Nonviolenza. Femminile Plurale Numero 274 del 10 settembre 2009

Seyla Benhabib: Diritti Umani e Societa' Civile Globale

[Dal quotidiano "Il manifesto" dell'8 settembre 2009 col titolo "Il potere
del soggetto oltre l'onere della storia. La natura dei diritti" e il
sommario "L'era aperta dalla Dichiarazione universale dei diritti umani da
parte delle Nazioni Unite, tra obbedienza all'autorita', conflitti in difesa
di un'identita' culturale e rispetto delle minoranze nella crisi dello
stato-nazione. Un'anticipazione del saggio della filosofa di origine turca
pubblicato nel terzo numero della rivista 'Politica e societa’"
Eguali perche' cosmopoliti. L'opera di Seyla Benhabib
I dati della sua biografia esemplificano cosa si possa intendere per critica
di una politica o teoria "identitaria" in nome del cosmopolitismo. Nata a
Istambul in una famiglia di religione ebraica, Seyla Benhabib ha studiato
alla scuola inglese e frequentato il college americano della citta' turca
per poi trasferirsi negli Stati Uniti nel 1970, paese dove ha iniziato la
sua carriera accademica (ha insegnato alla Boston University e alla Harvard
University). Dal 2008 ha infine scelto Berlino come citta' laboratorio di un
governo dei diritti non piu' su base nazionale (e' docente all'Institute for
Advanced Study). Dopo i primi saggi e analisi dell'opera di Hannah Arendt,
Seyla Benhabib ha puntato a elaborare una originale teoria politica di un
egualitarismo cosmopolita che conviva, seppur conflittualmente, con le
istituzioni della democrazia occidentale e i diritti delle minoranze. E non
e' un caso che la sua attuale produzione teorica metta al centro il
migrante, figura poliedrica e difficilmente riconducibile a unita'. Tra i
suoi libri tradotti, vanno sicuramente segnalati i saggi I diritti degli
altri. Stranieri, residenti, cittadini (Raffaello Cortina), La
rivendicazione dell'identita' culturale. Eguaglianza e diversita' nell'era
globale (Il Mulino) e Cittadini globali. Cosmopolitismo e democrazia (Il
Mulino).
Il testo pubblicato in questa pagina e' parte di un lungo saggio pubblicato
nella rivista "Politica e societa'" (Carocci editore), avventura
intellettuale in forma di rivista giunta al terzo numero, dedicato alla
"Cittadinanza". Oltre al contributo di Seyla Benhabib, nella rivista, in
libreria da questa settimana, ci sono testi di Virginio Marzocchi ("La
cittadinanza: una questione aperta. A partire da Aristotele"), Rainer
Baubock ("Giustizia globale, liberta' di circolazione e cittadinanza
democratica"), Vivien A. Schmidt ("Capitalismo globale e integrazione
europea: le sfide della cittadinanza europea"), Teresa Pullano ("L'Unione
Europea, un ordine concreto. L'attualita' del dibattito tra istituzionalisti
e normativisti nella teoria dello Stato moderno")]

