QUINTA SESSIONE
PUGLIA FRONTIERA ITALIANA DEL KOSSOVO
RELATORI


Prof. P. Fumarola
Università di Lecce

Prof. G. Perrone

On. Adriana Poli
Sindaco di Lecce

Don Pippi Colavero
Presidente AGIMI



Dr Peter Gilroj
Direttore del Dipartimento dei Servizi
Sociali della contea del Kent

Prof. Martin Ajre

Prof. S. Di Staso
Presidente della Regione Puglia

Prof. A. Karjagdiu



Prof. Pietro Fumarola:
“Signori e Signore buongiorno, vi informo che il programma della mattinata è stato alquanto modificato rispetto al progetto della tavola rotonda che avevamo previsto. Il professor Di Staso, Presidente della Regione Puglia, è a Taranto per un impegno istituzionale, la visita del Presidente della Repubblica, Luigi Scalfaro, così anche il dottor Raffaele Gorgoni, giornalista di RAI3, che ha dovuto anche’ egli essere in quella città.
La professoressa On. Poli, Sindaco di Lecce, ha garantito la sua presenza, ma non è ancora qui. E’ invece presente la delegazione del Kent che parteciperà ai lavori di questa giornata. Sono partiti i nostri amici serbi e visto l’ orario direi di cominciare dando subito la parola al professor Luigi Perrone dell’ Università di Lecce, che da anni produce con attenzione e dedizione un lavoro con gli immigrati, è presidente dell’ Associazione Provinciale per i Diritti degli Immigrati ed è inoltre responsabile dell’ Osservatorio Provinciale dell’ Immigrazione. Il professor Perrone ci può dire come funzionano i centri di accoglienza qui a Lecce, coloro che li gestiscono non sono venuti: il CTM Movimondo aveva garantito la sua presenza. Avevamo pensato di fare una visita a uno dei centri di accoglienza, ma l’ assenza del CTM, del Vescovo o di un suo emissario, mi mette nell’ imbarazzo di non saper cosa dire sulla situzaione dei centri ed anche sul progetto di una nostra visita.Sarebbe stato interesse comune realizzare un breve incontro con profughi Kossovari. In compenso è presente Don Pippi Colavero dell’ AGIMI Caritas di Otranto, che è la più antica e più consolidata associazione italo-albanese di questo territorio.
La proposta che avanzo è la seguente: dopo aver avuto un breve incontro dalle 16:00 alle 17:30 con il Presidente della Regione Di Staso, si potrebbe tentare di fare una visita in uno dei centri di accoglienza con una presenza forte di profughi Kossovari.
La parola al professor Perrone.”

Prof. G. Perrone:
“Come mestiere faccio il sociologo e la Sociologia mi ha insegnato che ad una domanda già codificata si può rispondere con: Si; No; Non so o Non rispondo. La risposta data codifica l’intervistato; in questo consesso prendiamo atto delle assenze e benevolmente riteniamole dovute ad un deficit d’interesse verso l’argomento del Convegno. Converrete con me e con la metodologia sociologica che anche l’assenza ingiustificata di questi signori è una risposta; la loro assenza è la loro risposta. Tuttavia, per non rischiare di dare una connotazione negativa a queste assenze, aggiungo che in questi ultimi giorni ho avuto modo di partecipare a una serie di Convegni sull’immigrazione, dove qualcuno degli assenti di oggi era presente. Perciò non sono del tutto disinteressati all’argomento, diciamo che hanno un interesse diverso dal nostro. Comunque, se mi è permessa una nota personale, faccio notare che proprio gli assenti di oggi sono iper presenzialisti quando Convegni e simposi sono organizzati da “quelli che contano”.
Bando alle digressioni. Vorrei partire da alcune riflessioni, a cui sono stato indotto - in seguito a recenti incontri sul tema immigratorio - sulla scia delle recenti idee-forza degli intolleranti moderni; idee spacciate per nuove ma, in verità, abbastanza vecchie. Quest’iter credo che mi permetterà di rendere la situazione immigratoria, con relativi corollari, nel nostro Paese.
Prima questione: non è il caso di abbattersi di fronte alla caduta di tono del movimento solidaristico ed alla piega che prendono gli eventi; si perderebbe di lucidità, proprio mentre se ne avrebbe maggior bisogno. Certo, i segnali che ci vengono sono preoccupanti, ma in fondo, a ben vedere, anche in Puglia, come in molte altre parti d’Italia, è in crescita l’attenzione attorno al fenomeno migratorio e al nuovo ruolo che il Mediterraneo può assumere in una prospettiva di pace. Certo, sono in molti a non avere una visione solidaristica, ma questo loro interesse può anche essere tradotto in un’occasione per coniugare immigrazione a pace e progresso; che gli intolleranti continuino a coniugare l’immigrazione con tutti i mali epocali ci ricorda quale sia il loro ruolo, ma non è di questo che dobbiamo preoccuparci, è il deficit d’interesse della fascia solidale che preoccupa, non il razzismo di lorsignori.
