PROFEZIA DI UN CONFLITTO
Di Simone Rollo e Sheila Leo

1.. Dopo l’interessante convegno "Il Kosovo tra guerra e soluzioni politiche del conflitto", tenutosi presso l’Università di Lecce (novembre 1998), dove rappresentanti albanesi e serbi, insieme ad illustri studiosi provenienti da altre nazioni ed ONG, hanno ipotizzato delle possibili risoluzioni del conflitto Kosovaro, per noi studenti la vera esperienza sul campo è iniziata prendendo parte all’azione di pace "I CARE" a Prishtina promossa da Beati i costruttori di Pace, Ass. Papa Giovanni XXIII e Pax Christi.

2.. Nonostante il nostro interessamento verso le modalità di svolgimento dell’iniziativa, una volta giunti all’incontro di Training a Bari, ci siamo ritrovati in una realtà per noi nuova ed inaspettata. Nella prospettiva di una lotta non violenta l’indottrinamento per far emergere le nostre personalità non violente si è basato sulla lettura di alcuni brevi saggi e sull’assimilazione del "metodo del consenso" ch8e, con il passare dei giorni si è rivelato un’arma a doppio taglio; in quanto, se da un punto di vista è vero che in un gruppo così eterogeneo non vi è la possibilità di essere pienamente democratici nelle scelte e di conseguenza consenso vale a dire accettazione e non benestare , dall’altro la democraticità spesso è stata invocata in termini decisamente parziali. Il passo successivo è stato quello di creare una serie di "gruppi di affinità" all’interno dei quali si sarebbe dovuti giungere ad un nucleo energetico-spirituale che ci avrebbe aiutato a superare eventuali momenti di difficoltà. Consapevoli dell’importanza degli esercizi di Training in una situazione, nella quale, 230 persone suddivise in gruppi si incontrano (molte per la prima volta), e devono sviluppare nel più breve tempo possibile delle attitudini specifiche ed un’adeguata conoscenza dell’altro, analizzando i fatti a posteriori, ci siamo resi conto che, nonostante la validità dei metodi utilizzati, la gestione degli stessi a nostro parere non è stata efficace, in quanto gli innumerevoli esercizi da svolgersi in un tempo breve e scandito non davano la possibilità di rendersi conto dell’esercizio stesso, di farvi partecipare tutti allo stesso modo e di rielaborare collettivamente l’esperienza.

3.. Una volta giunti in Kosovo, gli obbiettivi della carovana "I Care" non sono stati più quelli di teorizzare metodi e tecniche di approccio nei confronti di coloro che, in modo autoritario, avrebbero dovuto ostacolare il nostro cammino bensì di assicurarsi che ogni "gruppo di affinità" in base ai propri interessi portasse a compimento una seri di mini azioni diplomatiche al fine di spezzare anche solo un piccolo anello della catena che soggioga queste popolazioni. Così il giorno 9 dicembre il nostro gruppo di studenti "Università senza frontiere" insieme ai Professori Fumarola e L’Abate si è diretto dapprima verso l’Unione Studenti Indipendenti dell’Università Albanese di Prishtina con sede nella facoltà clandestina di Legge dove in un’aula scarna e priva di riscaldamento ci sono state esposte dai rappresentanti dell’Unione le modalità della lotta non violenta portata avanti per quasi dieci anni dagli studenti albanesi. Non si può che provare un profondo senso di ammirazione verso questi giovani che nonostante le perdite di amici e parenti ed i grossi spargimenti di sangue hanno continuato gridare in modo pacifico fino al 1997 il loro diritto ad un’esistenza non discriminata. Messaggi affidati al vento e mai recapitati se pensiamo che solo quando è iniziato a sgorgare il sangue, le notizie delle atrocità commesse nei confronti dell’etnia albanese in Kosovo sono apparse sulle testate dei mercanti di notizie. Insieme agli studenti, inoltre, sono state poste le basi per un rapporto epistolare informatico continuativo e per un eventuale scambio culturale da effettuarsi a Lecce con il patrocinio della Provincia.

