La giusta furia di Israele e le sue vittime a Gaza. di Ilan Pappe Font:The Electronic Intifada, January, 2nd 2009 La mia visita a casa in Galilea è coincisa con l'attacco genocida israeliano su Gaza. Lo Stato, attraverso i suoi mezzi di informazione e con l'aiuto del mondo accademico, ha diffuso un coro unanime persino più forte di quello ascoltato durante il criminale attacco in Libano nell'estate del 2006. Israele è sommerso ancora una volta da una giusta furia che si traduce in delle operazioni di distruzione nella striscia di Gaza. Questa sconvolgente autogiustificazione dell'inumanità e impunità non è solo fastidiosa, ma è materia su cui vale la pena soffermarsi, se si vuol capire l'immunità internazionale per il massacro che imperversa su Gaza. È basata in primo luogo su semplici bugie trasmesse in un linguaggio giornalistico che ricorda i momenti più bui degli anni Trenta in Europa. Ogni mezz'ora un notiziario alla radio e alla televisione descrive le vittime di Gaza come terroristi e il loro omicidio di massa ad opera di Israele come un atto di autodifesa. Israele presenta se stesso alla propria gente come la giusta vittima che si difende da un grande male. Il mondo accademico è arruolato per spiegare quanto demoniaca e mostruosa sia la lotta palestinese, se guidata da Hamas. Questi sono gli stessi studiosi che in passato demonizzarono l'ultimo leader palestinese Yasser Arafat e delegittimarono il suo movimento, Fatah, durante la Seconda Intifada palestinese. Ma le bugie e le rappresentazioni distorte non sono la parte peggiore di tutto questo. È l'attacco diretto alle ultime vestigia di umanità e dignità del popolo palestinese ciò che fa più rabbia. I palestinesi in Israele hanno mostrato la loro solidarietà agli abitanti di Gaza e vengono ora bollati come quinta colonna all'interno dello Stato ebraico; il loro diritto a rimanere nella loro patria è messo in dubbio data la mancanza di supporto all'aggressione israeliana. Tra coloro i quali acconsentono a torto, a mio parere ad apparire nei media locali vengono interrogati, e non intervistati, come se si trovassero nella prigione dello Shin Bet. La loro entrata in scena è preceduta e seguita da umilianti sottolineature razziste e sono accusati di essere una quinta colonna, gente irrazionale e fanatica. Ma questa non è nemmeno l'abitudine più indecente. Ci sono alcuni bambini palestinesi dei Territori Occupati curati dal cancro in ospedali israeliani. Dio sa quale prezzo abbiano pagato le loro famiglie perchè venissero ricoverati là. Israel Radio si reca ogni giorno all'ospedale per domandare ai poveri genitori di dire agli ascoltatori israeliani quanto giusto sia Israele nei suoi attacchi e quanto malvagio sia Hamas nella sua difesa. Non c'è limite all'ipocrisia che una giusta furia produce. Il discorso di politici e generali oscilla senza posa tra l'autocompiacimento per l'umanità che l'esercito dimostra nelle sue operazioni "chirurgiche" da un lato, e il bisogno di distruggere Gaza una volta per tutte, in modo umano ovviamente, dall'altro. La giusta furia è un fenomeno costante nell'espropriazione, oggi israeliana e a suo tempo sionista, della Palestina. Ogni atto, che si trattasse di pulizia etnica, occupazione, massacro o distruzione è sempre stato ritratto come moralmente fondato e come un puro atto di autodifesa perpetrato in modo riluttante da Israele nella sua guerra contro la peggiore specie di esseri umani. Nel suo eccellente volume The Return of Zionism: Myths, Politics and Scholarship in Israel, Gabi Piterberg esplora le origini ideologiche e il progredire storico di questa giusta furia. Oggi in Israele, da sinistra a destra, dal Likud alla Kadima, dal mondo accademico ai mezzi di informazione, si può ascoltare questa giusta furia di uno Stato che è più occupato di qualsiasi altro nel mondo a distruggere ed espropriare una popolazione autoctona. È cruciale analizzare le