Collegata a questa grande questione ed alla situazione locale è la richiesta generalizzata - emersa da tutti gli interventi – di un coordinamento sul territorio sulle tematiche immigratorie. Anzitutto, quindi, un Coordinamento, ossia un lavoro sinergico sul territorio di tutte le forze che lavorano interno a questa tematica; qualcosa che per legge, a livello istituzionale, sarebbe dovuta nascere sin dall’86, ma che ancora – come vedete - si attende; un bel ritardo, non vi sembra? Occasione per creare questo coordinamento delle iniziative sul territorio sarebbero potute essere le “Consulte cittadine sull’immigrazione”, qualcosa che compare nella legislazione italiana sin dall’’86 - data della prima legge sull’immigrazione, la 943 -, ma non in società. La stessa normativa prevedeva il termine di 6 mesi entro cui le Regioni avrebbero dovuto dotarsi di una legge sull’immigrazione; ebbene, come ricorderete, dopo 2 anni, solo 5 Regioni lo avevano fatto, e tra queste non figurava certo la Puglia. Grazie a queste inadempienze istituzionali ci troviamo di fronte ad una serie di norme e diritti che aspettiamo ancora siano rispettati e trovino cittadinanza. Visto che siamo nella terra in cui sulla clandestinità si fanno fortune, suona retorico chiedersi chi sia clandestino? Fa il paio con questa inadempienza quella delle leggi regionali. Avremmo dovuto avere, già da 12 anni, per tutte le Regioni d’Italia, le leggi regionali sull’immigrazione ed allo stato, dotatesi con ritardo, spesso, restano carta morta. Come nel caso della Regione Puglia, dove, la legge regionale, approvata solo nel ’92, con sei anni di ritardo, non è ancora operante, una condizione che permette di operare a braccio e distribuire a pioggia le risorse. Personalmente credo che queste siano tra le principali cause che hanno portato ai ritardi attuali in materia d’immigrazione, colpevoli ritardi che hanno indotto anche uno sfaldamento territoriale della vita associativa, pur attiva, inizialmente, sul territorio. Capirete tutti che delle associazioni attive ed aggregative avrebbero operato maggiore controllo sul territorio ed impedito questo volgari protagonismi. In Puglia, in questa sfera, si sono avute e si hanno centinaia di iniziative, molte lodevoli ed avanzate, ma non lasciano traccia di sé; ciò avviene sia per il normale avvicendamento all’amministrazione della cosa pubblica che per le predette inadempienze, legittimate o tollerate da chi ha fatto dell’immigrazione un business. Una condizione che è condannata a riprodursi se non si pone rimedio. Molte iniziative scompaiono con gli amministratori che le hanno promosse o sostenute, come accade al Comune di Lecce, dove i nuovi amministratori, bontà loro, credono che la storia sia iniziata con il loro avvento al potere. La spocchia e la retorica di questi signori è irritante, ricorda il ventennio, di cui molti di loro ne sono gli eredi culturali. Leggete attentamente quanto hanno dichiarato e fatto. Nel caso leccese le responsabilità si con-fondono, dal momento che gli amministratori, questi come altri, spesso non hanno memoria scritta di quanto è stato fatto dai predecessori, i quali si sono mossi su livelli volontaristici e soggettivi, proprio perché al di fuori delle istanze istituzionali, quelle previste dalla legge, che in tal caso sono le Consulte cittadine sull’immigrazione. Una condizione che ancora oggi permette di operare in forma clientelare, sperperare le risorse pubbliche e creare guasti. E la storia continua, visto che queste benedette Consulte non sono state ancora realizzate, nonostante siano previste anche dalla nuova legge 40/98, che oltretutto offre anche altri strumenti operativi in favore degli immigrati. Ma come si fa ad andare oltre la 943, se ancora molti degli aspetti propositivi delle passate leggi sono lettera morta? Della nuova legge 40/98, in questi giorni, si stanno discutendo gli aspetti applicativi, in particolare quelli dei “Centri di prima accoglienza” e della regolarizzazione degli immigrati sul territorio, ma in queste condizioni immaginiamoci i livelli che riusciremo a produrre. Mi permetto di ricordare che la nuova legge assegna una serie di compiti e di competenze agli Enti locali, che così tornano ad assumere un ruolo centrale in materia d’accoglienza e di servizi, per un auspicabile buon grado di adattamento degli immigrati sul territorio. Se applicata correttamente, la legge 40 potrà essere un primo passo verso una nuova cittadinanza sociale e premessa di successive forme di aggregazione. Un’altra occasione da non lasciar cadere, perciò sarà anche un banco di prova per le amministrazioni locali, vedremo cosa sapranno produrre; il fatto che le leggi ci siano non significa che siano applicate. Gli strati sociali deboli devono difendere con i denti gli statuti, diversamente lo Stato si ricorda di loro solo per reprimerli: come sistematicamente avviene con gli immigrati. Sono sempre in prima pagina per le presunte inadempienze e di quelle dello Stato perché nessuno ne parla?
