LA FAIDA DEL SANGUE NEL KOSSOVO:
I PRIMI TENTATIVI DI SRADICARLA
di Mary C. Motes

Nel 1966, con la caduta di Alexander Rankovic, capo della polizia segreta jugoslava, si ebbe in Jugoslavia un periodo di liberalizzazione senza precedenti. Per la minoranza albanese del Kossovo questa fu “la seconda liberazione”: per la prima volta godette di una vera autonomia ed ottenne diritti civili veri e propri. Ne conseguì un notevole scaturire di energie a tutti i livelli della società, dato che gli Albanesi utilizzavano per la prima volta la loro lingua sia nelle scuole che negli uffici governativi ove ricoprivano cariche importanti.
Divenne prioritario affrontare problemi specifici della cultura e della società albanese e quindi si rivolse, inevitabilmente, l’attenzione all’aspetto più scabroso della società tradizionale albanese: la vendetta del sangue.
Sia nel periodo tra le guerre, sotto l’amministrazione serba di tipo coloniale, sia nella Jugoslavia socialista di Tito, fino alle riforme del 1966, si era dell’opinione, per dirla senza mezzi termini, che più gli Albanesi si uccidevano gli uni con gli altri, tanto meglio era. La vendetta del sangue forniva la prova della concezione che gli Albanesi fossero un popolo violento, primitivo, una società da sottomettere con la forza, e che fosse conveniente per i Serbi la perdita di mano d’opera e di energie albanesi attraverso il loro perseguimento della norma “occhio per occhio” che, in ultima analisi, si rivelava futile e sterile.
La mania ossessiva della vendetta, connessa con le ostilità tra famiglie, come veniva perseguita dalle famiglie Albanesi molto estese, comportava che una quantità incredibile di uomini capaci, compresi tutti i ragazzi che avessero superato i 7 anni, venissero catturati nella sua rete. Ed il motivo per dare avvio alla necessità, secondo l’interpretazione del codice, della vendetta poteva, per tradizione, riguardare qualcosa che sembrava di poco conto, come, ad esempio, un insulto all’onore della persona. Si sentiva dire continuamente, a Belgrado: “La vita vale così poco tra gli Albanesi ! Uccidono per una lepre!”.
Insegnando inglese nella Facoltà di Filosofia in quegli anni ho imparato che uno dei modi più veloci, e di effetto sicuro, per animare una classe ed avviare una discussione consisteva nel proporre l’argomento della vendetta. Gli studenti più progressisti sostenevano che soltanto richiedendo (o prevedendo) la pena di morte si sarebbe posto fine alla vendetta. Nella Jugoslavia di Tito si dava la pena di morte solo per tradimento. “Ma”, sostenevano gli studenti “la vendetta é un tradimento contro la società albanese !”. E solo quando gli albanesi della Jugoslavia avessero raggiunto il pieno controllo dei loro destini, sarebbero stati capaci di por fine alla vendetta. Questo era uno dei motivi principali per premere per un pieno status di Repubblica per la Provincia Autonoma del Kossovo. La pena per aver ucciso per vendetta era “soltanto” la prigione per sette anni. I nostri studenti spiegavano che questo era nulla per un povero contadino: nutrito ed alloggiato all’asciutto, ne sarebbe venuto fuori come un eroe. Al contrario, nell’Albania di Enver Hoxha si era posto fine alla tradizione della vendetta con metodi tipicamente stalinisti: che fosse vero o no, si raccontava sempre la storia che lo stesso Hoxha era andato da una famiglia che voleva vendicarsi e poiché non riusciva, con la ragione, a dissuderli dal farlo, egli stesso stesso aveva preso un fucile ed aveva uccise ogni membro di quella famiglia: “così terminò in Albania la tradizione della vendetta”
Per i nostri studenti, che erano soprattuto maschi e di origini umili e contadine, il codice della vendetta rappresentava più che un interesse accademico. Come degli “Amuleti” dell’ultima ora erano tutti consapevoli che, un giorno o l’altro, avrebbero dovuto affrontare l’antico test e redimere l’onore della loro famiglia. Come “intellettuali del Kossovo” affrontavano il dilemma se essere progressisti e rifiutarsi di esser trascinati nel vecchio mondo dell’onore e della vendetta, ma vivendo in una società tradizionale consideravano questo rifiuto di “prendere il sangue” come il massimo disonore. Il peggior insulto per qualsiasi albanese era che gli venisse offerto il caffè “sotto il ginocchio”, il che era riservato a chi si fosse rifiutato di vendicare la sua famiglia. Quindi non c’era da meravigliarsi che ogni settimana si sentisse parlare di uccisioni per vendetta. Uno dei nostri studenti fu ferito accidentalmente da un proiettile che era indirizzato ad un’altra persona, un altro studente del terzo anno sparì per diciotto mesi. Chiuso in casa non era capace di uscire per la paura di essere ucciso. Spesso si sentiva dire, di uno studente: “Oh, é così giallo, così bianco”. Ciò significava che, come gli altri maschi della sua famiglia, non aveva mai visto il sole.
