SECONDA SESSIONE
"IL RUOLO DELLA LOTTA NON VIOLENTA
ED IL SUO POTENZIAMENTO"

RELATORI


Prof.ssa E. Ragusa
coordinatrice di Campagna Kossovo

Dott.ssa Stasa Zajovic
Donne in Nero di Belgrado

Prof. A. Demjaha

Prof. J. Marichez
Università di Parigi

Prof. A. Karjagdiu

Prof. P. Fumarola
Università di Lecce



José Miguel Kintana Gastaka
studente Erasmus dell’Università
dei Paesi Baschi

Lisa Clark
Beati i Costruttori di Pace

Prof. A. L’Abate
Università di Firenze

Prof. K Metaj
Università di Pristina

Prof. P. Simic
Università di Belgrado

Prof.ssa Mirie Rushani
Università di Pristina



Prof.ssa E. Ragusa :
“ Come presidente di questa sessione indico l’ ordine dei lavori : parlerà prima Stasa delle donne in nero di Belgrado e poi Agon Demjaha, del Centro per lo sviluppo della società civile. Stasa parlerà in italiano e Agon in inglese. Aspettiamo che tutti siano provvisti di auricolare, nel frattempo informo che dietro ci sono dei ragazzi che distribuiscono dei libri per gli studenti gratuitamente, per gli adulti a metà prezzo, per chi è interessato può dare l’offerta che crede, perchè sono delle informazioni sul Kosovo e sulla nostra campagna, è un po' di materiale per conoscere la resistenza non violenta.

Stasa Zajovic :
“Buongiorno a tutti, come avete sentito sono di un gruppo di donne per la pace : Donne in nero. Innanzitutto vi voglio dire che come attivista lavoro da tanti anni e sento sempre più difficoltà nel dare risposte, perchè il conflitto che viviamo, per risolverlo, non ha risposte facili, non ci sono risposte rapide, per cui dirò qualcosa della nostra esperienza come gruppo di donne non violente, dei miei dubbi, contraddizioni, alcune riflessioni e forse qualche domanda.
Di non violenza, sicuramente, avete sentito parlare tante volte, ma la prassi politica di un gruppo di donne che dall’ ottobre ‘91 è sceso in strada per esprimere il suo ripudio delle scelte di guerra, del militarismo del regime dello Stato in cui viviamo, esprimendo la solidarietà con tutti gli altri “diversi”. Vi dirò perchè come un gruppo di donne abbiamo scelto la non violenza, l’abbiamo scelta non perchè come donne siamo non violente o pacifiste per natura, è un processo culturale e politico che ci ha fatto non violente. La non violenza nostra non soltanto una scelta spirituale, nemmeno solo un atteggiamento etico, è anche un’analisi modesta, ma rigorosa della situazione della realtà in cui viviamo, dello sproporzionamento delle forze del regime, il suo apparato poliziesco- militare, la sua repressione verticale appoggiata alla repressione orizzontale, un ambiente contaminato dal nazionalismo o dalla logica di guerra. Ciò che abbiamo imparato dagli amici del movimento non violento è che nessun regime dittatoriale, nessuna dittatura che è caduta con la lotta armata, ha dato come risultato una società democratica. Ci sono, invece, i casi di movimenti popolari e di massa non violenti che hanno dato questo risultato, non in un passato molto lontano, ma nei decenni scorsi come nelle Filippine, in Ungheria, nei paesi dell’Est. L’ altro fatto che ci ha incoraggiato è che il movimento popolare non violento in Kosovo è forse l’unico movimento non violento in Europa. Questo è stato molto incoraggiante sia per noi come gruppo di donne, sia per tutto il movimento di pace in Europa. Poi, come donne, noi lottiamo per l’autonomia delle donne, e riflettiamo su tutto partendo dal nostro genere. Una delle nostre amiche spirituali, la poetessa afroamericana, Odri Lord, ha detto “non utilizzate le armi del padrone per distruggere la sua casa, ma cercate altra mediazione politica, sapendo che rispondere con la violenza alla violenza genera altra violenza”.
In tutti questi anni, protestando nelle strade di Belgrado abbiamo visto che questo principio della non violenza: “non compiere le aspettative dell’avversario” ( non voglio utilizzare la parola nemico ma avversario), è un mezzo molto potente, perchè questa strategia è stata un meccanismo molto potente per la nostra difesa. Inoltre anche per motivi etici abbiamo scelto la non violenza: vivendo in un mondo molto degradato, disumanizzato, perchè tutte le guerre brutalizzano, disumanizzano, e poi ideologizzato, fatto di propaganda nazionalistica, di odio verso l’altro, abbiamo constatato che con la non violenza, anche la gente che solitamente è nostra avversaria e che in molti sensi esprime ripudio nei nostri confronti, è meno aggressiva. Abbiamo pensato, forse è un’utopia, che forse è più facile trasformare degli avversari in alleati per il futuro. Ho visto che, anche se usata da un breve arco di tempo nel paese in cui vivo, la pratica non violenta ha dato dei risultati; purtroppo non mi addentro adesso nei motivi del fallimento del progetto politico della coalizione d’ opposizione, ma voglio sottolineare solo un fatto spirituale, culturale: il fatto che è stata svegliata la speranza. Il problema è che anche per la speranza ci vuole molta responsabilità, ma di questo forse ne possiamo parlare nel dibattito, mi riferisco alle proteste studentesche e civiche a Belgrado, che sono fallite.
Sapete che la non violenza è la forma di lotta più democratica, perchè coinvolge, include più persone, è meno gerarchica, vuol dire che vogliamo superare l’educazione patriarcale; credo che sia lo strumento più giusto, perchè può includere donne, bambini, e non soltanto un’ elite che parla in nome del popolo. Molte volte prende sia gruppi di lotta armata sia partiti rigidamente strutturati. E poi non vogliamo, io, personalmente, non voglio accettare uno stereotipo, cioè che i Balcani sono una zona di guerra, dove la guerra è uno stato naturale di cose, perchè la mia esperienza di attivista in questi anni mi ha mostrato che c’è un’ enorme potenzialità umana, non solo nei termini affettivi umani, ma anche politici e morali, nonostante tutti gli ostacoli. Con la gente dei Balcani abbiamo lottato per superare gli ostacoli.
Inoltre vogliamo essere pragmatici in termini politici; sappiamo che la non violenza gode di più credibilità nella comunità internazionale, gode di più simpatia, ma questo è uno dei motivi secondari.
Come è difficile parlare di quello che noi come gruppo modesto e piccolo abbiamo fatto per appoggiare la causa della non violenza nel Kosovo ! Prima che scoppiassero le guerre nei Balcani, abbiamo partecipato ad una carovana di pace nel maggio ‘91 promossa dai pacifisti italiani, con loro abbiamo fatto tanti progetti, pensavamo cosa avremmo potuto fare negli anni futuri assieme, ma la guerra è cominciata. E’ la guerra di “bassa intensità” in Kosovo, forse un periodo di preguerra si può far risalire al 1981, ma questo periodo di guerra guerreggiata, di guerra a bassa intensità dall’ 89 si è istituzionalizzato in razzismo culturale ecc... e tante altre forme di repressione sistematica dei delitti umani individuali e collettivi. Come donna, e non solo, cosciente della strumentalizzazione del dolore umano da parte dei mass media, credo che mi sono un po' lasciata sedurre da questa immagine dei mass media, che hanno accettato in un certo senso questa gerarchia di dolore e di guerra, perchè di fronte alle immagini della guerra in Bosnia pensavamo che la guerra di bassa intensità del Kssovo non fosse tanto crudele, percui i primi anni della nostra protesta li abbiamo dedicati alla protesta contro le guerre in Slovenia, Croazia e abbiamo denunciato la repressione.
Gli ultimi due anni della nostra attività li possiamo chiamare di intervento civile, azioni di protesta in strada per denunciare il regime di repressione della popolazione del Kosovo, per esprimere appoggio ai gruppi kosovari, al movimento studentesco non violento e stabilire e rafforzare così i contatti tra noi e i gruppi del Kosovo.
Cercare pian piano di superare i pregiudizi di quella logica dei blocchi, perchè Alberto ha detto, ha fatto riferimento più volte al nostro amico comune, compagno Alex Langer, che mi ricorderò sempre, durante la prima carovana nel Kosovo ha ripetuto più volte che la logica dei blocchi blocca la logica. Rompere questi blocchi o anche, come Alex Langer ha detto, “saltare i muri”, si può fare a livello modesto con la politica dei passi piccoli, rafforzando l’amicizia e i contatti personali e i contatti tra i gruppi. Una delle cose che in questi anni abbiamo cercato di rendere visibile è l’attività e l’enorme impegno dei gruppi non violenti e di gruppi di donne in Kosovo; posso dire con vero orgoglio e con grande ammirazione, sia da parte mia che da parte delle mie amiche del gruppo, che le donne albanesi nel Kosovo, forse nel momento più vulnerabile, difficile del loro popolo, questa estate hanno trovato la forza di attendere e di venire in un luogo che per loro non è difficile da raggiungere, sono venute ad un convegno internazionale che noi abbiamo organizzato sulla solidarietà tra le donne contro la guerra. Il gruppo più numeroso era di 25 amiche, non solo di Pristina, ma anche di altri villaggi. Abbiamo voluto esprimere una prassi non di tolleranza, ma di rispetto del loro patrimonio culturale, una delle lingue in cui si è parlato per tutto il tempo del convegno è stata la lingua albanese. Abbiamo voluto anche incidere, certo, in qualche modo, l’ ambiente in cui viviamo che, ripeto, è contaminato da una propaganda nazionalistica, militaristica come nella maggior parte dei Balcani. È questa la politica di intervento civile che noi facciamo.
Durante la nostra protesta di questi ultimi due anni, abbiamo notato e percepito nelle reazioni della gente alcuni elementi che ci hanno fatto pensare, che ci hanno fatto preoccupare, siamo abituate a reazioni militariste, sessiste, maciste, di intolleranza verso l’altro, ma in questo caso abbiamo percepito due cose nuove: la prima, questo forte razzismo culturale verso tutto un popolo e la seconda, la sindrome o fenomeno di vergogna sociale; noi siamo state, non meno della gente per strada che reagiva in quel modo, da alcuni mass media del regime additati come una vergogna sociale. Ciò che facciamo merita una condanna sociale, mi riferisco alla condanna morale, anzi politica e morale, cosa che non abbiamo notato negli anni precedenti durante le proteste contro la guerra in Bosnia, questo ci ha fatto riflettere, anche questo è un dato importante.
Quando è scoppiata la guerra guerreggiata in Kosovo abbiamo denunciato i massacri della popolazione civile a Dreniza e poi abbiamo denunciato la catastrofe umanitaria, non abbiamo voluto fare la simmetria tra il terrore di Stato e la violenza dei gruppi armati del popolo albanese, ma come gruppo di donne antimilitariste ci pronunciamo contro ogni tipo di violenza. Prendiamo in considerazione che è la risposta allo Stato di terrore, ma sappiamo che ciò che legittima più terrore contro la popolazione civile, giustifica maggiore violenza.
Vi ripeto che siamo convinte che la violenza genera sempre nuove violenze. Di tutto questo consideriamo responsabile la comunità internazionale, sia le istituzioni europee che non hanno appoggiato il movimento non violento, che hanno permesso in tutti questi anni che vincesse la logica di guerra, la logica e la prassi di guerra. Riteniamo che la non violenza nel Kosovo non ha attirato l’attenzione della comunità internazionale, purtroppo, nemmeno quella del movimento di pace europeo; i mass media sono attirati solo dalla violenza, la CNN è venuta in Kosovo solo una volta quando c’era più violenza, quando la non violenza non era più interessante, ho sentito i commenti di amiche e amici del movimento studentesco in tal senso, la loro delusione. Questa strumentalizzazione della sofferenza, questo ridurre la gente solo a vittime è una delle cose che noi, dei gruppi non violenti, critichiamo seriamente.
La comunità internazionale e le istituzioni hanno permesso che una parte della popolazione albanese si rassegnasse a vedere come unica possibilità il ricorso alla lotta armata. Per me questo è stato un segnale di sconfitta e di impotenza.
Da una parte può sembrare cinico, forse più che un cinismo, parlare di non violenza dopo le stragi, i massacri, i villaggi distrutti, la gente sfollata, non etnicamente pulita, è dificile parlare della non violenza in una condizione di pace imposta e non di pace creata, di pace in assenza di grandi uccisioni. Mi chiedo se sia ingenuo, da una parte, o se sia cinico, dall’altra, continuare a parlare della non violenza. Ciò che vorrei è che non fosse pacifismo astratto quello che io considero non violenza, pratica della non violenza sono le azioni molto modeste e piccole.
È molto difficile per esempio ottenere, dal punto di vista di genere, in questa situazione di conflitto in Kosovo, ottenere l’equilibrio tra liberazione del popolo e emancipazione delle donne, tra diritti individuali e diritti collettivi. Perchè in tutti i casi le richieste delle donne sono rinviate, i semplici dicono “dopo, dopo, dopo”, e nel frattempo noi dobbiamo sancire le ferite della guerra, fare i conti con le conseguenze della guerra, e non coinvolgerci nella prevenzione della guerra, nella creazione di una cultura di pace.
E poi anche mi chiedo nel caso del Kosovo come ottenere l’equilibrio tra autodeterminazione degli individui, autodeterminazione delle donne e in tutti i Balcani, insomma, perchè sì, ci sono molti aspetti simili nell’ autodeterminazione di tutta un collettività. Come donna non ho dubbi, sono per l’ autodeterminazione dell’individuo e, ammetto che, per molte persone, sia molto importante l’ autodeterminazione del collettivo, anche per noi che siamo per l’autodeterminazione dell’individuo, in questo caso di genere femminile Situazione abbastanza imbarazzante e difficile: noi vogliamo dare lo stesso valore di autodeterminazione alle persone che si pronunciano in termini etnici, che sentono una appartenenza etnica, le persone che sentono una pluralità non di natura, di nascita, ma una pluralità di appartenenza, allora non è facile equilibrare tutte queste cose.
Finisco dicendo quali sono i passi piccoli di questo intervento civile nella vita quotidiana: uno di questi è l’educazione alla pace, sia in forma di azioni dirette, non violente, sia in forma di educazione alternativa, decentralizzata. Una delle cose, delle quali forse pochi si occupano nei Balcani e delle quali noi ci siamo occupati fin dal primo momento, è l’ antimilitarismo e la disubbidienza civile, appoggiare tutti gli uomini e i ragazzi che rifiutano ogni tipo di reclutamento, che non vogliono andare in nessun esercito, considerando questa una cosa necessaria e indispensabile per demilitarizzare tutta la zona dei Balcani, nei termini effettivi, diminuire le armi da abolire nel futuro, realizzare cioè una demilitarizzazione sociale, nel senso dei rapporti con gli altri, superando pregiudizi, ecc... .
Io stessa mi chiedo qual’è il ruolo del movimento non violento in una situazione di pace imposta, oltre a quello di appoggiare l’ obiezione di coscienza, l’ educazione per la pace, diversione, ecc.... Credo che come donne abbiamo un ruolo importantissimo, non solo nel lenire le ferite, ma anche nell’ essere oggetti politici nei processi politici, cioè nel movimento sociale, ecc.... Perchè le donne, non solo per natura, ma per il ruolo sociale che ci è stato imposto, credo che siamo più disposte alla mediazione, alla riconciliazione; questa cura degli altri che facciamo non per natura, ma per il ruolo che ci ha imposto la società patriarcale, non vogliamo che sia sempre abusata da interessi estranei alla nostra sensibilità e affinità, ma che sia utilizzata per noi stesse, per la promozione dei diritti umani, dell’autonomia e dell’ emancipazione delle donne e di tutte le persone, certo.
Il ruolo delle donne nei processi di pace può essere molto grande, ma la situazione in cui vivono le amiche del Kosovo, adesso, che dopo avermi inviato dei progetti importantissimi a favore dell’autonomia delle donne, adesso si vedono costrette a lenire le ferite di guerra. Anche in questo si vede che la guerra è un retrocedere, è fare cioè un passo molto indietro, percui le donne devono rinviare questa richiesta di emancipazione.
Anch’io penso, come il professor L’ Abate, che non tutti i conflitti siano negativi, che se non si possono risolvere, si possono trasformare.
Una delle parole che, secondo me, appartiene alla prassi della politica non violenta, è l’ amicizia, cioè l’ andare nei luoghi, l’ entrare nelle case della gente. L’ amicizia è uno dei valori umani che conferma la forza della non violenza, è importante per la mia esperienza umana: ho moltissime amicizie in Kosovo, conosco molte famiglie, vado nelle loro case e, questo entrare nelle case, non è solo un fatto affettivo, ma è simbolico, perchè rompe i blocchi e i pregiudizi reciproci. Forse può sembrare banale, ma l’ amicizia è una forza motrice, come ci ha insegnato Simon Weil, la filosofa ebrea morta durante la seconda Guerra Mondiale. Simon Weil ci ha detto: “Gli affetti umani, nei grandi eventi storici, non hanno l’ importanza che devono avere; se conoscessimo la forza dell’ amicizia, il destino del mondo sarebbe diverso”.
Non voglio finire con una cosa lirica, ma credo nella forza dell’ amiciazia e ccredo che sia una cosa importante. Grazie”.