Badate bene che ho parlato volutamente di cittadinanza perché è nella direzione della cittadinanza che bisogna muoversi; per tanti motivi, ma il principale resta nel fatto che lo pretende l’attuale fase migratoria. La sola azione volontaria – allo stato attuale - rischierebbe di far soffocare l’evoluzione democratica del fenomeno immigratorio e far arretrare la condizione di vita dei cittadini immigrati. Assistiamo, in Italia, ad una grande presenza del volontariato, cattolico e laico, che involontariamente rischia di rinchiudere e far prigioniero il problema immigrazione all’interno della sola solidarietà e, in conseguenza di ciò, far divenire la sua azione inadeguata rispetto ai bisogni che gli immigrati esprimono in questa fase. Se da un lato il volontariato è stato importante, dall’altro, in questo momento, rischia di fungere da involontario freno e d’impedire il passo successivo, quello che deve far coniugare solidarietà con diritti. E’ questo il passo fondamentale che noi dovremmo compiere con la legge 40. Mi sembra doveroso aggiungere che – in considerazione di quanto determinatosi sul territorio – non sarà facile, perché le contraddizioni attraversano le stesse Associazioni che potrebbero contrapporsi a questo cammino. Il passaggio dall’associazionismo “per” a quello “degli” immigrati non sarà facile, essendo divenute molte associazioni auto-referenziali, con apparati da mantenere ed interessi da difendere. Basta vedere quanto avviene nel Salento, dove i Centri di prima accoglienza assorbono interesse e risorse disponibili e riducono il fenomeno immigrazione alla sola sfera congiunturale, cancellando o tentando di cancellare financo la memoria di un fenomeno ormai trentennale. Pensate, così presi ad autoincensarsi non prospettano nemmeno i Centri di seconda accoglienza, a meno che non decidano di aprire un’altra impresa.
Da quanto detto si evince che il modo di affrontare il fenomeno immigratorio, in Italia, ha comportato l’accumulo di gravissimi ritardi, specialmente se consideriamo che avremmo potuto far tesoro delle esperienze altrui, avendo l’Italia vissuto con una trentina d’anni di ritardo questa esperienza. Ovviamente tutto è opinabile, ma per capire il grado di adattamento dei nuovi cittadini sul territorio ci sono delle modalità scientifiche ben collaudate. Per capire questo ritardo basta comparare la condizione di vita e d’esistenza degli immigrai in Italia con quella d’altre parti del mondo; comparazione che potremmo fare anche con l’emigrazione italiana all’estero. Un’operazione che si può realizzare facendo ricorso alla scala di Bohening, che stabilisce le cosiddette fasi dell’immigrazione: in una prima fase, c’è la richiesta di lavoro; in una seconda il ricongiungimento, in quella successiva la richiesta dei diritti, ecc. Discorso valido anche sul piano della soddisfazione dei bisogni, della realizzazione del progetto migratorio, della legittimazione dei cosiddetti “desideri”. Per capirci con un esempio: rispetto al progetto originario di partenza, quanto e cosa hanno realizzato i cittadini immigrati? E volendo fare un parallelo con la nostra esperienza di migranti: nello stesso tempo, cosa realizzarono i nostri migranti? O cosa realizzano altri migranti, nello stesso tempo, in altre parti del mondo? Questo è un modo corretto di confrontare le esperienze e purtroppo la ricerca ci dice che “quanto” è stato offerto ai nuovi cittadini non ci fa onore. Ed a proposito di Istituzioni è ben ricordare che tra i problemi che maggiormente frastornano i nostri migranti c’è proprio il rapporto con le istituzioni: un dramma, un vero dramma per i cittadini immigrati, al punto che è stato coniato un termine ad hoc, “razzismo istituzionale”.