origini ideologiche di questa attitudine e trarne le necessarie conclusioni politiche a partire dalla sua diffusione. Questa giusta furia ripara la società e i politici in Israele da ogni rimprovero o critica all'estero. Ma ancor peggio, si traduce sempre in politiche di distruzione nei riguardi dei palestinesi. Senza alcun meccanismo di critica interna e pressioni dall'esterno, ogni palestinese diventa un potenziale bersaglio di questa furia. Data la potenza di fuoco dello Stato ebraico può solo finire inevitabilmente in più omicidi di massa, stragi e pulizia etnica. La convinzione a priori di essere nel giusto è un potente atto di abnegazione e giustificazione. Essa spiega perchè la società ebraica israeliana non si lascerebbe influenzare da discorsi sensati, punti di vista logici o dal dialogo diplomatico. E se non si vuole appoggiare la violenza come strumento per contrastarla, c'è solamente un'altra via davanti a noi: sfidare frontalmente questa cieca convinzione morale come una cattiva ideologia che si propone di occultare delle atrocità. Un altro nome di quest'ideologia è quello di Sionismo, e una condanna internazionale nei confronti del Sionismo, non solo nei casi di specifiche politiche di Israele, è il solo modo per respingerla. Dobbiamo provare a spiegare non solo al mondo, ma anche agli israeliani stessi, che il Sionismo è un'ideologia che appoggia la pulizia etnica, l'occupazione, e ora l'omicidio di massa. Ciò di cui ora si sente il bisogno non è solo di una condanna della strage in corso, ma anche della delegittimazione di un'ideologia che produce quella politica e la giustifica moralmente e politicamente. Lasciateci sperare che voci significative nel mondo dicano allo Stato ebraico che questa ideologia e l'intera condotta dello Stato sono intollerabili e inaccettabili e fintanto che persistano, Israele verrà boicottata e sarà soggetta a sanzioni. Ma non sono un ingenuo. So che persino l'uccisione di centinaia di palestinesi innocenti non sarebbe sufficiente a produrre un tale cambiamento nell'opinione pubblica occidentale; ed è persino più improbabile che i crimini commessi a Gaza spingano i governi europei a cambiare la loro linea politica nei riguardi della Palestina. Eppure, non possiamo permettere che il 2009 sia solo un altro anno, meno carico di significato del 2008, l'anno commemorativo della Naqba, e che non ha mantenuto le grandi speranze che noi tutti nutrivamo per il suo potenziale di trasformare radicalmente l'attitudine del mondo occidentale verso la Palestina e i palestinesi. Sembra che persino i più orrendi crimini, come il genocidio di Gaza, siano trattati come eventi avulsi dal contesto, svincolati da ogni evento del passato e da ogni ideologia o sistema. In questo nuovo anno, dobbiamo provare a fare in modo che l'opinione pubblica riconsideri la storia della Palestina e le malefatte dell'ideologia Sionista come i migliori mezzi sia per spiegare le operazioni di genocidio come quello in corso a Gaza che come un modo per prevenire eventi peggiori a venire. Nelle realtà accademiche, questo è già stato fatto. La nostra principale sfida è quella di trovare una modalità efficace per spiegare il collegamento tra l'ideologia Sionista e le passate politiche di distruzione, fino alla crisi attuale. Potrebbe essere più agevole farlo mentre, sotto le circostanze più terribili, l'attenzione mondiale è rivolta ancora una volta alla Palestina. Sarebbe persino più difficile in tempi in cui la situazione possa sembrare "più tranquilla" e meno drammatica. In tali momenti di "rilassamento", la soglia d'attenzione limitata dei mezzi di informazione occidentali marginalizzerebbe ancora una volta la tragedia palestinese, trascurandola per via degli orribili genocidi in Africa o per via della crisi economica e degli scenari ecologici da giudizio universale nel resto del mondo. Sebbene sia improbabile che l'informazione occidentale