Giorno 12 novembre 1998
Sig.ra Etta Ragusa:
“Grazie a Stasa Zajovic per la sua testimonianza, e passo la parola ad Agon Demjaha”.

Prof. A. Demjaha:
“Vi ringrazio Signori e Signore. Innanzitutto vorrei ringraziare chi ha organizzato questo convegno, che sicuramente avrà un effetto positivo su tutto ciò che si è fatto per il Kosovo fino ad ora. Inoltre mi scuso di essere in questa sessione, perchè accidentalmente ho preso il posto del signor Albin Kurti, che doveva essere presente a questo convegno. Su questo motivo vorrei farvi una breve analisi della storia della non violenza in Kosovo per lasciare più spazio alla discussione. Il movimento non violento ha trovato successo in molti paesi, a partire da Ganisns. Questo movimento ha gestito la rivolta contro il regime britannico colonialista, dando la libertà all’ India; ha messo fine al regime del generale Marcus; è stato di aiuto nel porre fine al regime comunista in Cecoslovacchia e in Polonia. Sfortunatamente il movimento non violento non ha mai avuto successo nel Kosovo, almeno sino ad ora. Sin da quando è stata soppressa, nel 1989, l’ autonomia del Kosovo, gli albanesi si sono organizzati in strutture totalmente indipendenti da quelle della politica serba. Tutte queste attività degli albanesi erano basate su una politica non violenta e dirette dal Presidente del Kosovo, Rugova.Tuttavia, questa politica non violenta non ha dato i risultati sperati dagli albanesi. Durante questa politica non violenta, l’organizzazione dei ribelli indipendenti albanesi si è mossa in modo da raggiungere risultati impressionanti, se non nello stretto ambito politico, nella sfera sociale del Kosovo: si sono sviluppate pienamente le strutture dell’ istruzione, culturali e sociali, che si sono evolute, operando in maniera totalmente indipendente dalle strutture statali serbe. Come sapete, fra la fine del 1996 e l’ inizio del 1997, c’è stata una rotazione degli albanesi su posizioni politiche più radicali. Una domanda molto interessante e stimolante potrebbe essere.: “Perchè è avvenuta questa rotazione?”. Direi che ci sono state delle ragioni che hanno causato questa rotazione; certamente una delle più importanti è che l’ accordo originale che fu fatto a quel tempo per risolvere il problema della Bosnia, non incluse il Kosovo e le sue problematiche. Fu certamente la parte albanese a sperare che una volta discussa la questione bosniaca, sarebbe stato discusso anche il problema del Kosovo. D’ altronde lo Stato della Jugoslavia si stava lentamente e gradualmente inserendo nella comunità internazionale e tutti gli albanesi speravano che ciò non sarebbe accaduto, prima che fosse stato risolto il problema del Kosovo Infine, la gran parte del sostegno, da parte della comunità internazionale, che gli albanesi hanno ottenuto con la resistenza pacifica, si è sempre più indirizzato verso i diritti umani, più che a sostegno dell’ indipendenza e ciò, ovviamente, ha portato alla disillusione della popolazione albanese del Kosovo. Anche se gli albanesi si difendono dalla resistenza militare o resistenza violenta usata in Croazia e in Bosnia, ciò non è considerato sufficiente dalla comunità internazionale per sostenere la politica non violenta. La radicalizzazione della situazione è iniziata nel 1997 su due binari, che hanno dato una risposta più radicale al fallimento della non violenza in Kosovo: un binario fu la forte e radicale risposta militare promossa contro la Serbia, come unico mezzo per la liberazione del Kosovo; l’ altro, il fallimento del movimento pacifico studentesco organizzato dalla Indipendent Student Union dell’ Università di Pristina. Come tutti sappiamo, inizialmente il movimento studentesco fu ben accolto dalla comunità internazionale e sostenuto assai bene. Fu il movimento studentesco che ritornò sul problema del Kosovo e che ne fece argomento presso la comunità internazionale. Sfortunatamente gli studenti sono stati picchiati, perseguitati e imprigionati, mentre la reazione della comunità internazionale è stata quella di non percepire la realtà del Kosovo. Dinanzi alla disillusione di questo movimento si è avuto, come risultato, che sempre più albanesi si sono avvicinati alla soluzione violenta e la situazione si è sempre più radicalizzata, sino a diventare quella attuale. Vorrei dire che quando una certa popolazione, un gruppo etnico decide di intraprendere una resistenza non violenta, pacifica per raggiungere i suoi obiettivi, certamente richiama il sostegno e la simpatia della comunità internazionale, immaginando in qualche modo che si mediti su quella scelta. Sfortunatamente in Kosovo, se la comunità internazionale ha, da un lato, lodato la resistenza non violenta degli albanesi, dall’ altro, praticamente non ha fatto niente o molto poco per aiutarli. E’ logico accettare o assumere il fatto che ciò che sta accadendo in Kosovo, adesso, è qualcosa che molte persone già avevano previsto; ma la comunità internazionale è stata molto lenta nel valutare questi fatti, che in seguito, in questa regione, si sono sviluppati nella direzione che conosciamo. Inoltre, se da un lato la comunità internazionale si è pronunziata, nei confronti della resistenza non violenta, come l’ unico mezzo per raggiungere obiettivi politici, dall’ altro, ironicamente o cinicamente, non fa niente o molto poco per ricompensare quei gruppi etnici, gruppi politici o nazioni che hanno intrapreso la via della resistenza non violenta e pacifica per raggiungere i loro obiettivi politici. Quindi c’è una certa ambiguità tra ciò che è promosso pubblicamente e ciò che accede in realtà. Credo che l’ esito che si è avuto in Kosovo sia un tipico esempio di questo tipo di ambiguità, o di questo genere di politica. Vorrei concludere, per non togliere spazio alla discussione, dicendo che: poichè la non violenza è stata mal compensata dalla comunità internazionale, la comunità internazionale sarà coinvolta in quel conflitto; la non violenza può servire come mezzo per raggiungere certi obiettivi e promuovere il rispetto dei diritti umani e dei valori democratici. ma se con la resistenza non violenta, cinicamente si assiste a massacri, distruzioni e violenze, come quelle che ci sono state in Kosovo, non penso che ci si possa aspettare dalla gente del Kosovo che sostenga questo atteggiamento non violento nonostante tutto. Forse è giusto ciò che si dice: che la vera non violenza non è ancora stata applicata in Kosovo, ma se c’è la mobilitazione della comunità internazionale e di tutti quei fattori che effettivamente hanno il potere politico di fare qualcosa per far sì, che la non violenza diventi realmente efficace, a prescindere dai conflitti, in Kosovo. Direi che persino ora, a distanza di un anno, il Presidente Rugova è sempre fedele alla soluzione non violenta del conflitto. Sono portato a credere e quasi del tutto convinto, che molti non la pensano allo stesso modo sulla situazione kosovara, infatti per sostenere e mantenere vivo questo atteggiamento di non violenza, è importante che gli albanesi kosovari non si spostino verso soluzioni più radicali e verso le posizioni dell’ UCK; per questo la comunità internazionale dovrebbe compiere dei passi verso una soluzione fattiva e accettabile, che possa prendersi cura dei fondamentali diritti umani, come delle esigenze etniche della popolazione albanese del Kosovo. Grazie”