Per quanto concerne i paralleli tra passato e presente si consideri anche l’improprio parallelo tra emigrazione italiana degli anni 50/60 e l’attuale immigrazione; una comparazione che spesso ha indotto in equivoci e portato a conclusioni erronee, semplicemente perché si de-contestualizza il fenomeno e si dimentica che ogni fase storica produce condizioni di vita che la popolazione subisce. I nostri emigranti hanno vissuto la fase dello sviluppo capitalistico “estensivo”, mentre quelli attuali vivono quella “intensiva”. La prima comportava occupazione nel settore primario e secondario e l’attuale nei servizi. Ed è la condizione che hanno vissuto e vivono i migranti: non sono loro che scelgono, loro ereditano la condizione dei Paesi e luoghi d’immigrazione, perciò non si possono addebitare colpe o processi di cui subiscono le conseguenze. Disconoscere ciò porta a cogliere più le distanze che le vicinanze tra le due esperienze; un’operazione tipica degli intolleranti, ma di cui si diventa spesso involontario veicolo anche noi. Quanti di noi hanno sentito dire che “i nostri migranti producevano e lavoravano nelle miniere”, mentre “questi vendono collanine”? Come a dire, noi lavoravamo, loro no. “Che c’entrano loro con noi”? Ebbene, ricordiamoci che la ricerca ci dice che questa è gente che cerca di vivere e spesso sopravvivere. E fugge da condizioni disastrose create dall’opulento Occidente! Vende collanine come lavora nelle fonderie e nelle concerie; ma non deve essere questo il motivo per cui accoglierli, ossia fa quanto noi non vogliamo fare, quindi accogliamoli; o ragionamenti del tipo “pagheranno le pensioni dei nostri anziani” e così utilitaristicamente ragionando. No, queste argomentazioni sono pericolose: devono essere accolti perché è un loro diritto muoversi dove meglio credono; è un loro diritto lavorare là dove possono ottimizzare la loro unica risorsa, la forza-lavoro. E’ questo scorretto modo di porsi di fronte al problema che crea intolleranza e razzismo; che ha portato a “scoprire” il fenomeno immigratorio in forte ritardo; si continua a credere erroneamente che l’immigrazione in Italia sarebbe avvenuta soltanto intorno agli anni ’80, pur essendoci movimenti immigratori sin dalla fine degli anni ’70, di cattolici (filippine e capoverdiane), tramite i circuiti della chiesa cattolica. In verità si credeva il nostro Paese ancora un Paese esportatore di forza-lavoro, mentre da tempo la importava. E così anche gli studi erano orientati verso l’emigrazione, condizione che ha accumulato ritardi nella comprensione e nell’adattamento alla nuova realtà sociale.
Per rimanere nella nostra provincia, pochi sapranno che l’immigrazione nel Salento – come risulta dai nostri studi - è presente sin dal ‘67. Se consideriamo, per riferirci alla scala di Bohening, che ormai, dalla prima fase immigratoria nel nostro territorio sono trascorsi 31 anni, credo che sia difficile considerarla (come succede) un fenomeno recente e con buoni livelli di adattamento; molti dei gradini della predetta scala di Bohening sarebbero già dovuti essere percorsi. Si interroghino tutti, istituzioni ed associazioni: a chi ha fatto comodo questo ritardo. E se volete una punta di cattiveria, aggiungo: chissà quanti dei protagonismi locali che ci hanno deliziato ci saremmo risparmiato, se avessimo permesso ai nuovi cittadini spazi di cittadinanza!
Vorrei fare un’altra considerazione che mi permette d’introdurre un nuovo argomento, quello sull’esclusione, sulla devianza, il cavallo di battaglia degli intolleranti.