Il passo successivo è stato l’incontro delle autorità accademiche dell’Università albanese di Prishtina insieme alle quali si è discusso in principio delle precarie 88condizioni degli edifici adibiti ad Università e di tutti i disagi che sono costretti a sopportare gli studenti per poter portare avanti i propri corsi di studi che infine saranno riconosciuti solo da singole entità universitarie di altri paesi europei sensibili alla causa Kosovara. Proprio da quest’ultimo punto sono partite delle promesse di intervento sensibilizzante nei confronti dei Ministeri Italiani affinché riconoscano ufficialmente le lauree conseguite a Prishtina. Un’ulteriore accordo verbale è avvenuto sulla proposta del Prof. Fumarola di realizzare, probabilmente a Skopje (Macedonia), un convegno che faccia sedere intorno allo stesso tavolo tutte quelle realtà europee (Baschi, Irlandesi, Kosovari…) che, anche se con modalità differenti, portano avanti ideali di autonomia regionale.

Nel pomeriggio il nostro gruppo si è diviso in due delegazioni, una è andata ad un colloquio con le autorità universitarie serbe ed un altro, del quale facevamo parte anche noi, si è spostato verso la Facoltà Tecnica, unico edificio universitario ufficialmente liberato dall’occupazione serba. Qui, sotto la guida dei nostri amici dell’Unione degli studenti abbiamo potuto toccare in maniera meno formale quella che è la condizione giovanile degli Universitari albanesi. Nell’ambiente fumoso del bar universitario è iniziato quel processo di socializzazione che in pochissimo tempo ci ha resi fratelli, amici, innamorati, compagni di lotta e quant’altro ci poteva avvicinare, se pur per poche ore, ad una realtà fino a qualche giorno prima sconosciuta ai più.

La seconda giornata di lavoro (10 dicembre) è stata suddivisa in due tronconi: nella mattinata un simposio presso la facoltà di tecnica e nel pomeriggio il coronamento della nostra azione non violenta, la marcia della pace. Non staremo qui a descrivere lo svolgimento dei fatti in modo cronologico, bensì cercheremo di porre l’accento su una serie di fattori psicologici ed emotivi che hanno condizionato è i due eventi è i dibattiti assembleari postumi della carovana "I CARE". La classica procedura di un simposio in una situazione delicata come questa vorrebbe una serie di convenevoli, sorrisi, auto-censure, al fine di instaurare dei rapporti basati sulle buone parole e sulla conciliazione ma, con l’intervento del Prof. Fumarola che dichiarava sé ed il suo gruppo chiaramente filo albanesi nella logica del riequilibrio del conflitto (Wher), è scoppiato, all’interno della carovana, un vero putiferio. Interpretazioni pseudo collettive e aggressioni verbali nei confronti di chi, senza ipocrisia, ha espresso un parere, condiviso dai più, ma tenuto allo stesso tempo ben chiuso nella profondità delle menti, nella logica della benevola conciliazione forzata anche se come interlocutore si ha il più feroce degli assassini. E sempre nell’ottica dell’essere buoni a tutti i costi, la marcia-fantoccio si è svolta nel più completo appiattimento sulle volontà di una polizia che come dei bimbi in gita ci ha imposto di camminare per gruppi di dieci, distanziati gli uni dagli altri. Se questo tipo di marcia può aver soddisfatto le voglie pacifiste di una parte del gruppo, molti altri, compresi noi, ci siamo sentiti inutili e offesi da questa costrizione. Per non parlare delle innumerevoli aggressioni verbali ricevute da parte della popolazione serba infastidita dalla nostra presenza che, con una serie di gesti eloquenti ci ha fatto capire che la dottrina della conciliazione non è stata assimilata in un territorio dove l’odio etnico da anni spadroneggia nelle menti delle persone.

Una città piena di mura invisibili dove, se da un lato due ragazze possono camminare sole per la strada alle due di notte, senza incappare nei pericoli delle nostre metropoli, dall’altro se sei un albanese all’uscita di un pub sei costretto a chiedere ai tuoi amici italiani se ti possono scortare fino al taxi che si trova a due metri perché ad altri due metri c’è la milizia serba con i mitra in pugno!

4.. Per concludere vorremmo porre l’accento su una riflessione che ancora oggi a distanza di una settimana ci rende attoniti di fronte all’idea che ragazzi come noi tra pochi mesi dovranno combattere per quei diritti che noi troppo spesso diamo per scontati.
In un conflitto a pagare il prezzo più alto è sempre la gente comune, ma a volte è proprio grazie alla gente comune che la parola Libertà entra a far parte del vocabolario di un popolo.


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