Sig.ra Etta Ragusa:
“Albin Kurti degli studenti di Pristina non è potuto venire, interviene il professor Abdullah Karjagdiu.”

Prof. A. Karjagdiu :
“Sono professore presso l’ Università di Pristina, insegno Lingua e Letteratura Anglo-Americana, vorrei dire qualche parola anch’io, ma mi riesce difficile parlare in Italiano, anche se la considero una lingua adorabile, percui farò il mio intervento in inglese. Vorrei ringraziare gli organizzatori e questa Università per gli sforzi compiuti per rendere possibile questo incontro. Inoltre vorrei salutare tutti i partecipanti e tutti coloro che sino a questo momento hanno portato la loro testimonianza, comunicandoci cose importanti, in particolare. mi ha commosso l’ intervento della rappresentante delle Donne in Nero.
Anche noi, come membri dei partiti politici, a prescindere dal tipo di appartenenza politica, abbiamo iniziato una politica della non violenza, credendo ad una ideologia basata sui principi fondamentali della non violenza, sfortunatamente l’ atteggiamento non violento viene considerato passivo, rispetto a forme più dinamiche dell’ agire, come marce di protesta, seatings, scioperi ecc.; ciò va d’ accordo con ciò che dice il professor Sharp, che è un’ autorità in questo campo.
L’ anno scorso, siamo riusciti ad organizzare un paio di manifestazioni non violente in Kosovo, che hanno visto la partecipazione, oltre che degli studenti, della popolazione di una parte e dell’ altra. Tuttavia, devo ammettere che, anche precedentemente, ci sono state delle fasi di grande interesse per questo tipo di iniziative, prima ancora che si iniziasse la politica della non violenza in Kosovo, prima che fosse sospesa l’attività dei primi partiti politici kosovari con gli eventi dell’ 89 e del ‘90, quando venne tolta l’ autonomia al Kosovo con la violenza, le armi, i militari, quando vi fu una sorta di colpo di Stato, quando una unità della Unione Federale jugoslava, attaccò e ne distrusse un’ altra, perchè, vedete, inizialmente il Kosovo era un’ unità federale del sistema jugoslavo, faceva parte dell’ Unione Federale e del Governo Federale. Si è verificato dunque un caso estremamente interessante e singolare nella storia del federalismo Jugoslavo che era composto da sei unità, cioè da sei province autonome, il caso di una unità federale che ne distruggeva un’ altra senza essere fermata o punita da parte della comunità internazionale. Fu questa la scintilla che fece scoccare la tragedia nella ex Jugoslavia. Con la distruzione dell’ autonomia speciale, gli albanesi kosovari, la popolazione balcanica del Kosovo reagì e, sfortunatamente, non si conosce questa reazione, non se ne è mai parlato nelle riunioni come questa: ci furono manifestazioni e scioperi da parte della popolazione ed altre forme di protesta molto ben organizzate, azioni non violente molto civili, che ricevettero da parte dell’ avversario una risposta agressiva, fatta di percosse e di torture; centinaia di albanesi, in special modo studenti hanno protestato e reclamato i loro diritti di ugualianza nella ex Jugoslavia comunista. , Questo fu il preludio, ma passiamo alla seconda fase: la violazione continua dei diritti umani e la negazione della popolazione albanese del Kossovo. Sapete che la maggior parte della popolazione Kosovo è albanese: il 90%. Quindi distruggendo il loro sistema economico, culturale, scolastico, sociale e politico e nel contempo cercando di sostituire gli albanesi, nei posti più rappresentativi della società, con le minoranze e, in più, inserendo un gran numero di burocrati, di rappresentanti militari serbi del Kosovo. Questo fu l’inizio di una sorta di colonizazione. Durante una seconda fase, che iniziò con gli anni ‘90, gli albanesi sono stati privati dei loro diritti umani, individuali e colletivi. Non avevamo lavoro, io che ero un professore, con 22 anni di esperienza, sono stato espulso dall’ Universita senza motivo; miliaia di professori come me, senza aver fatto nulla di violento, sono stati espulsi in modo veramente incivile. Sono 34.000 i professori albanesi delle scuole elementari, secondarie e superiori ad essere stati privati del loro lavoro; sono stati licenziati anche gli operai e i lavoratori di altre aziende. Possiamo trarre alcune conclusioni: che cosa è accaduto in realtà? Come la nostra amica Stasa ha ben spiegato, noi abbiamo reagito in modo molto pacifico, perchè avevamo avuto instituzioni, rappresentanti internazionali, che andavano dall’ Italia a Bruxelles, a Strasburgo e negli Stati Uniti. Siamo stati sostenuti nel nostro atteggiamento, ci è stato detto: “Noi sosterremo sempre il vostro atteggiamento cosi civile e pacifico”. Abbiamo avuto fiducia, come il resto della popolazione della nostra comunità. Questo è durato per sei o sette anni, una resistenza passiva che poi si è personificata in Rugova ed in altri che continuavano a dirci: “Va tutto bene, riotterremo i nostri diritti”. Poi abbiamo visto a Pristina quale è stata la situazione. Fino all’anno scorso, questo processo dinamico è poi sfociato in reazioni sempre estremamente civili e pacifiche, tuttavia non abbiamo ricevuto nulla da parte della comunità internazionale. I partiti hanno perso la fiducia e autorità nei confronti della popolazione, perchè hanno continuato a promettere, in questi otto anni, la pace, l’ugualianza, la stabilità, i diritti umani. Siamo stati ignorati dalla comunita internazionale, non siamo stati compresi nel nostro diritto al territorio. Inoltre le atrocità, le rapresaglie, l’ opressione, le persecuizioni, manifeste o nascoste che si sono verificate su larga scala. Sfortunatamente siamo arrivati alla fase finale, che non è certo quella che noi desideravamo; sapete che fra la fine di febbraio e l’ inizio di marzo, venti persone di una stessa famiglia sono state uccise ed altri venivano a chiederci se potevano essere protetti da queste atrocità e massacri , ma nessuno ci ha mai ascoltato. Dopo otto-nove anni di atrocità del regime, che è stato condannato da tutta la popolazione, la sofferenza c’è stata anche per la popolazione serba, che cosa è successo? E’ accaduto che il cosìddetto terrorismo del regime serbo di Miloscevic ha prodotto un’ azione individuale di autodifesa, è stata una risposta a questa esagerata violazione dei diritti umani nel Kossovo: dalla confisca dei passaporti al lincenziamento dal lavoro, che equivale a una condanna a morte. Ci è stato detto di rivolgerci al Comitato dei Diritti Umani e abbiamo appunto cercato di rivendicare questi diritti, tutto cio non si è verificato lo sappiamo. Veniamo poi all’emergenza del UCK che ha avuto un ruolo notevole per nove anni e abbiamo potuto vedere quale è stata la reazione della comunita internazionale ed è cosi che l’ UCK si è organizzato per difendere le famiglie, la loro dignità i loro diritti. Ma vediamo ora che cosa è accaduto nella fase finale. Dopo l’offensiva del regime serbo, che ha avuto inizio diversi mesi fa, l’obietttivo espresso pubblicamente dal regime militare serbo è stato quello di liquidare il terrorismo. Vediamo ora di considerare lo Stato legale, quello che si muove in nome dello Stato: che guarda ai confini, alla sovranità, all’ integrità, ai diritti umani, allo status giuridico. Non c’è uno Stato storico e legale a sostegno di tutto ciò. Vediamo i risultati: chi sono state le vittime, con chi sono stati saldati ì conti, come diceva il regime di Milosovic. Dalle vittime e dai feriti, più di 2.000, adesso naturalmente ci sono vittime da tutte due le parti, la cosa è reciproca ormai. Vediamo i risultati: hanno dichiarato che quelli erano terroristi, ma lo sapete che dal 10 al 15% sono membri della UCK, mentre 80-90% sono donne incinta, uomini anziani, bambini dai 5 ai 10 anni, questi sono i gruppi principali delle vittime , vorrei anche parlare di 400 villaggi bruciati, 300.000 case distrutte, bestiame ucciso, raccolti bruciati. E’ il metodo usato dai tedeschi, dai russi e da altri eserciti. Fare un paragone con i fascisti ed i nazisti non è azzardato, perchè in Spagna gli alleati di Franco lo hanno aiutato mandando 100 carri armati e 50 aeri. Da noi, contro i villaggi albanesi e l’ UCK sono stati inviati centinaia di missili, di blindati, di forze militari specializzate, sono stati mandati i criminali della Bosnia, i responsabili delle atrocità in Bosnia e la consequenza qual’ è stata? Che sono stati uccisi i civili. Adesso abbiamo questa situazione: ci sono due ragruppamenti politici, quello di Rugova e gli altri. Anche noi stiamo cercando di formare il nostro esercito, il nostro governo, con i rappresentanti di tutti i partiti per continuare il dialogo e sostenere questi negoziati provvisori presentati oggi dai nostri amici serbi, la pax americana, perchè vediamo in questa l’ unica via di uscita. Dunque vogliamo il dialogo con i rappresentanti dell’ altra parte, ma anche ripristinare le istituzioni, i diritti umani, per normalizzare la vita e la situazione in Kossovo. Imoltre vogliamo che, anche fra tre, quattro o cinque anni potremo godere dei nostri diritti, perchè ne abbiamo diritto, secondo la carta delle Nazioni Unite. Fra quattro o cinque anni vorremmo organizzare anche noi un plebiscito, un referendum contro il regime egemonistico serbo, sotto il quale gli altri grandi fratelli della Croazia, Slovenia e Macedonia non sono voluti rimanere facendo ricorso al principio dell’ autodeterminazione. L’ unica unità della ex Jugoslavia che non ha avuto la possibilità di godere dell’ autodeterminazione, è stata la regione del Kosovo, ma questo è un diritto che ormai ci è stato concesso dalla comunita internazionale, dalle istituzioni internazionali ed è questo che vogliamo. Attualmente stiamo attraversando delle fasi di negoziato che spero daranno i loro frutti e porteranno i risultati desiderati. Molte Grazie”.