Come ben sappiamo, in Puglia come in Italia, il fenomeno immigrazione è abbinato sistematicamente all’“ordine pubblico”; ormai immigrazione/ordine pubblico è divenuto un binomio inscindibile, un tormentone che imperversa durante l’estate, quando – essendo chiuso il Parlamento, risaputa principale fonte d’approvvigionamento dei media – ci deliziano con le più impressionanti nefandezze; un copione ripetuto con tutti i mali italiani: disoccupazione, violenza, carenza di servizi e insicurezze sociali varie; gli immigrati sono gli untorelli del XX° secolo. Un gioco sporco e scoperto, se si considera che nessuno di noi sarebbe così ingenuo da pensare che siano gli immigrati la causa di fenomeni epocali e comunque, molti dei quali antecedenti al loro arrivo; ricordiamoci che loro sono colpiti quanto noi e subiscono le ricadute della situazione pregressa. Quello dell’ordine pubblico, lo sappiamo tutti, è una questione drammatica; una questione che ci coinvolge alla quale vorremmo tutti una “soluzione finale”, ma – la domanda da farsi è –, che c’entrano gli immigrati? Eppure questo stupido e irresponsabile abbinamento è quello meglio riuscito e quello che paga meglio. Ormai credere gli immigrati dei criminali è un luogo comune; quanti ormai sono convinti che in qualche modo c’è un rapporto di continuità tra immigrazione e criminalità? Un commedia recitata non solo in Italia, ma qui è riuscita meglio che altrove per una peculiarità tutta italiana. In altre occasioni e in tempi non sospetti, ho avuto modo di parlare di tara d’origine nella nascita della questione immigratoria italiana. Il motivo è che è stata considerata, quando ancora mancava una legislazione sull’immigrazione, all’interno del TU di PS, come inerente l’ordine pubblico. Ormai anche le nostre contraddizioni sono diventate norma sociale. Ci siamo chiesto perché mai un cittadino straniero debba andare a chiedere il permesso di soggiorno in Questura e non all’Ufficio anagrafe, come fanno in ogni parte del mondo, oltretutto meglio attrezzato?! Eppure il gioco, a cui assistiamo in Italia, è già stato consumato prima in altre parti del mondo, eppure in Italia paga! Perché siamo un popolo di ingenui? Nient’affatto, la questione è nell’informazione che è inadeguata e manipolata. Che le due questioni, immigrazione e criminalità, nulla abbiano a che fare ce lo dice la ricerca scientifica, ma quella non circola, rimane in piccoli circuiti o chiusa nei cassetti, magari del legislatore. Si hanno così le cosiddette due verità: quella scientifica e quella mass-mediale. Mentre la prima è panacea di pochi, la seconda ha grande circolazione e risonanza. A chi fa comodo questa disinformazione? Vedetelo dai nuovi imprenditori politici del razzismo, dalla distribuzione delle risorse o, se preferite, dalle nuove attività sorgenti in cui si hanno dei nuovi professionisti senza titoli. Poi se vi riesce, guardate pure i loro bilanci!
Mi soffermo ora, nell’ultima parte della mia comunicazione, sulle conseguenze dell’uso improprio dei suddetti binomi e della disgiunzione tra solidarietà e diritti: un aspetto delicato e preoccupante se si nota l’intolleranza crescente. In tutta Europa, come dicevamo, questo dibattito risale agli anni ’60, quindi siamo, anche in questo campo, con un trentennio di ritardo. Ma vediamo cosa è successo nella cultura italiana in materia d’immigrazione e razzismo.
Il razzismo moderno, non si presenta più sotto l’aspetto delle differenze biologiche, delle presunte superiorità di una razza sulle altre; non è più la volgarità che si esprime con “sporco negro”; la superiorità non la si cerca più nella misurazione del cranio o dell’asse facciale, come avveniva durante il nazismo e il fascismo: oggi il razzismo è razzismo senza razze. Al termine razza - che va in disuso - si sostituisce cultura, non c’è più la preoccupazione della contaminazione tra razze, ma tra culture; la preoccupazione è la salvaguardia delle culture, ma dietro, in verità, c’è la preoccupazione della salvaguardia delle “culture superiori”, quelle occidentali ed in primis quella bianca europea, naturalmente. Oggi i razzisti moderni prendono in prestito il bagaglio argomentativo degli antirazzisti che si erano opposti alle diverse forme di assimilazione ed integrazione ed all’abolizione delle differenze. Come si ricorderà l’argomentazione degli antirazzisti era quella di rispettare e risaltare le differenze, contro l’omologazione alle culture occidentali praticata dai razzisti; la risposta dei razzisti è stata conseguente: il miglior modo per rispettarle è di mantenerle distinte e distanti. A sostegno di questa tesi il solito bagaglio piagnisteo, quella che l’emigrazione porta con sé dolore e sofferenza, perciò non facciamoli soffrire e lasciamoli a casa loro. Nel razzismo moderno non si fa altro che esaltare sistematicamente le diversità per negare l’eguaglianza; perciò, a ben vedere, alla base più profonda del razzismo moderno riscontriamo la negazione di un rapporto egualitario tra culture che metta in discussione i rapporti di forza esistenti. Da questo punto di vista risalta evidente l’interesse classista e razzista che c’è dietro l’apparente buon senso di quel famoso “aiutiamoli in casa loro”, molto diffuso nel nostro Paese a cultura cristiana; comprenderete che, aiutiamoli in casa loro, differendo il problema, fa presa sulle coscienze cattoliche. Un’operazione ideologica che assume, abusivamente, come scientifico ciò che non è accertato esserlo, cioè che la cooperazione – ovviamente non quella che ha arricchito solo mercanti e politici dei Paesi cooperanti – innescherebbe una spirale virtuosa investimenti/occupazione, tale da frenare l’emigrazione. Nessuno è mai riuscito a dimostrare che con l’aiuto finanziario ai PVS – fermo restando questo modello di sviluppo - si avrebbe una maggiore occupazione. Quindi l’assunto che un aumento degli investimenti funzionerebbe da freno all’emigrazione è scientificamente abusivo; se qualcuno ne ha voglia, senza ricorrere alle tante citazioni scientifiche, c’è un numero monografico di Nigrizia – rivista dei fratelli Comboniani - dedicato proprio a questo argomento, dove si dimostra l’esatto contrario: che a maggiori investimenti ed alla crescita dello sviluppo industriale, nei cosiddetti Paesi del Terzo Mondo, non segue un aumento ma una diminuzione dell’occupazione, perciò aumenta non diminuisce la propensione migratoria.
