo Desmond Tutu venne interpellato per conoscere quale fosse stata la sua reazione di fronte a ciò che aveva visto nei territori occupati, egli fece notare con tristezza che là tutto era peggio dellapartheid. Lui avrebbe dovuto intendersene. Il cambiamento qualitativo nellumore dellopinione pubblica è constatabile in altri paesi occidentali; inutile dire che nel vasto mondo fino ad ora questo è stato per anni il caso emblematico. Nel Sud Africa era prevalsa una disposizione danimo del tutto simile verso lapartheid. La realtà , allora laggiù come ora in Palestina, porta a incitare la gente perbene, siano essi singoli individui o membri di organizzazioni, perchè essa dia voce alla propria indignazione contro loppressione continua, la colonizzazione, la pulizia etnica e la fame in Palestina. Ci sono persone che stanno cercando particolari modalità di protesta ed alcune sperano perfino di convincere i propri governi a cambiare la loro vecchia politica di indifferenza e di passività di fronte al proseguire della distruzione della Palestina e dei palestinesi. Molti tra loro sono ebrei, anche se, secondo la logica dellideologia sionista, queste atrocità vengono eseguite in loro nome e parecchi tra loro erano veterani della precedente guerra civile in questo paese o, per cause analoghe, in altre parti nel mondo. Essi non sono più limitati ad un partito politico unico e provengono da tutte le estrazioni sociali. Fino ad ora il governo britannico non si è mosso, come pure gli altri governi occidentali. Esso non si mosse neppure quando il movimento britannico anti-apartheid chiese al proprio governo di imporre sanzioni al Sud Africa. Occorsero diverse decine di anni perchè lattivismo di quella gente, partendo dal basso, potesse raggiungere perfino i vertici della politica. Nel caso della Palestina occorrono tempi più lunghi: sensi di colpa per lolocausto, descrizioni distorte degli avvenimenti storici e attuale falsa rappresentazione di Israele come se fosse una democrazia che fa tutto il possibile per la pace ed i palestinesi rappresentati come gli eterni terroristi islamici, sono tutti fattori che hanno interrotto il flusso dello slancio popolare. Ma esso sta cominciando a trovare la propria strada e a manifestare la propria presenza, nonostante la continua demonizzazione dellIslam e degli arabi e malgrado il persistere dellaccusa secondo la quale ogni critica ad Israele rappresenta un atto anti-semitico. Il settore terziario, che rappresenta un collegamento importante tra la società civile e le agenzie di governo, ci ha mostrato qual è la via da percorrere. Di recente, una organizzazione sindacale dopo laltra, un gruppo professionale dopo laltro, hanno inviato un chiaro ammonimento: ne abbiamo abbastanza. Ciò viene fatto in nome della decenza, della moralità umana e dellimpegno civile basilare per non restare inattivo di fronte al tipo di atrocità che Israele ha commesso e continua tuttora a perpetrare a carico del popolo palestinese. La validità della opzione del Boicottaggio, del Disinvestimento e delle Sanzioni sta nellessere il primo passo per dare vita ad un processo che si prefigge di Disarmare Israele liberandolo dalla sua ideologia di morte e dalle sue armi di fatto materiali. Nel caso di Israele non sono mai stati fatti tentativi con boicottaggi e pressioni esercitate dallestero, uno stato che desidera essere incluso tra le democrazie civilizzate del mondo. Difatti, Israele ha goduto di una tale reputazione fin dalla sua creazione, avvenuta nel 1948, e pertanto ha potuto respingere le molte risoluzioni delle Nazioni Unite che la condannavano per le sue politiche e, oltretutto, è riuscito ad ottenere uno status preferenziale nellUnione Europea. La posizione elevata del mondo accademico israeliano nella comunità mondiale degli studiosi riassume il sostegno occidentale ad Israele in quanto unica democrazia nel Medio Oriente. Protetto da questo particolare sostegno nel confronti del mondo accademico e degli altri mezzi di informazione culturale, lesercito israeliano ed i servizi di sicurezza possono continuare, e proseguiranno, a demolire case, a scacciare famiglie, a maltrattare i cittadini e ad assassinare bambini e donne quasi quotidianamente, senza