Era difficile per un albanese non attenersi all’antico codice d’onore, la “besa” della società tradizionale. Un’uccisione che sembrava inesplicabile, fatta di giorno, in un ristorante di Pristina, risultò essere un classico caso di vendetta che acquistò subito uno status quasi mitico: un giovane che aveva appena raggiunto l’età giusta uccise un elettricista. Non si poté comprenderne i motivi finché non si scoprì che l’elettricista aveva fatto parte della polizia durante gli anni duri, quando il padre del giovane era morto in carcere. La madre aveva allevato il figlio insegnandogli che era suo dovere uccidere l’uccisore di suo padre. Così egli fece non appena ne ebbe l’età. Ora il sangue di suo marito morto poteva riposare in pace. Questo fatto veniva riferito con toni di grande ammirazione, particolarmente per la madre: “una vera albanese!”.
Naturalmente faceva parte della Legge tramandata per via orale riguardante la vendetta nella società tradizionale albanese che la prova per dimostrare di essere un vero uomo, un eroe, fosse quella di essere capace di sollevarsi al di sopra della passione della faida, e saper perdonare. Ed uno dei compiti più nobili degli anziani era quello di far fare la pace tra famiglie tra cui c’era stato spargimento di sangue. E via via che si rafforzavano l’autonomia e l’autogoverno degli albanesi il quotidiano di lingua albanese Rilindja cominciò a riportare, accanto alle notizie riguardanti fatti di sangue per vendetta che succedevano settimanalmente, profili di “uomini di pace”, gli uomini più anziani che avevano “pacificato il sangue”. Questi uomini non venivano definiti semplicemente come uomini, ma come “burra”, che significa veri uomini, veri albanesi.
Fu tipico un articolo di Rilindja del 23 maggio 1990: “Azem Shabani pacifica il sangue”. Un anziano di settantadue anni, fin dall’età di trenta, era riuscito a far fare la pace a più di duecento famiglie. L’articolo terminava con la sua richiesta di pene più severe per quegli albanesi che si rifiutavano di fare la pace. Nel 1970 si assistè alla più forte campagna, su tutti i fronti, contro la vendetta da parte degli albanesi; essa si concluse con due storiche “kuvends”, cioé incontri tribali tra gli anziani: la prima in Montenegro dove le note tribù del Nord si incontrarono a Tuz in giugno e, più tardi, la storica “kuvend” delle famose tribù del Rugovo, gli uomini delle montagne del Rugovo che fino al giorno d’oggi portano, come gli arabi del deserto, il turbante che é anche il loro sudario “perché un uomo deve essere pronto a morire in qualsiasi momento”.
A Tuz, nel Montenegro, gli anziani delle Tribù diedero la loro “besa”, la sacra parola d’onore, impegnandosi ad unirsi nella lotta per porre fine alla vandetta, denunciare e boicottare coloro che non volessero dare ascolto alla ragione ed alla compassione. Questa presa di posizione intendeva rovesciare il concetto storico di vergogna e disonore nella società albanese: ora sarebbe stata una vergogna uccidere, cercare la vendetta. A Pec il 22 novembre 1970 si riunirono più di cinquemila persone della zona e diedero la loro “besa” di lavorare per porre termine alla vendetta “fratricida” tra i Rugovi. Di nuovo fu preso l’impegno di boicottare coloro che rompessero la “besa”. Rilindja del 24 novembre pubblicò molte foto ed articoli sotto il titolo: “Le rocce possono essere spezzate, ma non la “besa”!”