Vedo in sala qualche perplessità a questa tesi, tra cui la collega Cecilia Santoro, perciò ho il dovere di spiegarmi meglio. Negli studi più recenti è dimostrato che gli investimenti della cooperazione creano sviluppo industriale in settori centrali dell’economia, secondo un modello di sviluppo che non ha nulla a che fare con i Paesi Terzi: sono settori di sviluppo d’interesse occidentale non dei Paesi sottoposti a cura. Attraverso questi settori d’intervento cooperativi si distrugge l’economia tradizionale del territorio e le migliaia di piccole aziende agricole ed artigianali chiudono. Se volete anche una spiegazione del perché si creda il contrario, bisognerebbe puntare il dito contro il modo di fare anche i rilevamenti statistici. Forse aumenterà l’occupazione visibile, quella che non sfugge ai censimenti all’occidentale, ma è l’occupazione invisibile, quella della popolazione dedita alle attività tradizionali (mai rilevata dalle statistiche) che scompare. L’esportazione del nostro modello di sviluppo, dunque, crea disoccupazione; perciò questo tipo di cooperazione - che ci porta a credere che “aiutarli nel loro paese” porterebbe ad un miglioramento della loro condizione e ad una conseguente diminuzione dell’emigrazione - non ha attinenza scientifica. Sic stantibus rebus, prendiamone atto, significa soltanto “facciamoli morire nel loro paese”. D'altronde per demografi ed economisti questa non è una novità, hanno abbondantemente studiato e documentato che ad ogni punto percentuale d’intervento in più o in meno corrisponde un certo numero di morti in più o in meno. Dire “aiutiamoli nel loro paese”, in verità nasconde la preoccupazione più recondita, quella dei razzisti differenzialisti, che negano un rapporto egualitario con altre culture; si vuole così negare l’evidente: che le presenze dei Paesi Terzi mettono sotto accusa gli attuai rapporti di forza tra Nord e Sud del mondo; le loro preoccupazioni e precauzioni tendono ad impedire una politica diversa, per l’innesco di nuovi rapporti di forza e di cooperazione che tutto l’Occidente è chiamato ad assumere verso i Paesi Terzi. Non una politica per i soli Paesi Terzi, ma un nuovo modello di sviluppo per tutto il pianeta in agonia. Le migrazioni del Mediterraneo e in tutte le parti del mondo, sono una visione allo specchio delle politiche errate di tutto l’Occidente, sono una messa sotto stato d’accusa del liberismo, incapace a risolvere i grandi problemi epocali: la disponibilità delle risorse e l’accesso democratico alle stesse.
Allora, su cosa si è fatto perno per creare questo immaginario negativo dell’immigrazione, visto che gli intolleranti sono in crescita? Semplicemente sulle preoccupazioni dell’età moderna, come abbiamo visto; sulle paure ancestrali; sulla paura del caos, che metterebbe in discussione tutto, a partire dalle sicurezze minime, come quella del queto vivere. E’ su queste preoccupazioni che hanno trovato fertile terreno termini ormai di uso comune, sebbene di chiara marca razzista. Si pensi a quell’orribile extracomunitario. La gente, sia comune che colta, continua a dire extracomunitario per indicare i cittadini provenienti da Paesi non appartenenti all’UE; è un termine etnocentrico, se dico extracomunitario un africano dovrebbe chiamarmi extrafricano, un asiatico extrasiatico. La cultura del soggetto a cui faccio riferimento è extra; l’extra decade e diventa cittadino solo dopo che sarà entrato nell’Unione Europea. La cultura dell’UE al centro, tutto il resto è corollario, secondario, quasi abusivo.
