16 gennaio 2008, Isola di Cipro, terra ferma, Mar Mediterraneo. di Francesco Caruso Sai com'è, ci sono cose che fai senza pensarci troppo, d'istinto, uno scatto tra l'ira e la ribellione. Sono giorni che sulle reti internazionali, non certo su rai e mediaset dove al massimo inquadrano qualche colonna di fumo in lontananza, vedi le immagini dei corpi martoriati dalle bombe, di montagne di cadaveri ammassati, di bambini insanguinati, mutilati e piangenti. Tra le novità del grande fratello e le ultime occasioni dei saldi invernali, gli occhi non ancora assefuatti all'indifferenza posano i loro sguardi su quel lembo di terra martoriata: Gaza, una prigione a cielo a aperto, con oltre un milione di persone letteralmente sequestrate e prigioniere del terrore di una aggressione militare sempre più cruenta, portata avanti in modo criminale da quel manipolo di uomini in giacca e cravatta che appaiono in televisione subito dopo per spiegare l'importanza di queste stragi, ignobili personaggi che seminano odio, morte e distruzione per tentare di preseservare e accrescere il proprio potere, in vista delle prossima scadenza elettorale. A Gaza, bisogna andare a Gaza. Non cè nessun pregiudizio ideologico nella nostra azione, invece di Gaza potevamo sbarcare a Tel Aviv se Israele fosse interamente occupata militarmente ed un milione di ebrei costretti a vivere in campi profughi, rinchiusi in pochi chilometri senza possibilità di entrare ed uscire da Tel Aviv, con carri armati e cacciabombardieri che colpiscono con sempre più violenza le loro case, le loro teste e pochi ultraortodossi che rispondono con il lancio di qualche malandato razzo anticarro. Ma la verità purtroppo è ben altra, con un popolo palestinese che grida la propria disperazione e governi occidentali che continuano a far finta di non sentire. Freegaza è una costola dell'International Solidarity Movement, un gruppo attivo in Palestina da molti anni che pratica forme attive di disobbedienza civile contro l'occupazione israeliana, poche chiacchiere e molte azioni dirette, come quella in cui perse la vita una delle fondatrici del gruppo, Rachel Corrie, morta sotto le ruspe israeliane che abbattevano illegalmente le case dei palestinesi. Hanno impiantato una loro base logistica a Cipro, dove ogni due o tre settimane organizzano l'invio di una imbarcazione carica di aiuti umanitari diretta a Gaza, cercando di aggirare il blocco navale israeliano. Se prima riuscivano a volte a sbarcare, ora con l'invasione in corso a Gaza sarà molto difficile. Noi comunque ci tentiamo ugualmente. Siamo una trentina di persone, tra i quali diversi medici volontari che resteranno a Gaza, tre o quattro parlamentari di diversi paesi europei e alcuni giornalisti di testate internazionali. Appena arriviamo nel porto di Larnaca tra le navi attraccate scorgo una imbarcazione, quei battelli turistici tipo Venezia-Jesolo, di una ventina di metri con qualche decina di poltrone all'interno e sopra tavolini e sedie per gustarsi le belle giornate di sole, gita giornaliera dell'isola di Spinalonga in Grecia. Non possiamo mica arrivare a Gaza con quest'imbarcazione, vorrei dirlo a Hwueida, ma le mie origini e passioni montanare mi inibiscono a prender parola sul merito tecnico delle questioni marittime. E comunque reperire un'imbarcazione adeguata alla missione, una volta specificata la destinazione e la motivazione del viaggio, non deve esser stata impresa facile. Nella stiva entrano centinaia di scatoloni, diverse tonnellate di cibo e medicinali, mentre una volta sradicate le poltrone si ricava qualche decina di metri al coperto per posizionare i nostri zaini e sacchi a pelo. La partenza è emozionante, tanti compagni sulla banchina, striscioni, bandiere palestinesi, abbracci e saluti, sembra una sorta di spedizione di Greenpeace in versione pacifista. Facciamo poche ore di navigazione ed il generatore elettrico inizia a sbuffare, niente da fare, si torna indietro a Cipro. Ripartiamo il giorno successivo, quasi metà dei passeggeri e anche una parte dell'equipaggio si sono dileguati dopo aver provato l'emozione seppur di poche ore di navigare con il nostro battello in mare aperto. Ma ormai siamo a giro, non possiamo tirarci indietro, dalla Grecia arrivano rinforzi, ci facciamo coraggio a vicenda, anche se sappiamo tutti che 22 ore per arrivare a Gaza sono un'eternità in quelle condizioni e il timore non è certo di sopravvivere ai bombardamenti a Gaza, quanto piuttosto alla traversata di 240 miglia da Larnaca a Gaza. Il vaggio procede essenzialmente così: dopo due minuti, il tempo di uscire dal porto, uno dopo l'altro si inizia a vomitare tutto, anche l'anima, se non ce la fai ad alzarti ci sono buste e secchi sparsi all'occorrenza, ma il problema è che fuori fa un freddo cane, dentro siamo in 30 stipati in pochi metri e quindi capita di trovarti sul tuo sacco a pelo il vomito del tuo vicino. L'unico