Revelli: Un golpe amministrativo
di Marco Revelli, dal manifesto, 2 ottobre 2008


Il primo ottobre 2008 sarà ricordato&Mac246; se ci sarà ancora capacità di memoria&Mac246; come un giorno nero. E non solo perché, come è sulle prime pagine di tutti i giornali, fa parte della successione frenetica di momenti in cui è andata giù buona parte dell&Mac226;asse portante dell&Mac226;economia „globale‰, ma perchè è, insieme, il giorno in cui è andato giù un altro bel pezzo della nostra democrazia „locale‰.
La decisione del Consiglio di Stato di bloccare il referendum indetto a Vicenza sulla questione del Dal Molin è, da ogni punto di vista, un vulnus gravissimo. Il sintomo di un male mortale. Equivale, per molti versi, a un colpo di stato amministrativo, che priva i cittadini di uno strumento fondamentale di espressione e di partecipazione. Un pezzo di territorio è soprattutto, manu militari, alla sua popolazione cui viene impedito fin anche di manifestare con lo strumento del voto la propria volontà. E mentre un organo dello Stato opera a questa avocazione, dichiarandolo indisponibile ai propri cittadini, in quanto fuori della loro competenza, un altro organo, il Commissario governativo, lo rende disponibile e lo destina, con iniziativa unilaterale, a una „potenza straniera‰, come si sarebbe detto un tempo. E al peggiore degli usi: quello bellico.
Difficile non vedere in tutto ciò un segno dei tempi. Non tanto, o comunque non solo, il carattere intrinsecamente autoritario e fascistoide di un governo e dei suoi metodi spicci (saremmo ancora nel campo delle contingenze suscettibili di mutare), ma una sorta di dinamica regressiva „di sistema‰. Di un intero „ordine delle cose‰ che si va componendo&Mac246; e stringendo- intorno a noi, in una logica di chiusure di spazi e di violazione di valori fino a ieri solidi e indiscutibili.
Difficile non ricollegare la pronuncia del Consiglio di Stato su Vicenza, con la contemporanea presa di posizione dell&Mac226;avvocato dello Stato al processo per il massacro della scuola Diaz di Genova, secondo cui sarebbe assurdo parlare&Mac246; a proposito di ciò che successe in quella notte del luglio 2001&Mac246; di „sospensione della democrazia‰.
O con l&Mac226;osceno atto di razzismo di Parma, coperto da un&Mac226;omertà istituzionale scandalosa.
E l&Mac226;elenco si allunga ogni settimana, a disegnare le tessere di un mosaico che lascia intravedere, man mano che si va completando, scenari da anni trenta, e il profilo di un paese irriconoscibile.
Sarà bene prenderne atto, con la drammaticità che la cosa richiede. La crisi, che va precipitando, travolge con le montagne di carta straccia finanziaria e con i risparmi di tutti noi, anche con quel poco di civiltà e spirito democratico che dai travagli del Novecento si era prodotto.
Genera, anziché ritorno alla ragionevolezza e alla solidarietà tendenze a una nuova barbarie, fatta di paura, indifferenza, rabbia impotente e aggressività, in basso, e di arroganza, dominio, disprezzo delle regole e dei diritti, in alto. Senza trovare, davanti a sé, barriere di protezione. Sistemi di allarme. Capacità di reazione. In una parola: opposizione.
Quella dei momenti di emergenza. Quella che permetterebbe di rialzarsi dopo le grandi cadute. Non certo i giri di valzer intorno al dialogo riuscito o mancato tra maggioranza e minoranza. Non certo le dispute di cortile tra i frantumi della vecchia sinistra. Non questo chiacchierare e accapigliarsi sulla tolda del Titanic, cui si assiste in questi giorni.
Forse è tardi. Forse non ci sono più né gli uomini né le parole, per stare all&Mac226;altezza dei rischi attuali. Ma se un residuo di capacità di reazione sopravvive, se ancora c&Mac226;è la disponibilità a mettersi in gioco su questioni elementari di democrazia e di giustizia, sarebbe bene mostrarla, da qualunque parte delle disperate sinistre si stia. Se non ora, quando?


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