Come si sono alimentate queste paure? Per capirlo basta dare uno sguardo alla stampa ed ascoltare criticamente i mezzi di comunicazione di massa. Tutti fanno perno sulla paura dell’invasione. In Puglia il campione da scegliere è molto ben rappresentato. A breve pubblicheremo un nostro rapporto – a cura dell’Osservatorio Provinciale sull’Immigrazione – sul ruolo della stampa locale nella creazione dell’immaginario negativo sull’immigrazione. Un ruolo di rilievo lo ha avuto quello che gli studiosi hanno definito “razzismo colto”, o meglio degli “uomini colti”, quel razzismo diffuso tra i pennivendoli che ha avuto un ruolo di tutto rilievo nella diffusione del razzismo all’italiana. Una questione delicata, in verità, a metà tra opportunismo, ignoranza reale del fenomeno in tutte le sue articolazioni ed effettivo punto di vista. Costoro hanno avuto un grosso ruolo anche in questa città; sono questi signori che sistematicamente chiamano “extracomunitari clandestini” gli “irregolari” dall’Albania o i “profughi” che arrivano sulle nostre sponde dal Kossovo. Per questi colti signori i cittadini in fuga dai loro disastrati Paesi non sono mai cittadini (stranieri, non-comunitari, non europei, o cittadini provenienti dai altri Paesi). No, la dignità della cittadinanza non spetta a chi proviene da mondi distrutti dal civile Occidente. Mi sia però permesso di far notare che questo linguaggio, oltre a connotare negativamente i cittadini non nazionali, non avrebbe nemmeno diritto legale. Da un punto di vista della legalità, di un corretto linguaggio che tenga presente norme e leggi italiane, costoro non sono clandestini, sono irregolari. Clandestino è colui il quale, arrivato in un paese in modo irregolare, e fermato dalla polizia, gli viene notificato un foglio di via, per non aver rispettato le regole sull'immigrazione. Per la legge italiana dovrebbe attraversare la frontiera e ritornare nel Paese di provenienza entro quindici giorni, se nel tempo stabilito non risulta in transito all’anagrafe di frontiera quel cittadino diventa - da quel momento - un “cittadino clandestino sul territorio italiano”. Fatta questa puntualizzazione di non poco conto, ditemi voi, perché mai tutti gli arrivi irregolari in Italia, siano essi per motivi politici che economici, per i media sono solo e sempre clandestini? Abbiamo così tanto fatto l’abitudine a queste bestialità che il senso comune è stato modificato, prova ne sia che non si ribella e trova “normali” queste bestialità; tutto ciò non lo trovate preoccupante? Siamo arrivati al ridicolo: in Italia persino i cadaveri sono clandestini; così titolava la stampa locale: “cadavere di un clandestino kurdo trovato sulla spiaggia”, questa cultura rozza e macabra non la trovate raccapricciante? E notate che dietro questa rozzezza non c’è soltanto, come direbbe Lanternari, disconoscenza; certamente ne troviamo una buona parte, ma c’è anche una un riconoscersi in questo squallore culturale. Come Osservatorio ne abbiamo prova. Abbiamo messo a disposizione i risultati delle nostre ricerche, abbiamo invitato i media ad un linguaggio appropriato, ma non abbiamo avuto riscontro. Non voglio avanzare alcuna ipotesi; ognuno provi a fare le proprie.
