PRISTINA: DA UNA CAMPANA DI VETRO
di Rugiada Ligorio

Condurre uno studio sulle problematiche di un Paese come il Kossovo che vive una situazione di conflitto aperto sotto forma di occupazione militare poliziesca, risulta difficoltoso , se la propria posizione è quella di un osservatore esterno. Si è costretti infatti ad attingere da esperienze indirette documentate spesso in ritardo dall’informazione televisiva e giornalistica. Seguendo questi presupposti, se si ha l’intenzione di effettuare un’analisi approfondita di un evento di questa portata, è necessario servirsi di un’informazione fornita direttamente dai gruppi di ricerca che vivono, in maniera diretta e immediata, la realtà in questione. Per questo bisogna riuscire a seguire una linea di condotta che sia la più asettica possibile, mediando fra l’informazione di massa e quella del singolo, e abbandonando la propria - comoda – posizione di osservatore comune, che vive in un sistema in cui i diritti umani vengono in qualche modo salvaguardati.
E la marcia di Pristina del 10 Dicembre 1998, organizzata dall’associazione "I Care" può essere un buono spunto per una riflessione sia sui metodi elaborati per effettuare un’azione mediatoria non violenta, sia per valutarne la realizzazione e la risposta dell’opinione pubblica al riguardo.
La marcia di pace a Pristina ricalca infatti molti fra i principi sulla regolarizzazione del conflitto schematizzati da Wehr, come il cercare dei metodi creativi per portare la parte più potente ad ammettere e negoziare il conflitto. Inoltre agisce attivamente da "terza parte" attraverso la messa in pratica della manifestazione, mantenendo costanti le relazioni internazionali con l’Italia, e contribuendo alla distribuzione del potere in maniera equilibrata fra le due parti del conflitto. Il "mezzo-fine" su cui si struttura l’azione è la non-violenza, che, nella sua gestione tecnica, si avvale del metodo del consenso basato su un percorso da seguire per raggiungere ogni obiettivo in maniera democratica.
La marcia di pace è uno dei tanti metodi per combattere il pessimismo della ragione e della realtà dei fatti, per l’ottimismo della volontà ; uno dei tanti modi per attirare l’attenzione sulle atrocità commesse contro i civili durante la guerra. Contro la sistematica violazione dei diritti umani individuali e collettivi esistono altri modi per far sentire la propria voce di totale dissenso, come le azioni antimilitariste, la partecipazione civile quotidiana, le attività editoriali alternative, le reti di contro-informazione.

Cosa ne potrò sapere io di quello che è avvenuto a Pristina? Ero in Italia, ad aspettare che tutti tornassero sani e salvi da questa manifestazione, dannandomi contro l’anagrafe che non mi aveva permesso di guardare con i miei occhi i palazzi, i bambini, l’aria albanese ( o serba?), sperando in qualche brevissima telefonata e aspettando di poter vivere i ricordi degli "altri". D’ altro canto, i mezzi ufficiali di informazione del mondo, non davano alcun segno di vita.
Cosa ne posso sapere io di tutti quei bambini che muoiono solo perchè di un’etnia e non di un’altra (quella "giusta")? Cosa ne so io delle case distrutte in pochi minuti, della vita sottoterra, io che ne parlo al caldo, io che uso l’energia elettrica, che mangio e che non vengo uccisa ad ogni angolo di strada? Ogni convegno, ogni discorso che non si materializzi in un’azione diretta è una presa in giro, un’illusione di poter cambiare le cose senza muoversi dalla posizione di benessere in cui ci troviamo. Guardare le immagini non basta, bisogna vivere.
Mi chiedevo come mai un’iniziativa come questa che avrebbe dovuto smuovere l’opinione pubblica, non abbia avuto alcuna risonanza da parte dei mass- media. A parte gli "addetti ai lavori" ben pochi sono venuti a conoscenza di ciò che è accaduto in quei giorni, e tutti gli altri non sembrano essersi dispiaciuti di non essere stati informati… E delle tante tragedie provocate nelle parti più disparate del mondo, e delle tante iniziative che ad esse seguono, ci arriva solo un’eco lontana, una fotocopia sbiadita.
Avvenimenti che mamma TV si occupa di farci conoscere in pillole, alternandole per non annoiarci e confondendo sapientemente realtà e finzione, facendoci dubitare di tutto. Così facendo assecondiamo, increduli e inermi, genocidi che tendono ad essere di un’entità sempre più astratta, che si tramutano in uno sterile dato statistico. O, al massimo, in uno spiacevole accadimento che disturba solo per un attimo la nostra pseudo-tranquillità di una serata davanti al teleschermo.
Sentire che alle soglie del duemila esistano ancora situazioni di scandalosa violenza nei confronti del genere umano è una notizia molto scomoda per quella "minoranza-maggioranza" di persone che non vivono le stesse situazioni ( siamo NOI, il cosiddetto Nord Ovest Internazionale). È molto facile ignorare, far finta che siano realtà molto lontane, o molto rare, o perfino un po’ inventate ( qualche nuova trovata pubblicitaria); siamo tutti chiusi nel cinismo che ormai costitusce un muro spesso, che si alza quanto più cresce la nostra incomunicabilità. E crediamo di poter star bene in eterno, di non avere alcuna responsabilità nei confronti di chi sta peggio, noi chiudiamo gli occhi. Ma tutto ciò che accade, accade ugualmente, ed è come se ci fossero Auschwitz ogni giorno, e mentre cerchiamo di dimenticare un passato doloroso non ci rendiamo conto che è ancora lì, a pochi metri da noi, e ci guarda incredulo ,esterefatto.


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