A Rugovo la Lega dei Comunisti approvò la proposta della pena di morte per le vendette del sangue, insieme all’impegno a boicottare ed espellere quegli albanesi che insistessero a “cercare il sangue”. Parallelamente agli incontri tradizionali Rilindja pubblicò rapporti ed articoli sulla vendetta del sangue in varie zone all’interno di una campagna concertata per screditare questa arcaica abitudine. Fin dal settembre 1969 erano stati pubblicati degli articoli su un incontro, a Ferizai, dei leaders islamici che raccomandavano ai mussulmani di lottare con impegno contro la vendetta, mettendo in evidenza le perdite della comunità per il fatto che i genitori impedissero ai loro figli, imprigionati in casa, di andare a scuola. Il 26 giugno 1970 Rilindja riferì su un simposio di giuristi programmato a livello federale a Pristina, per iniziativa della Provincia. A settembre quasi una pagina intera di Rilindja fu dedicata ad un commento legale sulla vendetta e pochi giorni dopo una colonna fu dedicata al “tragico fenomeno (della vendetta) nella psiche e nella vita della gente”.
La vendetta fu condannata con le espressioni più forti: era un peso terribile, un “cancro”, una epidemia, la peste nera. E veniva fatto un appello ai comunisti affinché essi prendessero posizioni più concrete nella “guerra” alla vendetta, per mobilitare le masse. Venivano messe in rilievo argomentazioni di natura pratica in termini di perdita e rovina economica, l’enorme perdita di mano d’opera quando intere famiglie estese venivano paralizzate e tutti i maschi imprigionati a casa loro per evitare la vendetta da parte dell’altra famiglia “nel sangue”,e cioè che rivendicava il sangue per vendetta, e la perdita incredibile in termini di istruzione scolastica quando ogni ragazzo oltre i 7 anni era pure lui una potenziale vittima. In un commento del 9 dicembre 1970, su Rilindja, un assistente del Dipartimento di Legge ed Economia pubblicò delle statistiche che mostravano come la vendetta fosse anche un riflesso dell’arretratezza della società del Kossovo; su 511 assassini (1957-68) l’87% erano stati commessi nei villaggi. Più del 31% di coloro che li avevano commessi erano analfabeti, mentre il 36,7% non aveva terminato 4 anni di scuola elementare. Solo il 2,5 % aveva finito la scuola media, e solo uno aveva il diploma di scuola superiore. L’articolo sottolineava il bisogno di misure preventive, di iniziative coordinate tra lavoratori, insegnanti, la stampa, la radio, la TV. Ed infatti la prima importante produzione della “Kosovo Film”, “Rappacificare il sangue” era un documentario sulla storica “kuvend” Montenegrina e la riconciliazione di due famiglie “nel sangue”. C’é stato anche un momento di entuasismo quanto Rilindja ha riferito che questo film avrebbe potuto essere accettato al Festival di Cannes.
Con la venuta dell’automobile si sviluppò una nuova dimensione in tutto il mondo della vendetta. La stessa Jugoslavia era uno dei peggiori luoghi d’Europa per gli orribili incidenti d’auto ed il Kossovo non costituiva una eccezione. La prima cosa che un albanese avrebbe fatto, se feriva o uccideva un altro albanese in un incidente stradale, era cercare la protezione della più vicina stazione della polizia per salvarsi dalla furia vendicatrice della famiglia della vittima. Una delle grandi storie di ostilità tra famiglie che capitò in questo periodo fu la storia di un giovane albanese che uccise un ragazzo in un incidente stradale; probabilmente era il classico caso di un ragazzo che sbuca fuori di corsa impovvisamente da dietro un carretto o che corre dietro ad una capra od ad una mucca smarritasi. Invece di cercare di fuggire il giovane portò il corpo del ragazzo morto al suo padre e si affidò alla sua misericordia, confidando che il padre, secondo la nobile tradizione, avrebbe risposto a quest’esempio di vera umanità e coraggio, e così avvenne. Commosso dal coraggio del giovane il padre, che aveva perduto il figlio, lo abbracciò ed “egli divenne come un figlio per lui”.