modo per alleviare i malori che aumentano con l'aumentare del mare agitato è restare immobili, ore ed ore senza muovere un dito, con gli occhi rigorosamente chiusi, e la sensazione di essere sulle giostre ma senza che il "giro" trovi mai fine. Se apri gli occhi scorgi la luna che fa jo-jo, scompare prima sotto il vetro, poi schizza e scompare in alto, prova a fissare questo movimento per più di dieci secondi e sarai un uomo morto. Non dico alzarsi, ma anche muovere un braccio, scuotere la testa sono una forma di vera e propria di autotortura. L'equipaggio, tre o quattro marinai greci con il baffuto comandante, sono gli unici che non accusano il disastro, ma il loro muoversi a quattro zampe a volte disvela che forse non è solo un problema di esperienza. Dopo 17 ore in queste condizioni ci intercetta la marina israeliana, non c'è più solo la luna a fare su e giù ma uno, due, tre fari piazzati su di noi. Come avevamo deciso sulla terraferma, a questo punto la nostra mitica "Spirit of Humanity" accellera il passo, che chiaramente è un eufemismo perchè si sarà passati da 15 a 20 km/h, ma in questo modo sbattiamo letteralmente contro le onde, le ben più piazzate navi israeliane si avvicinano e ti creano ulteriori scompensi e quindi ora è tutta l'imbarcazione che fa su e giù, comprese le persone sdraiate, gli zaini, le provviste, cioè mentre stai seduto o sdraiato sull'estrema sinistra scivoli velocemente sull'altra estremità e con te tutti gli oggetti, non per una ma per cento volte. Io credevo che in occasione dell'eventuale battaglia navale avremmo tutti contribuito ad allontanare il nemico, ad ostacolarne l'avvicinamento, ed invece rimaniamo tutti immobili stesi per terra e come pacchi scaraventati da una parte all'altra della nave. Ad allietare quest'atmosfera è l'autoparlante della nave: adibita a suo tempo a raccontare ai passeggeri le bellezze dell'isola di Spinalonga, ora è collegata con la radio di bordo attraverso la quale le unità militari israeliane ci intimano ripetutamente di fermarci, malgrado il comandante cerchi di spiegare al suo interlocutore gli elementi basilari del diritto internazionale e cioè che nessuno in acque internazionali può arrogarsi il potere di decidere sulla rotta altrui. Quando dalla centrale operativa israeliana arriva via radio l'ok all' "open fire", il comandante chiede solo dieci minuti agli israeliani prima di aprire il fuoco sulla nostra imbarcazione, per un veloce consulto con i passeggeri della nave: non c'è molto da discutere, bisogna decidere subito, e così prendo parte alla votazione più assurda della mia vita. Ogni qualvolta arrivava qualcuno per il consulto, insieme a lui entravano una o due onde di svariata consistenza. Ma se le condizioni erano disastrose, il contenuto era ancora peggio: dovevamo votare se farci sparare o meno. Io personalmente, lo confesso, ho votato per farci sparare, cioè proseguire per Gaza, ma come atto di viltà e non certo di eroismo: mancavano ormai solo 4 o 5 ore per Gaza, mentre ritornare a Larnaca avrebbe significato altre 20 e passa ore di tortura marinara. Che sparino pure questi maledetti israeliani, non credo che lo faranno mai per uccidere, almeno la prima volta, e seppure lo facessero essendo in 30 c'è solo il 3% di possibilità che tocchi a me, una scommessa che val la pena giocare pur di chiudere questa tortura marinara. Per soli due voti passa la decisione di non farci sparare addosso e quindi fermare i motori ed invertire la rotta: eppure all'orizzonte i primi chiarori dell'alba ci mostrano in lontananza terra, terra insanguinata, martoriata, bombardata, ma pur sempre terra. Come nei miglior film americani, ecco però ad un certo punto che arrivano i nostri, la "cavalleria moderna", cioè due elicotteri delle Nazioni Unite che iniziano a svolazzare sulla nostra testa e scortare dall'alto la nostra la nave. Peccato solo che dalla battaglia navale sono trascorse ormai oltre 12 ore: la loro tardiva presenza non è altro che lo specchio della loro conclamata impotenza. Quindi addio Gaza, o per meglio dire, arrivederci. Solo un pò di tempo per organizzare il prossimo assalto, per cercare di aprire un varco di umanità contro la violenza barbara che ti stà soffocando. Partirà un'altra volta ancora la Dignity e finanche la Spirit of Humanity, partiranno altre navi, e altri carichi di aiuti, di speranza, di umanità. Loro schiereranno gli incrociatori, le motovedette, i sommergibili, noi la determinazione della solidarietà contro la barbarie. Oggi torno in Italia, scendo in piazza per manifestare, ma anche per provare a organizzare una spedizione, questa volta via terra. Sai com'è, l'esperienza insegna. Appuntamento per tutti in Egitto, al valico di Rafah, dove i cancelli e le frontiere sono chiusi, ma dove se radunati in tanti, osservatori internazionali, attivisti, medici, istituzionali, possiamo pur sempre cercare di entrare. A spinta. |