sia interessata a fare scorte di storia, è solo attraverso una valutazione storica che la mole dei crimini commessi contro il popolo palestinese nel corso degli ultimi sessanta anni può essere esposta. Quindi, è compito di un mondo accademico militante e dei media alternativi quello di insistere su tale contesto storico. Queste figure non dovrebbero sottrarsi, storcendo il naso, dall'informare l'opinione pubblica, e se tutto va bene persino dallo spingere i politici più attenti a guardare agli eventi con una prospettiva storica più ampia. In modo analogo, potremmo essere in grado di trovare un modo più comprensibile, paragonato a quello accademico e intellettuale, di spiegare chiaramente che la politica di Israele degli ultimi sessanta anni deriva da una ideologia razzista egemonica chiamata Sionismo, protetta da infiniti strati di giusta furia. A dispetto della prevedibile accusa di antisemitismo e quant'altro, è il momento di associare nella mente pubblica l'ideologia sionista con gli oramai noti capisaldi storici del Paese: la pulizia etnica del 1948, l'oppressione dei palestinesi in Israele durante i giorni del governo militare, la brutale occupazione della Cisgiordania e ora la strage di Gaza. Tanto quanto l'ideologia dell'Apartheid ha spiegato le politiche oppressive del governo sudafricano, questa ideologia -nella sua versione più condivisa e semplicistica- ha permesso a tutti i governi israeliani del passato e del presente di de-umanizzare i palestinesi ovunque essi si trovino e di aspirare a distruggerli. I mezzi sono cambiati da un periodo all'altro e da un posto all'altro, così come i racconti che nascondevano queste atrocità. Però c'è un modello chiaro che non può essere discusso esclusivamente nelle torri d'avorio accademiche, ma che deve fare parte del discorso politico sulla realtà contemporanea della Palestina oggi. Alcuni di noi, vale a dire coloro i quali sono impegnati per la pace e la giustizia in Palestina, eludono inconsapevolmente questo dibattito concentrandosi, e questo è comprensibile, sui Territori Occupati Palestinesi (OPT) -la Cisgiordania e la Striscia di Gaza. Combattere là contro le politiche criminali è una missione urgente. Ma questo non dovrebbe far passare il messaggio che i poteri presenti in Occidente hanno adottato con gioia su suggerimento d'Israele: che la Palestina è solo la Cisgiordania e la Striscia di Gaza, e che i palestinesi sono unicamente le persone che vivono in quei territori. Noi dovremmo ampliare la rappresentazione della Palestina in senso geografico e demografico compiendo una narrazione storica degli avvenimenti del 1948, e richiedere pari diritti umani e civili per tutte le persone che vivono, o un tempo vivevano, in quelli che oggi sono Israele e gli OPT. Collegando l'ideologia Sionista e le politiche del passato alle presenti atrocità, saremo in grado di fornire una spiegazione logica e trasparente alla campagna di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni. Sfidare con mezzi nonviolenti uno Stato ideologico che non ammette dubbi circa la propria rettitudine e che si permette, aiutato da un mondo taciturno, di espropriare e distruggere la popolazione autoctona della Palestina, è una causa giusta e morale. Sarebbe inoltre un modo efficace per stimolare l'opinione pubblica, non solo contro l'attuale politica di genocidio a Gaza, ma se tutto va bene anche per prevenire future atrocità. Ma in misura più importante di ogni altra cosa, sgonfierebbe la bolla della giusta furia che soffoca i palestinesi ogni volta che fa la sua comparsa. Aiuterebbe a far cessare l'immunità occidentale all'impunità d'Israele. Senza quell'immunità, si spera che sempre più persone in Israele comincino a vedere la reale natura dei crimini commessi in loro nome e che la loro furia si rivolga contro chi ha intrappolato loro e i palestinesi in questo inutile ciclo di spargimento di sangue e violenza. |