Sig.ra Etta Ragusa :
“Vorrei mettere a fuoco, con poche parole, quale sia la situazione in Kossovo. La resistenza non violenta si è dimostrata efficace; la repressione, invece, ha avuto le stesse conseguenze che hanno avuto tutte le guerre, a partire dalla Seconda Guerra Mondiale e cioè di colpire, prevelentemente, la popolazione civile. Passo ora la parola a Professor Jean Marichez che fa parte di un gruppo francese che si interessa proprio dei modi in cui la non violenza è efficace, cioè della metedologia da applicare nella pratica non violenta. In genere i non violenti si mobilitano per l’ azione, oppure elaborano delle teorie per affrontare, da un punto di vista pratico, le situazioni e dare delle indicazioni precise sul modo di applicare la stessa non violenza, questo tipo di lavoro ha cominciato da poco a prendere piede. Prego professore”.

Prof. J. Marichez :
“Il mio intervento non riguarda la sostanza del conflitto, ma, esclusivamente, l’ aspetto del metodo di lotta,. Voi sapete bene che la scelta del metodo è importantissima, perchè finora due metodi sono stati tentati: la resistenza civile non violenta e la guerra. Io parlerò di un altro metodo di limitazione dell’ aggressore, che potrebbe essere utilizzato, se gli accordi sino ad ora sottoscritti, non risulteranno sufficienti per un accordo di pace. Nessun metodo è perfetto, tutti sono molto difficili, sono già undici anni che lavoro alla soluzione di questi conflitti e sulle resistenze civili e credo che il metodo di cui parlerò sia l’ unico che ci resta oggigiorno, il meno peggio. La seconda cosa che dirò su questo metodo, è che siete voi, del Kosovo, ai quali spetta decidere su quale metodo scegliere. E’ con grande rispetto per le vostre decisioni, che mi permetto di suggerirvi quanto segue. Questo medoto va un po' più in là dei precedenti, perchè permette di vincere, è molto di più di una resistenza civile non violenta e avrà una forza di limitazione molto più incisiva della forza armata. Sicuramente direte: “E’ impossibile, è un miracolo!”. Molti di voi conoscono la “civilian action defence”, noi la chiamiamo “difesa per azione civile”, che da ora in poi denomineremo DAC. Mi direte: “Sì la conosciamo, sappiamo di cosa si tratta”, ma non sono completamente sicuro che conosciate correttamente questo procedimento, perchè, se mal compreso, può essere oggetto di un grande errore che cercherò di correggere. Questo genere di correzione che potrebbe essere di grande utilità nella lotta nel Kosovo. Tutti sanno che la DAC è una forma di resistenza civile non violenta, che è condotta dall’ insieme di un popolo; tutti sanno che è un variante di questa resistenza, che sarebbe preparata e organizzata dagli Stati, più esattamente, preparata e organizzata dal potre legittimo. E’ noto che ci sono state numerose resistenze civili duranteil corso del ventesimo secolo, resistenze che hanno vinto, ma la DAC è soltanto una resistenza civile preparata meglio. In un certo senso, la vostra resistenza del 1990 sarebbe più vicina alla DAC. Ma quello che non si sa, perchè non è così facile da capire, è l’ intensità che può raggiungere tale lotta, l’ alto livello di limitazione che può esercitare sull’ aggressore. Per far capire meglio tutto ciò, la nostra associazione propone di utilizzare la parola “guerra” e propone di parlare di “guerra”, più che di “difesa”, attraverso un’ azione civile, o di parlare di “guerra non violenta”. Mi spiego: usiamo la parola “guerra”, perchè la DAC è un’ importantissima azione di forza contro un avversario, un’ operazione terribile e molto difficile, esattamente come una guerra; per comprenderne la vera e propria natura, bisogna osservare tutte le caratteristiche della guerra e applicarle sistematicamente alla DAC, eccetto ovviamente l’ uso delle armi e della violenza, che è una differenza peculiare. Vedrete adesso come cambia la prospettiva. Esattamente come la guerra, la DAC non può funzionare se non c’è un obiettivo. Si è mai vista una guerra senza un obiettivo ben preciso, senza un obiettivo riconosciuto da tutti i combattenti? La responsabilità della scelta di questo obiettivo è dei capi e di tutti i partiti riuniti, ed è soprattutto del vostro Governo provvisorio, se gli si vuole concedere questa prima responsabilità, vi dirò sin da ora che il risultato sarà detestabile. Se questo obiettivo sia l’ indipendenza o l’ autonomia, non lo so, certo non devo rispondere io, ma siccome è difficile mettere tutti d’ accordo, deve essere, prima di tutto, il risultato di un accordo e successivamenete la decisione di una vostra autorità legittima. L’ obiettivo deve essere realista e ragionevole, per esempio, il primo obiettivo potrebbe essere pervenire a una negoziazione generale in posizione di forza. Che cosa significa vincere una guerra: non è certo schiacciare o annientare l’ avversario, è raggiungere un obiettivo, se l’ obiettivo non è raggiungibile attraverso i mezzi disponibili, si cambia l’ obiettivo. Questo per ciò che riguarda l’ obiettivo, secondo punto: non si può vincere una guerra senza una unità di comando. Voi avete oggi una unità sufficiente per vincere una guerra difficile? Se la risposta è: “No”, bisogna, prima di tutto risovere questo problema, se non lo farete, perderete la guerra. Lo so, l’ unità totale è impossibile e non è male che ci siano dei punti di vista differenti o completamente opposti, ma quello che è importante è che si instauri un procedimento che garantisca l’ unità di comando, bisogna passare attraverso la disposizione di questo procedimento.
Dunque, l’ obiettivo, l’ unità di comando e il terzo punto è la strategia. Non di vince una guerra senza strategia. Che cos’è la strategia? E’ una scelta tra varie vie per raggiungere l’ obiettivo, in ogni modo ci saranno dei morti, delle persone torturate, delle violenze sulle donne, dei feriti, ma in una guerra bisogna cercare che ci sia il minor numero di morti e di feriti, in ogni caso ci saranno dei vantaggi e degli svantaggi, ci daranno dei costi, dei rischi.
La scelta di una strategia non si può fare senza aver analizzato precedentemente questi rischi.
Quindi c’è una strategia generale, e poi ci sono delle sotto-strategie. Suppongo che due scelte siano state fate: la via della non violenza e la partecipazione di tutta la popolazione, già queste sono due scelte importantissime, sono i primi punti per una azione di difesa civile, la DAC è la forma ideale di resistenza civile non violenta.
Adesso facciamo ben la differenza fra la resistenza civile non violenta e la DAC; restano altre scelte strategiche e per operare queste scelte ci sono varie domande da porsi.
Per scegliere una strategia bisogna lavorare varie settimane, forse anche mesi e porsi delle domande su come minare il potere dell’ avversario, per esempio con atti di sfida, non di cooperazione, ma di rifiuto, di disobbedienza, ci sono dei libri molto dettagliati su questa questione e, se l’ analisi è fatta bene, ci sono delle forti possibilità di ridurre considerevolmente il potere e di deporlo. Per questo bisogna analizzare, ad esempio: qual’ è la soglia a partire dalla quale le azioni civili non violente diventano intollerabili per l’ aggressore e lo costringono a negoziare; come impedire al nemico di raggiungere i suoi obiettivi, anche qui l’ analisi degli obiettivi è importante; quale sarà la reazione dell’ avversario di fronte alla nostra strategia; quali sono i suoi punti deboli e i nostri punti forti.
Vogliamo fare una guerra breve, forte e potente, con azioni civili di forte intensità, con, per esempio, enormi manifestazioni in tutto il paese: scioperi generali molto duri, con dei rischi elevati? Oppure, vogliamo fare una guerra lunga, fatta di piccole azioni, tutti i giorni, per impedire all’ avversario di raggiungere i suoi obiettivi, ma con le difficoltà di una guerra a lunga durata?
Come dissuadere la gente a collaborare col potere? quale strategia costruttiva si vuole mettere in opera? come dissuadere la violenza dell’ avversario? Quale sistema di comunicazione, di informazione mettere in opera? Come aiutare la popolazione a sopravvivere, certo questo è un grosso problema? Come perdurare nella non violenza? Ci sono tante e tante domande come queste che non posso continuare ad elencere.
Quindi ho parlato di obiettivi, di unità di comando, di strategia e adesso di comunicazione.
Non si vince una guerra senza una strategia di comunicazione, senza un vasto dispositivo di comunicazione. Le guerre moderne si vivono piùttosto sulla comunicazione che sul campo e da una parte si tratta dell’ informazione della popolazione del Kosovo, della Jugoslavia, dei paesi circostanti e della popolazione mondiale. Questo campo ha bisogno di tecniche avanzate, c’è bisogno di professionisti per fare questo: è una guerra all’ interno di una guerra; c’è bisogno di molto denaro, c’è la controcominicazione che è molto difficile e anche qui è un lavoro di professionisti.
Credo che la resistenza civile del Kosovo dal 1990 sia stata un fallimento per insufficienza nel controllo della comunicazione, per esempio la popolazione francese era molto male informata, perchè non sapeva nulla di quel che succedeva nel Kosovo. Credo che se i francesi fossero stati informati le cose si sarebbero svolte diversamente, avreste avuto una posizione di forza per negoziare.
In questo capitolo sulla comunicazione, vorrei aggiungere che non si vince una guerra senza uno sviluppo preventivo delle circostanze favorevoli, a livello internazionale e a livello della Jugoslavia ci sono molte cose da studiare. Ci sono molti movimenti pacifisti a Belgrado e questo è molto importante.
Non mi dilungo sulla comunicazione, perchè adesso vorrei parlare della mobilizzazione: si tratta di dichiarare una guerra, una guerra totale che mobilita tutta la popolazione, inclusi alcuni serbi che sono favorevoli alla soluzione del conflitto.
Allora si mobilita la popolazione se l’ obiettivo è chiaro e visibile. L’utilizzazione della parola “guerra non violenta” aiuta la popolazione a capire l’ intensità della lotta da condurre, la difficoltà dell’ obiettivo, il rigore necessario, la disciplina richiesta e il carattere totale dell’ impegno.
Questo per la mobilizzazione, ora parliamo della organizzazione. E’ qualcosa di molto importante sulla quale si può dire molto, per esempio: che è necessario un dispositivo di organizzazione locale per prendere le piccole decisioni quotidiane, per la comprensione degli ordini, per guidare individui e gruppi. Si tratta di far funzionare tutte le strutture della società civile, che non sono occupati o diretti dai serbi; bisogna, soprattutto, prevedere un processo di decisione decentrata; bisogna prevedere la continuità della gestione, come la sostituzione dei capi che possono avere dei problemi.
Facendo una comparazione con la guerra si potrebbero dire molte cose: non si vince una guerra senza sistemi d’ informazione, senza ricerca, senza mezzi, senza costi, senza preparazione, senza formazione. La stessa cosa è esattamente per la DAC. Non entro nel particolare di ciascuno di questi punti; questi aspetti permettono di capire se la preparazione e l’ intelligenza necessarie per questo tipo di battaglia equivalgono a quello che si trova in una guerra e questo cambia molte cose. Non si tratta più di resistere magnificamente e di costruire le basi di una società civile, come avete fatto con tanto coraggio, si tratta adesso di costringere l’ avversario e non si tratta di radicalizzare la resistenza, si tratta di raggiungere un obiettivo, di avere una strategia per vincere e non una strategia per resistere. Perciò si tratta di mobilizzare, per una guerra non violenta, tutte le forze della società civile, che sono immense, poichè i federati superano le forze dell’ esercito serbo. Per capirlo bisogna anadare fino in fondo al paragone con la guerra, ad eccezione della violenza; se non potete fare questo, allora bisogna ridurre l’ obiettivo e mirare un po' più in basso, ma se lo fate, bisogna farlo e andare fino alla fine. Con l’ enorme potenza della vostra popolazione, il lavoro è difficile, ma non bisogna sottostimare questa straordinaria potenza civile.
Non so se accetterete questa soluzione, ma dico che è una soluzione che deve essere studiata a fondo e che è una soluzione seria, la cui efficacia è provata, si tratta di trovare la strategia, che non è poco e richiede un lavoro serio fatto da gente competente, che proporranno le loro conclusioni ai responsabili dei loro partiti. Penso che la cosa sia possibile, perchè avete dei punti forti e il vostro avversario ha dei punti deboli. Questa proposta emerge dai lavori di un’ associazione che si chiama Action Civile et Défense.
Concludo dicendo questo, con molta modestia, perchè conoscete i vostri problemi molto meglio di me. Grazie”.

