Kiryat Arba, nella terra degli oltranzisti ebrei
di Umberto De Giovannangeli

L’Unità, 29 settembre 2008



Il padre spinge il figlio tredicenne davanti alla tomba. Il ragazzino è incerto, intimidito da quella solenne cerimonia troppo grande e incomprensibile per lui. "Vai Melchior", ripete il padre. Alla fine Melchior si decide e, come nell’usanza ebraica, prende un sasso e lo deposita sulla tomba di quello che Moshe, il padre, gli ha sempre descritto come un eroe di Israele. Kiryat Arba (l’antico nome di Hebron), avamposto di "Eretz Israel" in Cisgiordania, custodisce gelosamente le spoglie di Baruch Goldstein, il medico-colono ebreo venuto dall’America che, il giorno del Purim di 14 anni fa, abbracciò moglie e figli e partì, mitra in spalla, per l’ultima missione della sua vita: massacrare, prima di essere massacrato, decine di fedeli musulmani in preghiera nella moschea della Tomba dei Patriarchi a Hebron (i morti furono 29). E di "Baruch re di Israele" era uno strenuo ammiratore Yigal Amir, il giovane zelota ebreo che il 4 novembre 1995 assassinò, sparandogli alle spalle, il premier israeliano Yitzhak Rabin.



Per i giovani di Kiryat Arba, Yigal Amir è un eroe, al quale indirizzare centinaia di lettere intrise di amore, di passione. "Altro che assassino! Yigal sarebbe un marito perfetto. È bello, coraggioso, fu l’unico capace di salvare Israele da chi lo voleva tradire, a costo di rischiare il tutto per tutto". Fanno scalpore le dichiarazioni di tre liceali di Kiryat Arba al primo canale della televisione: "Di lui collezioniamo ogni cosa. I ritagli di giornale con le sue foto. Le registrazioni del processo. Il suo sorriso al momento della condanna all’ergastolo". Una di loro, Inbal Buchris, mostra il diario con le copie delle lettere di passione inviate al "mio Yigal" nella cella di isolamento del carcere di Beersheva. "Lo amo con tutto il cuore. Iniziai ad amarlo dal primo giorno del processo e non lo abbandonerò mai", confessa alla telecamera. E la mamma di Yigal, Geula, conferma: "Mio figlio riceve mensilmente lettere da centinaia di ammiratrici. Sono di ogni età, giovanissime e signore attempate. Le ha stregate".



Ammirazione infinita. Scioccante. La stessa provata per Baruch Goldstein: le sue foto come le copie di "Baruch Hagever", il libro di poesie e preghiere elogiative di Goldstein, continuano ad andare a ruba nella roccaforte dei paladini di Eretz Israel. Quattordici anni dopo, la tomba di Baruch Goldstein, è ancora meta di "pellegrinaggio" dei militanti dell’estrema destra. C’è chi si ferma a pregare, chi deposita bigliettini, chi esalta la figura di Baruch come "un vero figlio di Israele, che ha sacrificato la sua vita per i veri ideali dell’ebraismo". Cohen Shmul, emigrato dall’America, ricorda così il compagno di studi: "Goldstein era il più buono di tutti noi, un uomo perfetto. Nessuno sarebbe stato capace di fare quello che ha fatto lui. C’è una differenza tra uccidere e assassinare: qualche volta uccidere è necessario". Anette Arel, 8 figli, il marito impiegato all’ufficio postale, lo interrompe: "Si può vivere venendo presi ogni giorno a sassate, con la paura di uscire di casa, sempre sotto scorta" C’è una sola soluzione: cacciare gli arabi. Hanno una trentina di posti nel mondo, mentre per gli ebrei c’è un posto solo: questo. Shlomo, il barista che prepara il kebab per i soldati di guardia all’ingresso del villaggio, taglia corto: "Il posto degli arabi è 40 metri sotto terra". Merkahan ha 15 anni. Sguardo deciso, ci fissa intensamente e dice: "Da grande vorrei essere un killer. Un killer di arabi. I miei genitori sono deboli. Vorrebbero andarsene. Io sono nato qui e difenderò la Terra Santa". Devi venire a Kiryat Arba, dopo aver superato una decina di posti di blocco che spezzano la strada da Gerusalemme a Hebron, se vuoi fare i conti con un altro fondamentalismo, certo meno dirompente di quello islamico ma non per questo da sottovalutare: il fondamentalismo ebraico. Non quello ascetico che respiri a Mea Shearim, il quartiere ebraico di Gerusalemme dove il tempo sembra essersi fermato alla Varsavia dell’800 e dove la lingua parlata è l’yiddish. Il fondamentalismo dei coloni di Kiryat Arba è militante, aggressivo, con solidi legami politici, ed usa per diffondere i suoi messaggi gli strumenti della modernità: la radio - Canale 7, l’emittente del movimento degli insediamenti - siti Internet, spazi pubblicitari comprati sui maggiori quotidiani israeliani grazie ai cospicui finanziamenti che gli "oltranzisti della Torah" ricevono dalla componente ultraortodossa della comunità ebraica americana, la stessa che ha pagato, e continua a farlo, il collegio di difesa di Yigal Amir. Qui a Kiryat Arba, la parola dialogo è impronunciabile, l’ipotesi di uno Stato palestinese una minaccia mortale, e i pacifisti israeliani, come lo storico Zeev Sternhell vittima di un attentato che mirava alla sua vita, altro non sono che "spregevoli quinte colonne dei terroristi di Hamas infiltrate tra il popolo ebraico". Dei traditori, da trattare con disprezzo e, se il caso, eliminare. Come accadde per Yitzhak Rabin.