mai venire chiamati a rispondere dei loro crimini, commessi nella regione o nel mondo. Il sostegno militare e finanziario è rilevante e permette allo stato ebraico di perseguire le politiche in atto. Una qualsiasi riduzione di tale aiuto è accolta con molto favore nella lotta per la pace e la giustizia nel Medio Oriente. Ma limmagine culturale di Israele alimenta in occidente la decisione politica di sostenere incondizionatamente la distruzione israeliana della Palestina e dei palestinesi. Un messaggio che sarà rivolto specificatamente a coloro che rappresentano ufficialmente la cultura israeliana (con gli istituti universitari di stato in prima fila, in quanto sono stati particolarmente responsabili del sostegno delloppressione fin dal 1948 e delloccupazione fin dal 1967) può essere linizio di una campagna riuscita per disarmare lo stato dai suoi impedimenti ideologici (come, a suo tempo, interventi simili avevano dato lavvio al movimento anti-apartheid in Sud Africa). Le sollecitazioni fatte da paesi stranieri risultano efficaci nel caso di uno stato i cui cittadini vogliono essere considerati come parte di un mondo civilizzato, ma il cui governo, con il loro esplicito o implicito aiuto, persegue politiche che violano ogni diritto umano o civile. Ma, nel caso di Israele, non gli è stato inviato alcun messaggio nel quale si affermava linaccettabilità di tali politiche e la necessità della loro interruzione, né da parte delle Nazioni Unite, neppure da parte degli Stati Uniti e dei governi e delle società europee. Spetta alle società civili inviare agli accademici israeliani, agli uomini daffari, agli artisti, agli industriali dellalta tecnologia e a qualsiasi altro settore della società , messaggi che dicano loro che, attaccato a tali politiche, cè un cartellino con il prezzo da pagare. Ci sono segnali incoraggianti che la società civile, e in particolare gli ordini professionali, sono disposti ad intensificare le proprie sollecitazioni. I risultati necessari per rendere legittima la richiesta di disarmare lo stato per farlo desistere dalle sue pratiche e dai suoi pregiudizi ideologici, sono simbolici. Tuttavia, se la soppressione efficace dellideologia che produce armamenti non è desiderata, la sola pressione non è sufficiente. Essa dovrebbe essere integrata, nello stesso Israele, da un processo di rieducazione, sebbene, come è stato fatto notare allinizio di questo articolo, le possibilità di un cambiamento a partire dallinterno sono veramente scarse. Le pressioni esercitate dallesterno sono invece richieste in quanto cè una necessità urgente di impedire il protrarsi delle distruzioni a carico della Palestina e del popolo palestinese. Tuttavia, ciò non sta a significare che si dovrebbe rinunciare al tentativo di sopprimere larma ideologica con leducazione e la divulgazione di una conoscenza e di una comprensione alternativa. In realtà le due cose sono interconnesse. Coloro che in Israele, pur molto pochi e coraggiosi, lavorano duro e senza sosta per rieducare la loro società partendo da una prospettiva pacifista, umanista e non-sionista, hanno ricevuto potere da quelli che esercitano pressione sullo stato perchè segua queste linee di intervento e tralasci la vecchia abitudine rappresentata dallaggressione e dal militarismo. Vorrei citare al proposito un gruppo particolare, il New Profile. Esso è impegnato ad introdurre tra gli israeliani più giovani e a divulgare lidea del pacifismo. Sono quelli che informano le giovani reclute che, perfino secondo la legge israeliana, ad essi è permesso dichiarare lobiezione di coscienza a proposito del servizio nellIDF in base a principi pacifisti. Essi producono materiale didattico per controbattere il sistema educativo di tipo militarista e prendere parte ai dibattiti su questi argomenti. Essi hanno ottenuto virtualmente un tale successo che il servizio di sicurezza israeliano li ha definiti una piaga e una minaccia per la sicurezza nazionale. In Israele e in Palestina, il loro messaggio semplice, puro sulla santità della vita, sulla stupidità della guerra e del militarismo, non è ancora collegato ad una decostruzione politica più matura della realtà , ma un giorno ciò accadrà e potrebbe essere utile un