Sig.ra Etta Ragusa:
“Naturalmente, il corso accellerato che ha fatto il professor Marichez sulla “difesa per azione civile” non vale solo per i kosovari, perchè anche nelle società cosiddette in pace ci sono problemi di carattere sociale, politico, economico e quindi per ogni situazione occorre trovare una strategia e mettere appunto un itinerario per riuscire a raggiungere degli obiettivi.
Ora potremmo avviare il dibattito. Interviene il Professor Fumarola, prego”.

Prof. P. Fumarola :
“Intervengo sollecitato dal professor Marichez, per contrastare un pò la tendenza a questa costruzione così precisa e di tipo razionalista, da lui fatta, e non è un caso che sia un ingegnere, per dire che, secondo me, c’è anche un’ emozione, un sentimento, una simbologia molto forte nel costruire le azioni. Questi aspetti non sono facilmente razionalizzabili, fanno parte integrante delle strategie, sono degli aspetti decisivi, interni a qualsiasi strategia uno scelga. Questo mi sembra evidente e credo che su questo ci troviamo tutti d’ accordo.
Ricordo che, nel ‘68 l’ esperienza più tragica della nostra esistenza, di militanti più o meno comunisti, comunque della sinistra italiana, fu quella di Jan Palak, che si suicidò bruciandosi e mettendoci tutti dinanzi ad un forte imbarazzo per questa morte. Non invito, ovviamente, nessun kosovaro a fare lo stesso.
Il problema è come agire in situazioni di movimento, come definire e creare le condizioni di movimento, su quale presupposto. Dirò il mio a partire dalle mie motivazioni ed implicazioni: mi sono mosso, nei confronti del Kosovo, con pochissime informazioni, con un impatto emotivo che mi veniva dall’ arrivo di tanti albanesi, dal fatto che gli albanesi erano un popolo misterioso, isolato, solitario, un po' nascosto alle società di dieci anni fa - parlo di dieci anni fa e mi sembra un’ eternità -. Questo impatto emotivo, questa massa di popolazione che arrivava qui, mosse la mia curiosità e la mia fantasia, quindi i miei livelli di implicazione.
Voglio dire insomma, che non ho costruito, con una strategia, il rapporto del fare con il Kosovo, del fare con i kosovari e del fare universitario, specifico dell’ oggi. E’ stata, invece, un’ esperienza molto immediata e senza forme strategiche particolari, affidata alla spontaneità ed al movimento. In questa prospettiva c’ era una rivendicazione simbolica molto forte, per esempio, il riconoscimento dell’ Università albanese, cosiddetta illegale, di Pristina. Considero l’ Università kosovara, la prima università post-moderna, un modello per tutte quelle occidentali, un’ esperienza davvero straordinaria fatta di umanità, di principi di libertà e di bisogno d’ identità, tutti elementi piuttosto rari nella costruzione di questi apparati per la trasmissione dei saperi, che noi chiamiamo università. Nella prospettiva post-moderna, c’è qualcosa di medioevale e con ciò non intendo nulla di negativo se riferito al fatto che anche allora gli studenti sceglievano e pagavano direttamente i loro professori, avevano un’ intensità di rapporto con i saperi che somiglia molto a quella degli studenti kosovari. Non sono insomma studenti che cercano solo un foglio di carta per avere un titolo che agevoli l’ accesso al lavoro. Credo che, almeno in Italia, con la tendenza all’ autonomizzazione ed alla privatizzazione che avanza, questo modello di università, sarà forse l’ unico lato positivo del modello liberista che si prospetta. Ciò che è accaduto a Pristina, con l’ Università “illegale”, ma anche a Tetovo, in Macedonia, che mi risulti è un fatto unico, non riscontrabile in nessun altro luogo al mondo, non rintracciabile nella storia dei saperi istituzionali. Tutto ciò fa sì che noi si impari dal Kosovo queste strategie di movimento che implicano aspetti simbolici molto forti, straordinari. Da quando gli è stata tolta l’ autonomia, il modello kosovaro, nella storia delle lotte di resistenza è un modello esemplare.
La prima cosa straordinaria è il fatto che sia stata costruita una società parallela e sia stata tentata una soluzione negoziata attraverso una lotta non violenta, ma è straordinario anche il fatto che a questo non è stata data risposta, di nessun tipo, la comunità internazionale ha completamente ignorato tutto ciò, ha immaginato che ciò potesse essere prolungato all’ infinito, Rugova ha continuato a girare per le diplomazie internazionali ed è tornato sempre su se stesso. Nel frattempo una generazione, che è quella dei bambini che avevano dieci anni, è cresciuta ed è diventata una generazione di ventenni, che è stata educata senza alcun diritto di cittadinanza, essi non sanno cosa significhi essere cittadini. E’ una generazione che è vissuta nell’ incubo d’ avere un nemico, un oppressore, che effettivamente era tale, in una separazione, o autoseparazione, o autoreclusione da un sistema in cui erano, forse contro voglia, più o meno integrati. So che i docenti universitari serbi e albanesi si salutavano, che si rispettavano, talvolta erano amici, si sa che persone appartenenti alla due etnie vivevano negli stessi palazzi, ad un certo punto non si sono più salutati, si è rotto qualcosa, si è andato avanti così per dieci anni blindandosi. Era inevitabile e credo che tutti voi siate d’ accordo nel pensare che di fronte a una forma di non violenza, così immobilista, così priva di movimento, di fantasia nella comunicazione, di comportamenti simbolici efficaci per rendere visibile questa lotta, fosse inevitabile, quasi necessario che la gioventù decidesse di usare un altro sistema, un altro metodo, che poi è quello della lotta armata. Questo è ciò che è accduto in Kosovo: i partiti politici sono stati trascinati da movimenti della società, da quello studentesco, hanno perso credibilità e controllo dando spazio alla soluzione armata. Ricordo, a dicembre del ‘97, eravamo a Pristina, con Alberto L’Abate, abbiamo letto i giornali e per la prima volta l’ UCK ha fatto una manifestazione pubblica: il modello che ha utilizzato è stato quello dei baschi, qui è presente un ragazzo basco e mi interessa molto che intervenga in questa discussione, per capire l’ esperienza basca, cosa comporta prolungare una lotta armata e una lotta politica per una liberazione. E’ molto interessante tentare un’ analisi comparativa fra l’ esperienza dei baschi e quella dei kosovari.
A dicembre dello scorso anno l’ UCK ha fatto un’ azione come quella dei baschi o degli zapatisti. Sono arrivati al funerale di una vittima kosovara, hanno indossato i cappucci neri, uno a viso scoperto ha fatto un proclama, erano presenti ventimila persone e quel dicembre non vi era uno, soprattutto tra i giovani, che a Pristina dicesse che l’ UCK non avesse ragione, che bisognava fare una vera e propria guerra, arruolarsi in un esercito, fare qualcosa di diverso.
Lì c’è stata evidentemente un’ emozione, un sentimento, una resistenza e una insopportabilità della situazione che ha portato molta gente alla decisione che la lotta armata poteva avere più senso che continuare ad attendere i giri di Rugova nelle varie diplomazie. Rugova in quel momento era in grande difficoltà, perchè pensava che perfino una giusta, normale manifestazione di piazza di studenti fosse da negare, fosse un pericolo, qualcosa di insopportabile. Dopo questa fase, non ho capito bene cosa sia accaduto in Kosovo. Ho capito solo che la lotta armata e la guerriglia hanno fatto dei passi, talmente più avanzati di quello che realmente potevano gestire, da legittimare un intervento armato da parte dell’ esercito jugoslavo, che è stato di una brutalità conseguente alla miopia oppressiva del regime politico di Milosevic, contro gli abitanti dei villaggi, che al massimo rappresentavano gruppi di autodifesa: pochi, civili e male armati. Mi riferisco alla presa, da parte dell’ UCK, del più grosso centro di energia elettrica che ci sia in Kosovo. Hanno fatto un’ azione militare relativamente facile, ma la sua gestione era impossibile, poichè era logico immaginare che non avrebbero mai potuto conservare quell’ obbiettivo strategico, anche se avessero avuto l’ appoggio di tutta quanta la popolazione, come immagina il professore Marichez.
Sicchè il problema delle strategie, dell’ uso delle strategie militari e non, è sempre da collegare a questi aspetti che, a mio avviso, sono di equilibrio nel rapporto tra azioni, simbolismo dell’ azione, possibilità di gestione dei risultati di questa azione. I militari dell’ UCK non avevano bisogno di tutta quella energia per farne chissà cosa, anche prendere quel luogo strategico era un’ operazione simbolica, poichè di fatto, inb seguito, tutto ha funzionato, l’ energia è stata prodotta, è stata distribuita come doveva essere distribuita, non c’è stata una volontà nè di sabotaggio nè di accaparramento, era solo una sostituzione simbolica del personale militare addetto a quel dispositivo. Le condizioni per gestire quell’ azione militare simbolica non c’erano e, naturalmente, si è data l’ occasione di un attacco macellaio indiscriminato verso la popolazione civile.
Capisco poco di quello che accade a Belgrado...
Che tipo di cittadinanza può garantire un regime come quello di Milosevic? Credo che allo stato attuale pochissima, quasi niente, siamo cioè a molto prima della rivoluzione borghese francese. Non esiste un diritto di cittadinanza neanche per i serbi di Belgrado e, se devo essere sincero fino in fondo, non ho capito come sia stata possibile una sollevazione della popolazione serba, con le Donne in Nero e con la massa di studenti e di popolazione all’opposizione che si è mobilitata per abbattere un regime, per modificarlo, per trasformarlo. Un regime che non andava bene, e mi chiedo come mai tutto ciò è finito nel nulla ed è stato raccolto da nazionalisti e monarchici, da gente di destra. Che tipo di cultura, di società, di mentalità c’è nella profondità della società civile di Belgrado, in quella serba, nella sua totalità, che cosa accade? Per noi è misterioso, siamo informati e sappiamo molto più del Kosovo, del martirio del popolo kosovaro, ma sappiamo poco del mondo e degli umori della popolazione serba. Bisognerebbe cominciare molto più seriamente ad occuparsi di tutto ciò e dei problemi che questa società e questa civiltà serba, totalmente europea, come daltronde quella albanese, pongono.
Per tornare alle ragioni questo intervento, spero non troppo confuso, credo che sia bene chiarire che l’impatto simbolico, emotivo, affettivo, sentimentale è decisivo nella costruzione non solo della non violenza, ma anche delle guerre e delle guerriglie, l’impatto, la partecipazione, il senso di appartenenza; tutta questa massa di fenomeni, che fanno parte dell’immaginario profondo della società e anche dei singoli individui che la abitano, sono decisivi. Ora, in concreto, noi proponiamo con “I care!” un’iniziativa, vorrei che Dusan Janjic e Predrag Simic ci dicessero un po’ il loro punto di vista, che Lisa Clark, tornata da Pristina, ci dica quali sono le prospettive di queste iniziative, come quella da fare il 10 dicembre a Pristina. Perché non credo che sia un’iniziativa che intralci il negoziato, come mi è stato suggerito e prospettato dall’ Ambasciata italiana di Belgrado, in fase di preparazione di questo convegno. Penso che un’iniziativa a Pristina, di un movimento non violento che rivendichi il rispetto elementare dei diritti umani, così calpestati, sia giusto. Si potrebbe anche andare a Belgrado, anzi forse sarebbe più interessante andare a Belgrado. Ma Pristina diventa un luogo strategico, simbolicamente. Lì bisognerà andare. Che cosa fare? Come organizzare questa iniziativa? È possibile? Perché gli albanesi o qualcuno di loro dice che non è una iniziativa ragionevole? Che non è il momento di celebrare nulla?
Faremo un’iniziativa silenziosa, luttuosa. Per mio temperamento, preferirei dare molto spazio alla gioventù, ad un clima di festa. Ma se non è possibile e ragionevole ciò, allora fare simbolicamente qualcosa che sia la rappresentazione del dolore nel silenzio, accogliere a Pristina e permettere che lì si esprima questo senso potente dell’emozione e del sentimento di pietà che proviamo contro ciò che abbiamo visto e ciò che intuiamo che accada e che, ancor peggio, potrebbe accadere in Kosovo. Vorrei che intervenisse Miguel, il ragazzo basco, lo invito ad intervenire a fare, se possibile, un parallelo con la situazione basca”.