La Dichiarazione universale del 1948 e la successiva era dei diritti umani
rispecchia le esperienze di apprendimento morale dell'umanita' non solo
occidentale. Le guerre mondiali furono combattute non soltanto nel
continente europeo, ma anche nelle colonie, in Medio Oriente, in Africa e in
Asia. Le lotte di liberazione nazionale e anti-colonizzazione del secondo
dopoguerra, a loro volta, diedero vita a principi di autodeterminazione. I
documenti di diritto pubblico a livello globale, gia' richiamati, sono il
precipitato tanto di lotte collettive quanto di processi di apprendimento
collettivi. Forse e' utopico definirli passi avanti verso una costituzione
mondiale, ma sono certamente piu' di semplici trattati interstatali: sono
documenti di diritto pubblico globale che, unitamente a molti altri sviluppi
nell'ambito della lex mercatoria, stanno mutando il panorama dell'ambito
internazionale; costituiscono pertanto componenti fondamentali di una
societa' civile globale, e non meramente internazionale. In essa gli
individui sono titolari di diritti in virtu' non solo della loro
cittadinanza statale, ma anche parimenti della loro umanita'. Benche' gli
Stati rimangano gli attori piu' potenti, lo spettro della loro attivita'
legale e legittima si restringe sempre piu'. Abbiamo bisogno di ripensare il
diritto dei popoli alla luce dell'architrave di questa recente, crescente e
fragile societa' civile globale, da sempre minacciata dalla guerra, dalla
violenza e dagli interventi militari. E' il caso di depurare il discorso sui
diritti umani dalla retorica interventista che l'ha cosi' spesso
accompagnato negli ultimi tempi: non c'e' dubbio, infatti, che gran parte
della reticenza filosofica nel proporre un diritto umano alla democrazia sia
legata alla volonta' di distanziarsi dalla disastrosa politica estera
dell'amministrazione Bush, che si e' servita del linguaggio dei diritti
umani come foglia di fico per giustificare le sue ambizioni interventiste ed
espansionistiche in politica estera.
*
Protetti per decreto
Ci si potrebbe tuttavia domandare se, rimandando alla societa' civile e alla
sfera pubblica quali arene privilegiate per l'articolazione tanto di norme
quanto di interazioni democratiche, non si stiano per caso ignorando i
frequenti casi di abusi in fatto di diritti umani, talmente gravi da far
apparire necessario l'intervento armato per mantenersi fedeli al
cosmopolitismo giuridico. A tal riguardo, si consideri innanzitutto che la
Carta delle Nazioni Unite autorizza guerre di legittima difesa da parte dei
suoi aderenti, mentre l'articolo 51 della stessa autorizza azioni militari
in caso di attacco armato contro uno dei membri di un'organizzazione come la
Nato, entrambi richiamati in occasione dell'attacco al World Trade Center.
La Convenzione sul genocidio obbliga gli Stati a intraprendere azioni
militari per prevenire genocidi, riduzioni alla schiavitu' e pulizie etniche
(previa autorizzazione del Consiglio di sicurezza dell'Onu). Come
riconosciuto dalla maggior parte dei giuristi internazionali, pertanto, si
e' attualmente in equilibrio su un piano inclinato, con i giudici che
sembrano creare diritto, da un lato, e, dall'altro, governanti che
caldeggiano la formazione di nuove leggi in tale ambito. Le basi per
l'intervento umanitario si stanno allargando al principio dell'"obbligo di
proteggere" (Kofi Annan). Chi siano i destinatari di tale obbligo e'
tutt'altro che chiaro: se fossero le Nazioni Unite, allora la prassi attuale
di considerare legittimo l'intervento militare intrapreso da esse solo se
autorizzato dai membri permanenti del Consiglio di sicurezza andrebbe
rivisto.
*
In nome dell'etica
L'obbligo di proteggere non puo' essere semplicemente rimesso al potere di
veto dei cinque membri permanenti del Consiglio; tali impegni stanno
conducendo le Nazioni Unite in direzioni opposte, senza nessuna chiara
risoluzione in vista. Ci siamo spinti in acque inesplorate dell'arena
internazionale. In generale, sono contraria allo strisciante interventismo
sotteso alla formulazione dell'obbligo di proteggere, riponendo le mie
speranze, per quanto possibile e necessario, nelle capacita' della societa'
civile e delle organizzazioni non governative di estendere le norme
internazionali e indurre ogni societa' a un maggior rispetto della
Dichiarazione universale dei diritti umani. Il mio impegno nei confronti
della societa' civile globale in questo campo non deve essere confuso con un
antistatalismo neoliberale. Entro i limiti delle politiche in atto, lo Stato
e' il principale attore pubblico, che ha la responsabilita' di garantire al
suo interno che le norme concernenti i diritti umani siano sia giuridificate
che giustiziate. In ogni caso, molti Stati si sono volontariamente impegnati
nei confronti dei vari documenti pubblici sui diritti umani, sicche' essi
sono anche soggetti a un insieme di attori e gruppi transnazionali che
costituiscono i principali agenti dell'estensione dell'osservanza giuridica,
del rispetto e del monitoraggio dei diritti umani.
Quando, per quali ragioni e a quali condizioni l'intervento militare atto a
fermare gravi violazioni dei diritti umani sia giustificabile resta una
questione aperta dell'etica politica. Con "etica politica" intendo
l'equilibrio tra intenzioni e conseguenze, tra un'etica della
responsabilita' e un'etica della convinzione (Max Weber). Soprattutto nel
caso in cui gli Stati vengano considerati gli unici fautori dell'intervento
ed esso comporti il ricorso alla forza armata, esclusivamente la prevenzione
del genocidio, della riduzione in schiavitu' e della pulizia etnica puo'
giustificare atti simili. Rimuovere un regime non costituisce una
giustificazione. In quanto membri di una comunita' mondiale, ci sono
infiniti altri modi, che vanno ben al di la' dell'intervento militare e
dell'uso della forza, in cui possiamo intervenire oltre confine per
estendere la democrazia, la societa' civile e una sfera pubblica libera.
*
I dilemmi del politico
C'e' bisogno, in conclusione, di un nuovo assetto normativo regolante
l'intervento umanitario, che faccia maggior chiarezza sulle condizioni
giustificanti l'intervento delle Nazioni Unite nelle questioni interne di
uno Stato. In quanto casi di interventi intrapresi o mancati, Kosovo,
Ruanda, Iraq, Darfur e altri contesti dimostrano che la Convenzione sul
genocidio e la Carta delle Nazioni Unite, di per se', non sono in grado di
regolare al riguardo la comunita' mondiale. Tuttavia, tali scelte rimarranno
in ogni caso dilemmi che richiederanno sempre l'esercizio del giudizio
politico. Ci si potrebbe chiedere, con Allen Buchanan, se, in ambito
internazionale, sia possibile per tramite di interventi non autorizzati una
"illegale riforma giuridica internazionale". Tali questioni impongono ai
cittadini, ai capi militari e agli uomini politici un "onere della storia".
Personalmente ritengo che la filosofia non possa ne' guidarci per tutto il
tragitto in tali decisioni ne' garantire che le nostre buone intenzioni non
siano vanificate da eventi inaspettati, mutandosi nel loro opposto; ne' del
resto dovrebbe essere chiamata a farlo.
Nondimeno, come Kant ebbe a osservare, vi e' differenza tra il "moralista
politico", che abusa dei principi morali per giustificare decisioni
politiche, e il "politico morale", che tenta di rimanere fedele ai principi
morali nel condizionare gli accadimenti politici. Il discorso sui diritti
umani e' stato spesso strumentalizzato e abusato a opera di moralisti
politici; il suo compito fondamentale e' quello di guidare il politico
morale, sia questi un cittadino o un uomo politico. Tutto cio' che come
filosofi possiamo offrire e' una chiarificazione di cio' che puo' essere
ritenuto legittimo e giusto nel campo degli stessi diritti umani.

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