potente agente di trasformazione. Magari, in quanto così genuino ed efficace. Naturalmente, anche i palestinesi sono attivi in questo. La non-violenza, a differenza della violenza, rivela unefficacia meno tempestiva nellattenuare gli effetti di una realtà di oppressione, ma a lungo andare ripaga. A questo punto però nessuno può intromettersi nelle cose riguardanti un movimento di liberazione lacerato da idee diverse e martoriato da anni di sconfitte. Ciò che risulta importante è domandare un contributo palestinese ad una visione post-conflittuale libera da castigo e da vendetta. Una prospettiva non militarizzata per entrambi, ebrei ed arabi, può aiutare enormemente nel processo di disarmo dello stato di Israele dalla sua ideologia, se essa viene trasferita dal regno dellutopia e dellillusione allinterno di un piano politico concreto, e ha il sostegno di una energica sollecitazione proveniente dallestero oltre agli effetti di un processo educativo scaturente dallinterno. Infine, le comunità ebraiche nel mondo, ed in particolare in Occidente, devono svolgere un ruolo nevralgico nella realizzazione di questo disarmo. Il loro sostegno morale e materiale a Israele esprime invece un appoggio allideologia che è dietro allo stato. Non cè quindi da essere sorpresi che, recentemente, da pochi anni, sotto lo slogan non in mio nome si sia fatta sentire sempre più la voce degli ebrei non-sionisti. Larma principale che Israele utilizza ufficialmente per contrastare le sollecitazioni dallestero, o nei confronti di qualsiasi espressione critica sulla questione, consiste nel dichiarare anti-semitica qualsiasi posizione di questo tipo. La presenza di voci ebree a sostegno della pace e della riconciliazione accentua lassurdità del modo con il quale Israele cerca di giustificare i crimini contro i palestinesi in nome dei crimini perpetrati a suo tempo in Europa contro gli ebrei. Conclusioni. Il progetto di disarmare Israele in questo caso viene perciò presentato come un disarmo ideologico. Esso principia chiedendo alla gente che, per una qualsiasi ragione, si è occupata delle realtà in Palestina e in Israele, di impegnarsi a conoscere la storia del progetto sionista, di cercare di comprendere le sue ragioni dessere e la lunga durata del suo impatto sul popolo della Palestina. Se tutto va bene, un tale chiarimento riguardante la storia permetterebbe di associare la violenza che infuria in questa regione alle radici storiche e al contesto ideologico del sionismo come si è sviluppato negli anni. Il riconoscimento del ruolo dellideologia, che ha avuto bisogno di edificare una fortezza facendo uso di uno dei più formidabili eserciti del mondo e di una delle più floride industrie di armi, mette gli attivisti in grado di affrontare obiettivi tangibili nella lotta per la pace e la riconciliazione in Israele e in Palestina, oltre che nella lotta generale per il disarmo mondiale. Un valido processo di disarmo ideologico dovrebbe evitare inutili demonizzazioni, con chiarezza dovrebbe effettuare una distinzione tra sistemi politici e popolo in quanto tale, dovrebbe rendersi conto di quanto la realtà viene deformata, linformazione manipolata, quanto possono indottrinare i sistemi educativi e gli altri organismi di socializzazione, i governi distorcere e demonizzare coloro che essi desiderano. Questa è, in sostanza, una strategia dintervento attivo che darebbe inizio a un dialogo tenace con uno stato ed una società che aspirano ad essere parte di un mondo civilizzato, mentre rimangono razzisti e suprematisti. In esso vive una società che non desidera, o non è in grado, di rendersi conto che la sua natura ideologica e le sue politiche la collocano allinterno del gruppo degli stati rivoluzionari di questo mondo. Nel bene o nel male, la chiave di volta della realtà in Palestina e in Israele consiste in ciò che su Israele insegnano i docenti universitari occidentali, in ciò che riferiscono al riguardo i giornalisti, in ciò che ne pensa la gente in modo conscio o inconscio, e infine in ciò che deciderebbero di farne i politici. Questa triste realtà determina ripercussioni non solo sulla pace nel Medio Oriente, ma anche nel mondo intero. Ma non è un caso perso ed ora è tempo di agire. |