Il tempo non ha rimosso l’odio degli estremisti ebraici nei confronti di Rabin: “Rabin, che il suo nome sia cancellato, ha armato, con gli accordi di Oslo, trentamila palestinesi e ha messo a rischio l’integrità territoriale e la sicurezza di Israele”, tuona ancora Michael Ben-Horin, autonominatosi successore di Baruch Goldstein come “Re di Giudea”. Qui, a Kiryat Arba, c’è chi brindò quando la radio dette notizia dell’ictus che aveva colpito Ariel Sharon, anche lui un “traditore” per aver ordinato il ritiro unilaterale da Gaza: “Ancora una volta è stato dimostrato che chi tocca la Terra d’Israele viene colpito a sua volta”, ricorda Itamar Ben-Gvir, che a quei “festeggiamenti” partecipò. Sinistre invettive che oggi investono la premier incaricata, Tzipi Livni. “Di buono - taglia corto Ben-Horin - ha solo la famiglia da cui proviene, dei veri timorati di Dio. Per il resto, ha solo inanellato una serie di cedimenti, a partire dal sostegno che ha dato al ritiro da Gaza”. Non sono solo parole. La premier incaricata è entrata nel mirino dei militanti della “Spada di Dio”, uno dei gruppi armati dell’oltranzismo ebraico. Qui a Kiryat Arba non esistono avversari ma solo Nemici. Non si tratta di un fanatismo isolato, tanto meno di “folclore” ideologico-religioso.



Un recente rapporto dello Shin Bet (il servizio di sicurezza interno israeliano) calcola in almeno 30-40mila il numero dei coloni oltranzisti. In una realtà politica frammentata come quella di Israele, l’estrema destra - di cui i coloni oltranzisti sono la punta più radicale - pesa negli equilibri di potere, orienta le politiche statali, condiziona le aperture al negoziato, rivendica posti chiave nel governo d’Israele. I “nuovi zeloti” combattono una nuova “guerra giudaica”, nella quale non c’è spazio per chi cerca di capire le ragioni dell’altro. Chi lo fa ha il marchio d’infamia del traditore. In questa “guerra giudaica”, la posta non è solo una parte di territorio, seppure carico di una grande valenza simbolica, e possibile patria per un altro popolo, ma il mantenimento dello stesso carattere democratico dello Stato. Quella che si manifesta nelle roccaforti dell’ultradestra ebraica è una metastasi che potrebbe intaccare il corpo sano di Israele, la sua democrazia. “Guai a sottovalutarli o a considerare questi individui dei semplici fanatici della parola. La tragedia di Rabin deve esserci da insegnamento” avverte Abraham Bet Yehoshua, tra i più affermati e impegnati scrittori israeliani contemporanei. “Vi sono non uno ma due conflitti profondi in Israele: il primo sul processo di pace, il secondo sul rapporto fra l’idea religiosa e l’idea laica dello Stato - aggiunge Eli Barnavi, storico, già ambasciatore d’Israele a Parigi -. Oggi i due conflitti si sono collegati, e le strutture della democrazia israeliana saranno sottoposte a tensioni fortissime. Questo è un momento cruciale per la nostra democrazia”.



Kiryat Arba racchiude in sé, anche fisicamente, l’idea di Israele propria della destra nazional-religiosa: un ghetto super armato, impermeabile a qualsiasi “contaminazione” culturale esterna, in guerra con il mondo dei Gentili. In questo avamposto di “Eretz Israel” s’impara sin da piccoli a convivere con la morte. Cancelli presidiati, ingressi inaccessibili. I bambini di questo, come di ogni altro insediamento ebraico in Cisgiordania, vivono una vita blindata, da reclusi. Blindato è il pullman che li accompagna a scuola, blindato è l’edificio in cui i bambini di Kiryat studiano, giocano, cercando di distrarsi. Ma più che un campo di gioco, il cortile della scuola sembra un campo di battaglia: sacchi di sabbia all’entrata dell’edificio, grate di ferro alle finestre, soldati che montano la guardia ininterrottamente. I coloni sono prigionieri di se stessi. Da qui non se ne andranno mai, giurano, Ma il prezzo è vivere col mitra a tracolla e uscire sotto scorta. Dice David Wilder, leader dei coloni di Hebron, 55 anni, sette figli e nove nipoti: “La lotta che stiamo combattendo qui non è politica. Non è nemmeno una lotta economica. È religiosa. E quando le cose stanno così, sei pronto a tutto”. Ogni discorso che ascoltiamo è impastato da un messianismo estremizzato in cui ad essere centrale non è tanto “Medinat Israel”, lo Stato d’Israele, quanto “Medinat Halakah”, lo Stato della Legge religiosa. L’unica che conta a Kiryat Arba. Per la quale si pronti a tutto. Anche ad uccidere.

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