Convegno Kosovo – Giorno 12 Cassetta 4


Stasa Zajovic:
“ Solo due parole, una replica a quello che ha detto il prof. Fumarola.
Mi sono sentita un po’ strana, stupita, perché ci ha messo tutti insieme in un sacco, dai monarchici, ai vari gruppi di Belgrado. È vero, c’è confusione, ma vorrei spiegare una cosa: il problema è la rappresentatività. Io non sono una persona rappresentativa, rappresento me stessa, rappresento un ghetto molto ridotto, faccio parte cioè di un gruppo di donne e mi posso definire come parte dell’opposizione, non solo contro Milosevic. Essere anti- Milosevic non vuol dire niente, vale molto poco per me, vuol dire che vi è una gara al patriottismo e, francamente, non c’entro niente con questo tipo di opposizione. Si fa a chi è il serbo più grande, chi è più patriota più acceso, ecc. Il problema è che un’opposizione a Milosevic non vuol dire niente, se non si tiene presente il problema cruciale, che è l’approccio al Kosovo. Questo è un esame che tutta l’opposizione deve sostenere e che non supera. Mi riferisco all’opposizione anti-nazionalista, anti-guerra, posso anche aggiungere militarista, ecc.
Perché è fallito ciò che è fallito? Sarebbe molto lungo da spiegare. Personalmente ho appoggiato solo una speranza quella di creare un movimento culturale. Sono d’accordo con la richiesta di alzarsi e protestare contro i brogli elettorali, ma non sono mai stata d’accordo con alcuni contenuti razzisti, che di sono manifestati durante queste proteste. Questo non lo potevo accettare.
Abbiamo cercato di sfruttare quello spazio creato dalla autostima che la non violenza ha svegliato nella gente, una dimensione spirituale di speranza. Durante la nostra presenza in Kosovo, il nostro è stato un intervento civile, in quei tre mesi si è creato uno spazio per introdurre contenuti diversi.
La responsabilità dei leader politici della coalizione è grandissima, enorme, non hanno risposto alle aspettative della popolazione. Il problema è che l’opposizione antimilitarista si può ridurre ai mass media indipendenti, ai gruppi ONG, a una parte del movimento studentesco che nello stesso tempo attacca i professori che non hanno sottoscritto l’accordo. Così i partiti politici in Serbia, dopo il fallimento della coalizione, stanno vivendo una crisi acuta.
Quando parlo dell’opposizione non parlo di una massa compatta. Il problema è molto grave, specialmente adesso in una fase di costruzione del patriottismo, dei nemici, bombardamento interno che si è prodotto con queste minacce, ecc.” .

José Miguel Kintana Gastaka:
“Sono uno studente Erasmus dell’Università dei Paesi Baschi, faccio parte del progetto Erasmus e resterò nell’ Università di Lecce fino a Giugno. Non mi aspettavo di intervenire, sono venuto a questo convegno per imparare, non posso insegnare. Ma voglio ringraziare per l’interesse che c’è sempre per un piccolo paese come il mio. Esso è diviso di due Stati, quello francese e quello spagnolo.
Sono venuto a seguire il convegno, perché nei Paesi Baschi c’è un conflitto e mi interessa sapere quale sia la situazione del conflitto in Kosovo. Posso dire che in questo momento l’organizzazione politica ETA ha interrotto la sua azione terroristica, c’è una tregua e tre mesi fa, nei Paesi Baschi, ci sono state le elezioni.
Anche da noi c’è un movimento non violento di agenti sociali che credono nei partiti politici. Dopo ogni azione terrorista della polizia o dell’ETA la gente va in strada per protestare, per dire che non siamo d’accordo con ogni atto terroristico. Personalmente sto cercando di avere una visione oggettiva della situazione, ma è sempre impossibile.
Nei Paesi Baschi coinvivono varie etnie, per esempio nell’università ci sono gruppi di studenti che si sentono spagnoli, altri che si sentono baschi e altri ancora che si sentono baschi e spagnoli. La situazione è difficile, si sente che per il futuro si debba prevedere senz’altro una condizione di convivenza tra i differenti gruppi sociali.
In questo momento, dopo le elezioni, noi baschi abbiamo ottenuto l’ autonomia, l’autonomia più ampia d’Europa, ma c’è una maggioranza dentro il popolo basco che vuole l’ indipendenza, il diritto di avere la possibilità di far decidere al popolo ciò che si deve fare. Ma la costituzione dello Stato spagnolo non prevede, nè permette la rottura dell’unità spagnola. Quindi non c’è una soluzione a breve termine.
Io sono pessimista e posso dire che gli agenti sociali hanno avuto successo, ma i partiti politici che hanno la possibilità di cercare soluzioni non hanno fatto niente, pensano solo ai voti e alle elezioni, ma la realtà la sente il popolo ogni giorno. Grazie ancora per il vostro interesse e la vostra attenzione”.

Lisa Clark :
“E’ormai un mese e mezzo, cinque o sei settimane che ci occupiamo della organizzazione di questa idea di recarci, per il 10 dicembre, a Pristina, data del cinquantesimo anniversario della dichiarazione universale dei diritti umani, dei diritti e delle libertà dell’uomo, recita il titolo di questa carta fondamentale per l’ esistenza di tutti gli uomini e le donne del mondo.
Un gruppo, formato da sei associazioni italiane, si è riunito per capire che cosa si poteva fare in questa occasione. Si aveva in mente, sì, il Kosovo, ma anche tutte quelle altre situazioni del mondo dove 50 anni sembrano passati invano ed dove i diritti umani vengono violati in continuazione. Il Kosovo ci è sembrato il luogo più vicino, non solo geograficamente, ma vicino anche al nostro cuore, dove abbiamo tanti amici che possono accogliere questo nostro gesto. In fondo è un gesto, non ci proponiamo di risolvere niente, né di cambiare la situazione, ma di portare un gesto concreto da società civile a società civile. La nostra idea è di andarci con tanta gente, con centinaia di persone che partiranno dall’ Italia . Spero che ci siano anche qui delle persone che vorranno unirsi a noi per andare a Pristina. Purtroppo saranno solo due giorni, sarà molto breve, ma gli obiettivi sono molteplici.
Uno, per noi che veniamo da una società civile, come quella italiana, è di poter capire meglio tramite l’esperienza diretta, per diffondere una maggiore informazione, una volta rientrati nei nostri paesi.
Qualcuno aveva già accennato questa mattina a quanto sia importante fare informazione su cosa sta succedendo in Kosovo.
Un altro obiettivo è che ci vogliamo porre non come persone schierate da una parte o dall’altra, ma come persone che si impegnano a favore dei diritti umani di tutti gli individui, non solo di un’ etnia. Questa è una dichiarazione che vorremmo fare in modo forte a Pristina. Per fare questo abbiamo scelto varie possibilità, la nostra strategia si basa sul contattare in modo ravvicinato e personale, tutte le realtà e le istituzioni di Pristina che rappresentano la società: dalle autorità governative, alle Ong, alla scuola, alle istituzioni preposte all’ istruzione, che ha un ruolo fondamentale in Kosovo, ea i profughi. Non dimentichiamoci che ci sono attualmente 400 mila profughi, come ci ha riferito il professor Nushi. A Pristina ci sono anche profughi dalla Crajna, ad esempio, e noi non riusciamo a capire che ruolo giochino anche loro in questo complicato equilibrio del Kosovo. Anche loro hanno dei diritti di cui dobbiamo ricordarci.
Pensiamo di dividere il gruppo che parte dall’ Italia in varie delegazioni che andranno al parlamento del Kosovo, che si è costituito come istituzione parallela; abbiamo chiesto anche di incontrare il governo cittadino, il sindaco, cosa che faremmo in qualsiasi città ci recassimo, quindi anche a Pristina. Il sindaco di Pristina ha accettato di incontrarci e questa già ci sembra una grande vittoria.
Con il parlamento del Kosovo abbiamo buoni contatti.
Pensiamo di incontrare le Ong che si occupano dei diritti umani : il Consiglio per la Difesa dei diritti umani di Pristina, non mi risulta che esista una simile Ong serba, se ci fosse vorremmo incontrarla; le Ong che si impegnano a livello umanitario, come l’ Associazione Madre Teresa di Calcutta , e altre.
Inoltre le scuole: pensiamo di riuscire a visitarne almeno una, quella forse simbolicamente più terribile per me è quella di Dardania, dove per dividere i bambini serbi dai bambini albanesi è stato costruito addirittura un muro, un muro di mattoni di cemento che ha diviso i bambini. Questa è una realtà che per noi, che stiamo al di qua dello stretto di mare che ci separ,a è difficile da capire, come si possono dividere dei bambini?
In Kosovo esiste una situazione in cui dei ragazzi, che vanno dai 17 anni in giù, sono impossibilitati a comunicare tra loro anche perché non hanno una lingua comune. Vorrei abbattere quel muro, sappiamo tutti chi l’ha costruito, è stata la scuola serba. Benissimo, accettiamo il fatto che ciò sia stato fatto, non continuiamo a tornare indietro sulle cose., vediamo dove si può andare avanti.
Vorremmo incontrarci con le Università e qui bisogna dire con le Università, al plurale, ma non so se ci riusciremo. La loro posizione è più radicalizzata di quella della scuola.
Vorremmo fare anche una sessione continuativa di questo simposio a Pristina, che non fosse una cosa di parte, ma è difficile trovare una sede che sia neutrale abbastanza, dove le persone si sentano libere di venire sia da una parte che dall’altra. Chiediamo aiuto a voi di Pristina che siete qui per riuscire a trovare un luogo accogliente per tutti quanti. Mi rendo conto che non sarà facile, ma ci impegneremo … la non violenza deve essere sempre molto creativa in queste cose. Chissà che non sia una discoteca !… questa è una battuta. Non ci devono essere limiti alla creatività.
Poi il momento forse più pubblico, più propositivo, sarà in effetti un momento di silenzio, di marcia per le strade, di fiaccolata, decideremo tutti insieme quale connotazione dare alla cosa, ma il pomeriggio del 10 dicembre sarebbe molto bello avere, di nuovo, per le strade di Pristina, una manifestazione non violenta. È tanto che non se ne fanno, p la repressione della polizia è stata troppo dura, sono mesi che gli studenti non rischiano più di scendere in piazza. Albin Kurti (leader del movimento studentesco albanese di Pristina) mi diceva che non possono garantire la sicurezza dei ragazzi: “ Basti che uno di loro inneggi all’ Uck e ci sarebbero 20 morti e la vita dei ragazzi non si può rischiare”.
Noi siamo italiani, noi ce la sentiamo di rischiare anche perché, per noi, il pericolo è molto diverso, molto minore. Non chiediamo necessariamente alle persone di là di unirsi a noi: dei giovani ragazzi di Pristina, dei Post-pessimisti, che sono dei ragazzi splendidi, dai 14 ai 18 anni, che hanno tanta voglia di fare, hanno detto che ci saranno, perché dicono “siamo giovani, non ci picchieranno”. Speriamo. Ottimismo e creatività dovranno essere le carte vincenti di questi due giorni. Se riceveremo un incoraggiamento da voi che venite da Pristina, noi ci saremo e ci saremo in tanti. Accoglieremo i suggerimenti e i consigli di tutti, e la partecipazione da parte dei giovani italiani”.