Nel caso di fatti di sangue era comunque possibile sostituire la vendetta di sangue con una compensazione in denaro, qualora ciò fosse considerato onorevole e la famiglia coinvolta fosse stata abbastanza progressista. Il contrasto tra la giurisprudenza tradizionale e quella moderna viene esemplificato da un caso nel Kossovo, quando un furgone guidato da un giovane inglese uccise un ragazzo di dodici anni, il primogenito di un albanese. Il giovane guidatore inglese era stato trattenuto, per sua protezione, nell’albergo del luogo, e gli altri passeggeri furono mandati, per la loro sicurezza, fuori dal Kossovo a Skopie fino al processo. Il vice-console britannico venne giù per il processo ed a me fu richiesto di fare da interprete. Prima che iniziasse il processo l’avvocato albanese, che rappresentava la famiglia del ragazzo morto venne nella sala del Tribunale per parlare con l’avvocato serbo che difendeva il giovane inglese, e cominciò a discutere la questione di una compensazione: il suo cliente era preparato ad essere una persona moderna e progressiva che avrebbe sistemato la cosa con una compensazione invece che con la vendetta. Però non si trattava di una cifra astratta, per una morte, ma di una compensazione calcolata in modo molto pratico e concreto. Infatti il ragazzo di dodici anni era considerato come un capo-famiglia, mentre il padre era fuori, durante la settimana, per lavoro. Egli proteggeva i suoi fratelli e sorelle minori e sua madre; essi vivevano in una svolta remota del passo del Crnolevo. La morte del figlio causava una grande privazione economica perché ora il padre non avrebbe più potuta lasciare sola la sua famiglia, per andare a lavorare. L’avvocato albanese voleva essere sicuro: se egli avesse persuaso il suo cliente ad accettare un compenso in denaro ma poi non ci fossero stati i soldi o fossero stati insufficienti, la sua stessa vita sarebbe stata in pericolo. Il vice-console era sconcertato: prima di tutto non era stato neppure deciso se il consudente fosse colpevole, ed anche se lo fosse stato la compagnia assicuratrice avrebbe deciso l’ammontare del compenso. L’avvocato serbo comprese: sapeva che non sarebbe stato chiamato nessun testimone per la difesa, nessuno sarebbe comparso per l’autista inglese, e rischiavano di trovarsi coinvolti loro stessi in una situazione di vendetta. Mi trovai a cercar di persuadere il vice-console, senza successo, della grande ragionevolezza della richiesta dell’avvocato albanese. Fortunatamente le prove erano poco chiare e, mancando testimoni per la difesa, il giovane inglese fu riconosciuto colpevole di omicidio preterintenzionale. Mi capitò di congratularmi con lui: così ci sarebbe stato il compenso in denaro da parte della compagnia assicuratrice, mentre se fosse stato riconosciuto innocente non ci sarebbe stato indennizzo, col pericolo che la famiglia, secondo la tradizione ancorata nel tempo, cercasse il suo stesso sangue.
Il mio primo periodo di insegnamento nel Kossovo durò dal 1966 al 1971, ed abbracciò l’importante periodo in cui vennero riconosciuti i diritti civili degli albanesi. Quando ritornai per altri due anni, nel 1974, una delle prime domande che feci riguardava la campagna contro la vendetta, cosiderata l’avanguardia di un vero cambiamento. La risposta fu che non era cambiato nulla. “Si sentono sempre notizie di morti nei giorni di mercato”, cioé quando i contadini venivano in città dai villaggi. Il Kossovo aveva rafforzato la sua autonomia ed il suo status semi-indipendente con gli emendamenti fatti alla Costituzione nel 1974, ma il movimento contro la vendetta, la finalità più importante, nobile e di vasta portata per il progresso all’interno della comunità albanese, aveva in qualche modo perduto il suo slancio. In un articolo del maggio 1975 Rilindja diede notizia di un aumento degli omicidi e delle famiglie imprigionate a causa della vendetta, riferendo statistiche che, di nuovo, mettevano in evidenza l’arretratezza della società che esacerbava la situazione. Sembrava che la campagna contro la vendetta fosse stata vittima, come tante altre iniziative nella Jugoslavia di Tito, parte di quell’intero mondo di alte aspirazioni ed opportunità mancate che, alla fine, hanno condannato alla distruzione la Jugoslavia che tanti di noi hanno conosciuto ed amato.

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