Prof. A. L’Abate:
“Questa mattina non avevo risposto alla domanda di Marek sull’interposizione non violenta. Devo dire che dopo aver fatto il nostro intervento in Iraq, aver incontrato lì degli amici australiani che avevano trattato questo argomento, mi sono messo a studiare l’ interposizione non violenta.
Ci sono una serie di esempi e di episodi storici molto interessanti, che non si conoscono, in cui di fatto dei gruppi civili si sono interposti tra due gruppi in combattimento e sono riusciti a far cessare l’intervento armato e a far cominciare un rapporto di dialogo. In Cina, in una lotta fra studenti la popolazione, gli operai si sono intromessi, il loro motto era “usate la ragione non la violenza” e così in Algeria, dopo la liberazione dalla Francia, due gruppi che avevano partecipato alla liberazione si sono battuti e anche lì la popolazione, madri, figli, nonni sono andati in mezzo a loro a dire basta, usate il dialogo. Questi esempi hanno mostrato che le persone che si interpongono possono portare al superamento dei problemi o, quantomeno, ad una apertura del dialogo.
Poi ho studiato anche forme di interposizione che, di solito, non vengono definite con questo termine, come, per esempio, l’attività di Amnesty o delle Brigate della Pace, questi gruppi d’azione esterna si recano in un certo paese. Anche lì, se si va a vedere, ci sono stati dei risultati molto importanti, interessanti. Ad esempio: sono state liberate persone detenute per motivi politici, come Rigoberta Manciù, che ha avuto il Premio Nobel per la pace, che ringrazia continuamente i volontari delle Brigate della pace che l’hanno aiutata e accompagnata per mesi e per anni, giorno dopo giorno, senza armi, né altro, per proteggerla dagli attacchi. In questo caso il rischio era reso minore dal fatto che c’ erano dei civili che accompagnavano e che erano legati a una rete internazionale di allerta, pronta a muoversi.
Una idea simile era stata suggerita anche per il Kosovo: unire l’intervento interno con quello esterno, cioè l’interposizione fatta sia da persone dall’interno del paese, sia dall’ esterno.
Il discorso meriterebbe qualcosa in più, ma mi fermo qui. È chiaro che l’interposizione non violenta in certe condizioni ha funzionato, questo non vuol dire che può sempre funzionare, però vuol dire che dobbiamo cominciare a prenderla in considerazione, cominciare a studiare quando è avvenuta e quando ha funzionato e vedere se queste condizioni si possono ripetere e migliorare. Diceva Marichez che la guerra non violenta richiede molto studio, io, come lui, ho lavorato con Sharp: Sharp ha tutto un gruppo che da anni e anni non ha fatto altro che studiare queste cose. Purtroppo noi lo facciamo nei tempi liberi, perché abbiamo altre cose, però è importante che queste si studino e si pratichino senza applicarle a caso”.

Prof. K Metaj :
“Ciò che ha detto il professor Marichez è molto interessante, ma ne discuteremo domani. Il professor Fatmir Sejdieu può spiegare bene questa forma di resistenza pacifica che dura da 10 anni. Quando sono stato qui, tre settimane fa, ho detto che per capire il problema del Kosovo, non voglio andare indietro nella sua storia, abbiamo bisogno di analizzare la nuova storia, quella degli ultimi 10 anni e il contesto della Jugoslavia. Penso che si debba meglio comprendere il problema del Kosovo per cercare di rispondere alla domanda: “Perché la Jugoslavia si è frantumata?”. Il professor Simic ha parlato di indipendenza albanese e dell’ impossibilità di avviare un dialogo proprio per il fatto che gli albanesi richiedono l’indipendenza. Questa è un po’ una mistificazione del problema, la verità è che è realmente difficile avviare un dialogo. Vorrei dire che il problema del Kosovo è anche quello di una società in transizione e quindi di accettazione della società civile. Il professor Marichez ha usato, per esempio, la parola “vincere”. La vittoria di cosa? Della democrazia? Della società civile? Le soluzioni si trovano nelle alternative di transizione, non solo in Kosovo, ma in tutti i Balcani.
Vincere è problematico. In Kosovo, ad esempio, nel 1990 e 1991, gli albanesi hanno accettato il pluralismo sociale e politico che viene criticato dal radicalismo, ci sono alcuni che chiedono : “Cosa sta accadendo? Perché abbiamo i partiti politici? Cosa combiniamo? Perché non organizziamo una resistenza armata?”; altri chiedono un consiglio nazionale ed è un dialogo fra le parti politiche.
Che fare, dunque? Cosa dobbiamo vincere? Questo è il problema da discutere qui in questa sede, con voi. È importante e necessario che voi veniate in Kosovo per fare un’analisi concreta della situazione”.

Stasa Zajovic :
“Sono d’accordo sul fatto che sia necessario attuare un’ azione politica nuova e creare un equilibrio tra le parti, ma questo linguaggio, per quel che mi riguarda, è difficile da assimilare. È troppo militaristico. Noi vogliamo incidere sulla mentalità culturale. Sto pensando ora ai politici che dicono facciamo la guerra per la pace. Questa è una glorificazione della guerra e sono molto perplessa. Anche il linguaggio da usare è importante.
Venti giorni fa, quando ci siamo incontrate con Lisa Clark, ci siamo dette che questa iniziativa a Pristina serve anche a prendere in considerazione l’opinione della gente locale, sarebbe paternalistico organizzare qualcosa senza il loro consenso e la loro partecipazione, senza che ci sia un dialogo, ecc. . Credo che solo a queste condizioni questa cosa possa funzionare, anche fra la gente di Belgrado, tutto ciò è molto simbolico, ma senza consenso… ricordiamoci di Sarajevo nel 1993. Da parte mia non ho bisogno di nessun mediatore internazionale per andare in Kosovo, prendo il pullman e ci vado”.

Prof. J. Marichez :
“Negli ambienti non violenti, che frequento ormai da 12 anni, ho verificato due tendenze, molto diverse tra loro, direi quasi opposte. La prima è l’azione non violenta del cuore e del coraggio, quello che fa la nostra amica a Belgrado, è la marcia prevista per Pristina, ciò che fanno molte persone con molto coraggio e non possiamo che ammirarle.
La seconda, è complementare, è l’azione della gente comune, che non ha molto coraggio e che ha bisogno di un quadro e di un dirigente che gli faccia superare le difficoltà. Ciocché ho appena detto, non è un punto di vista personale, ma il risultato di una ricerca di studiosi, fra i quali dei militari; una strategia, dunque, che è diversa dall’azione non violenta del cuore e del coraggio”.

Prof. P. Simic :
“Vorrei dire qualcosa su quanto ha detto Marichez. Per attuare una lotta c’è bisogno di coraggio, ma bisogna sapere esattamenete anche qual’è l’obiettivo della lotta. In effetti penso, che in questo momento, non possiamo dire che esistano i diritti umani etnici, i diritti umani nella loro essenza sono universali e ciò che viene applicato ad un gruppo deve esserlo, in modo uguale, applicato anche all’altro.
La confusione che vedo io, qui, adesso, è negli obiettivi sostenuti da alcuni dei nostri amici. L’obiettivo che, almeno io, ritengo importante per il Kosovo non è una lotta per le libertà separate di alcuni gruppi, siano essi etnici o altro, ma una lotta per i diritti umani in una società democratica in cui non ci sarà motivo di lottare contro l’oppressione, perché questa non esisterà più.
Credo che se, attualmente, l’obiettivo è l’indipendenza del Kosovo, allora ci sono due tipi di lotta che si possono portare avanti: il primo rappresentato e presentato qui attraverso il dibattito e la discussione, l’ altro portato avanti in Kosovo dall’ Uck. Non dobbiamo dimenticarci che l’Uck ha, fino ad ora, ucciso almeno 60 albanesi kosovari, per quanto ne so io, semplicemente perché queste persone volevano vivere in una società multi etnica, alcuni erano dei semplici postini o persone che per guadagnarsi la pagnotta lavoravano nei servizi statali, ma senza nessuna intenzione politica.
Dobbiamo prendere atto del fatto che ci sono molte vessazioni compiute dall’ altra parte, persone che vengono imprigionate da parte governativa; dobbiamo prendere anche in considerazione che i capi degli albanesi kosovari vengono minacciati, la loro vita è minacciata se scendono a compromessi.
Allora mi chiedo : “Davvero dobbiamo sostenere questo tipo di lotta? Credo che si debba prendere in considerazione anche il fatto che ci sono dei partner per un dialogo democratico e per una vera lotta per la democrazia, non solo a Belgrado, ma anche tra i serbi del Kosovo.
Sono sicuro che alcuni di voi hanno avuto la possibilità di incontrare il monaco Sava Janjic, che trasmette i suoi messaggi via Internet dal monastero di Dechani e che molti altri hanno avuto la possibilità di incontrare il vescovo Artemie, che sta presentando una idea completamente nuova della convivenza serbo-albanese. Dovrei sottolineare anche che alcuni dei profughi albanesi sono stati accolti nel monastero di Dechani dal monaco Sava. Quindi credo di poter sostenere questo tipo di posizione, perché non credo che ci dovrebbero o potrebbero essere, per lo meno io non posso sostenerlo, dei diritti per alcuni e trascurare i diritti degli altri.
Vorrei dire che, attualmente, è più facile essere un editore di giornali a Pristina che non a Belgrado, nessun giornale albanese è stato chiuso a Pristina negli ultimi mesi, mentre a Belgrado è accaduto il contrario.
Quindi qui abbiamo due linee di discussione, di dibattito: una è la lotta per la democrazia in quanto tale, vedere di trovare obiettivi comuni in questa lotta e aspettare che sia la democrazia a portare la soluzione; l’ altra, che non necessariamente generalizza la lotta degli albanesi contro i serbi, ma che tuttavia trascura le realtà molto complesse del Kosovo.
Se dovessimo essere consapevoli, come ha detto Stasa, di questo approccio militaristico della retorica della guerra per ottenere la pace, allora dovremmo essere consapevoli anche delle nostre responsabilità rispetto alle conseguenze: il Kosovo è solo un iceberg, come quello che ha fatto affondare il Titanic, il 10% percento sul mare, ma il 90% sta sotto e non si vede. Quindi il Kosovo è solo un punto nodale di tutte le controversie e i conflitti di tutti i Balcani meridionali ed è il punto focale più visibile adesso, ma ce ne sono altri, più gravi.
Cosa dobbiamo fare? Accettare le conseguenze che questa lotta trabocchi in Albania, che ha quasi avuto una guerra civile a settembre. E la Macedonia? E la Bosnia? Non pensate forse che l’esito delle elezioni di settembre in Bosnia non sia stato influenzato dagli eventi del Kosovo? Ci sarebbe forse una catena di eventi come quelli che abbiamo visto nei Balcani occidentali? Credo che dovremmo essere molto cauti nel concentrare e giustificare il nostro interesse, il nostro impegno e il nostro sostegno alla resistenza e alla violenza nella ex-Jugoslavia. Mi preoccupa questa impostazione troppo ristretta, andare a cercare semplicemente una sola cosa, senza vederne le conseguenze più ampie. Domani, nel pomeriggio avrò la possibilità di parlarne in modo più ampio. Credo che le persone che parleranno domani pomeriggio saranno più compatibili nel dare uno sguardo generale sui Balcani.
Vorrei ripetere che ciò che si può sostenere è la lotta per i diritti umani e la democrazia, credo che nessuno studente dovrebbe essere picchiato, né albanese, né serbo. Non credo che dovremmo semplicemente pensare di giustificare o condannare l’imprigionamento di uno e dimenticarsi l’altro. Le vessazioni, le torture devono essere tutte quante oggetto della nostra lotta. Grazie”.

Prof. A. Karjangdiu :
“Conosco il professor Simic dalla televisione di Belgrado. Io sono un filologo, lui è un politico, quindi forse non abbiamo una visione simile. Forse lui conosce meglio la terminologia e le parole e forse anche la sua struttura di pensiero è più politica della mia. Però vorrei dire, francamente, senza ambiguità, che nella nostra attività politica in Kosovo, negli ultimi dieci anni, abbiamo sempre parlato di due o tre cose: una, di diritti, di libertà, perché non siamo liberi, mentre i nostri amici e la popolazione serba sono liberi. Non siamo trattati come una società civile, viviamo sotto il governo più totalitario d’Europa, che spesso viene paragonato ai cattivi governi del recente passato. Noi vogliamo e siamo per la libertà, la dignità umana, l’ uguaglianza, non solo per noi. Queste cose sono sempre state sottolineate negli ultimi dieci anni da me e da tutti noi. Non vogliamo, come si dice nella Bibbia, augurare al prossimo quello che non vorresti per te stesso. Sappiamo di aver sofferto, ma non abbiamo mai mandato l’esercito contro il popolo vicino della Serbia. Per secoli abbiamo vissuto assieme. Ci era stato promesso aiuto, dagli inglesi, dai tedeschi, che ci avrebbero liberato all’inizio della guerra dei Balcani, ma, poi, sapete come è andata a finire quella guerra. Non abbiamo mai chiesto nulla di ciò che non meritavamo. Non abbiamo mai voluto mettere in pericolo gli altri, ma vogliamo un’ uguaglianza totale. Quando parliamo di società democratica, di libertà, di autogoverno e autodeterminazione, di cessazione delle violenze da parte delle forze armate, non ci riferiamo solo agli albanesi, ma a tutti noi. Guardiamo sempre all’altra parte e promettiamo a loro garanzie sia da parte di Rugova, che di De Maci. I serbi vengono considerati uguali, non abbiamo mai detto di considerarli come minoranza, ma come uguali.
Quindi , non chiediamo niente di più di quanto non abbiano le persone in qualsiasi altra comunità. Non vogliamo tutte queste vecchie definizioni sulle minoranze, stiamo pensando al futuro, non al passato, non stiamo cercando di costruire gli Stati a scapito degli altri, usando le mappe del medioevo. Vogliamo essere considerati pacifici. La nostra ricompensa è stata la violenza armata e 400 mila profughi. Come si può parlare di violenza quando 350 mila persone sfollate dal Kosovo sono dappertutto, in Montenegro, in Bosnia, in Albania, in Austria ecc.. I diritti umani, la causa non sono le forze armate, ma il regime totalitario della Serbia, e su questo punto siamo d’accordo tutti.
Vorrei ricordare al nostro prestigioso amico che anche lui ha parlato di autodeterminazione, due anni fa in televisione, me lo ricordo. Anche se è stato rimproverato subito dopo aver parlato. Non sono un esperto di politica internazionale, potete leggere il nostro programma politico, abbiamo sempre usato il linguaggio della non violenza, per dieci anni, ma siamo stati umiliati e ridicolizzati. Le nostre manifestazioni sono state disperse con la violenza. Adesso ci sono processi contro migliaia di albanesi. Non è vero che noi non condanniamo le uccisioni dall’ altra parte, i partiti politici hanno denunciato sempre tutte le uccisioni.
Esiste un articolo nella Carta delle Nazioni Unite che dice che ciascun popolo ha il diritto di combattere per la propria sopravvivenza, che è suo diritto resistere con metodi non solo non violenti, ma con tutti i mezzi. La posta in gioco è la sopravvivenza del popolo albanese. Uccidono gli albanesi e incolpano gli albanesi stessi, uccidono e distruggono le case degli albanesi e incolpano gli albanesi, li spostano con la forza, fanno la pulizia etnica, questo sta accadendo adesso, queste non sono parole, non è letteratura o narrativa, questi sono fatti, dolorosi fatti. Fatti che dovrebbero toccare i sentimenti di tutti, perché mettono in pericolo i valori della civiltà europea. Questa forza minacciosa di Belgrado, che viene usata dal governo serbo, è una minaccia per l’intera zona balcanica, non solo il Kosovo. Il prossimo sarà il Montenegro.
La questione centrale dunque è la forza, che è stata usata prima contro la Slovenia, poi la Bosnia, la Croazia, ora il Kosovo, che adesso e stata riconosciuta come una minaccia alla sopravvivenza anche dalla comunità internazionale.

Prof.ssa Mirie Rushani :
"Poichè ho vissuto tanti anni in Kosovo, poichè vivo lì vicino, so che le condizioni di vita sono simili. Sono uguali in Macedonia, in Kosovo e direi anche in tutta l' Europa dell' Est. Poichè è da dieci anni che partecipo a tanti incontri, movimenti di pace, ecc., penso una cosa, che noto qui, anche oggi, che c'è confusione e sembra che non ci capiamo. Mi spiego: tutti siamo per la pace, per la lotta non violenta, ma sembra che non ci capiamo, credo che il problema sia nei concetti che stiamo usando, non tutti li usiamo dando lo stesso significato, ad esempio la parola “democrazia” per tutti noi ha un significato personale, per non dire che ha anche un significato occidentale e orientale: l' Europa orientale intende una cosa, l' Europa occidentale ne intende un'altra. Per la parola “pace” è la stessa cosa, così come per la parola “non violenza “
Ci siamo chiesti che cosa sia la “non violenza”. Questa mattina qualcuno ha parlato di non violenza. E’ una scelta etica o un atteggiamento politico ? Credo che sia molto importante elaborare questi concetti prima di usarli, perché solo così si può ottenere un giusto risultato.
Una cosa è la scelta etica, personale, di fare una lotta non violenta, ad imitazione del Cristo, o come Jan Palac, ricordato dal professor Fumarola, che dicono : io scelgo con la mia non violenza di morire per mostrare alla gente la loro colpa, loro che sono ciechi e non la vedono, perché non ho un altro strumento e non voglio ammazzare per imporre la mia giustizia oppure le mie ragioni che forse sono giuste, ma non comprese. Ma , quando si parla di lotta non violenta, collettiva e politica, allora si pone un grosso problema, in questo caso c'è un' etica oppure no ? Nella lotta non violenta, collettiva, politica si deve tenere conto del fatto che sempre c'è una linea rossa che segna fino a che punto l’ azione è morale ed etica e che quando la si oltrepassa non è più morale. Quando uno decide di fare una lotta, collettiva, politica , non violenta e ha quattro, due o un bambino, deve tenere conto che quel bambino è nato senza il suo consenso e che vuole essere protetto, se uno viene e lo ammazza in casa sua, è lui che ne è responsabile. Allora pongo la domanda. Dov’è la morale della lotta politica non violenta verso coloro che non sono protetti, verso le donne violentate, eccetera…? Questi sono argomenti che dobbiamo discutere, perché i concetti pongono dei problemi.
Un altro concetto che ho sentito menzionare, mi pare dal professor Janjic, è lotta civile. Che cosa vuol dire lotta civile ? Lotta civile è la lotta all’ interno di un' etnia, di una nazione per operare miglioramenti, per elaborare riforme sociali e culturali se volete. Ma non si può più parlare di lotta civile quando in uno Stato multietnico, c’è solo un’ etnia autocentrica oppressa da altre etnie.
Un altro argomento del quale, questa mattina, ha parlato il professor Simic, è quello dei rapporti fra Kosovo e Belgrado. Non mi voglio prolungare oggi, perché la mia relazione su questo argomento è prevista per domani, ma voglio dire che noi dobbiamo partire, nei nostri dibattiti e nei nostri studi, in primo luogo, da una profonda analisi dei problemi, collocandoli al loro posto. Ciascun problema è un problema originale di per sé stesso. E secondo, che questi problemi non si possiamo guardare al di fuori dello spazio e del tempo, altrimenti rischiamo di fare confusione e di disperdere la buona volontà della gente che vuole fare qualcosa. Grazie."

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