C’è a tal proposito l’altra faccia della medaglia, quella dell’altra sponda, di chi sceglie di partire o è costretto a farlo. Allora, come fa uno ad arrivare in Italia in modo regolare? Può un cittadino non italiano arrivare sulle sponde italiane e chiedere asilo politico, come previsto all’Art. 10 della Costituzione italiana? Risposta, No, non può arrivare. Non può, semplicemente perché non ci sono le condizioni per poterlo fare. Non può secondo le condizioni logistiche e le regole vigenti; semplicemente perché non ci sono consolati o ambasciate attrezzati, dove possa espletare i suoi diritti e chiedere asilo politico. Quindi prendiamo atto che in Italia non si può che arrivare in modo irregolare; è facile perciò giocare sull’equivoco e creare preoccupazione e insicurezza nella gente. Come vedete, quell’immaginario negativo che si alimenta ogni giorno o è costruito dall’ignoranza o dalla mala fede. Qua non si tratta di inventarsi nuovi modelli di sviluppo, sarebbe sufficiente creare delle condizioni di praticabilità sulle sponde del Mediterraneo e renderlo un mare di pace e d’accoglienza. Se volessimo trovare risposte credibili per tutti dovremmo semplicemente allargare gli statuti e modificare le norme, creando con le altre sponde rapporti di collaborazione reali e non immaginari basati sul mercimonio che alimenta l’immagine negativa dei Paesi vicini. Che senso hanno avuto gli accordi bilaterali con la Tunisia, con il Marocco o con l’Albania? Per quanto mi riguarda qualcosa come, riprendetevi queste fecce e questo è il prezzo. Che questa non sia una mia cattiveria, purtroppo, è dimostrato dal fatto che non c’è alcun controllo sul rispetto dei diritti dell’uomo da parte di quei Paesi, notoriamente autoritari. Quel denaro, oltre ad alimentare le campagne della destra locale, salda i legami delle fasce sociali fascisteggianti di quei Paesi ed alimenta la repressione (buona parte di quel denaro ritorna nelle casse dell’Occidente per l’acquisto di armi e strumentazione repressiva del dissenso interno). L’unico accordo che l’associazionismo aveva salutato con favore è stato quello fatto con l’Albania in Aprile; a proposito, che fine ha fatto? I due governi - italiano e albanese - avevano firmato un accordo per la creazione di “liste di attesa per il lavoro stagionale” che sarebbero dovute entrare in vigore durante la passata stagione estiva; a voi risulta che quell’accordo sia stato applicato? Perché nessuno parla di queste gravi inadempienze? Posso avanzare l’ipotesi cattiva che di quei tremila previsti nelle mancate liste di attesa qualcuno possa esser morto nel mare Adriatico, nel tentativo di attraversarlo? Ma, si sa, rendono meglio da “clandestini” e da morti, perché di lavoratori stranieri, regolarmente soggiornanti in Italia, non s’interessa nessuno; questi non rendono niente al consenso della falsa coscienza. Quanti di quei tremila della mancata regolare lista d’attesa invece di pagare soltanto 65.000 lire per fare la traversata Valona/Otranto hanno pagato un milione? Perché non si dice chiaro e tondo che il governo italiano è stato inadempiente!? Perché tutte queste connivenze? Dove sono finite le coscienze democratiche di questo Paese? Tutto ciò non è preoccupante per i nostri livelli di convivenza democratica? Non trovate preoccupante questo clima carammelloso dell’Italia? Si tace su questo modo di procedere nell’applicazione della normativa sulla regolarizzazione o peggio sono solo gli intolleranti a farsi sentire; così cresce l’ambiguità e l’intolleranza. Perché non si dice a chiare lettere che questa proposta dei soli trentotto mila da regolarizzare contro i potenziali 300.00 è una buffonata? Perché poi trentotto mila? Non si capisce perché tanti e non quarantamila o diecimila o mille? Quale logica c’è dietro, si può sapere?! C’è una evidente necessità di avere chiari idee e indirizzi, di una politica sull’immigrazione che capisca e dica qual è la portata reale del fenomeno; che dica che siamo di fronte ad un fenomeno strutturale, che non c’è nessuna invasione e tantomeno degli albanesi, che in tutto sono tre milioni e che tre milioni non invadono nessuno. Pensate che ieri a Bari, durante un Convegno sull’immigrazione, il prefetto di quella città, rendendosi conto che tre milioni sono pochi per accreditare un’invasione albanese e che i seicentomila emigranti albanesi, in fondo, sono un numero esiguo - volendo però eludere i numeri - aggiunge che gli albanesi non sono i risaputi tre milioni ma quindici milioni. Un interessante escamotage indicativo di un po’ di cose. Voi sapete che tutti gli studi parlano di “sogno della grande Albania” che apparterrebbe all’immaginario di ogni albanese; un sogno che insegue la riunificazione di tutte le “piccole Albanie”, attualmente appartenenti ad altri Stati. C’è però un particolare: gli stessi studi dimostrano che sarebbero al massimo tra i sei e gli otto milioni, nessuno studio al mondo parla di quindici milioni. Nasce una domanda: come mai sono diventati quindici milioni? Forse quindici milioni invadono un po’ più di sei milioni. E poi il prefetto, nella stessa occasione, aggiunge che non ci sono dati sull’immigrazione; se lo dice lui . . . Un modo come un altro per sfuggire al ridicolo di questa storia creata intorno all’invasione albanese; invece di smentire e porre il problema nella giusta dimensione si allarga il gioco delle ipotesi. Comunque, siccome su questa storia dei numeri si è creato sin troppo allarmismo sociale, quando qualcuno parla di tot milioni di presenze non italiane, fatevi dire la fonte delle affermazioni e le metodologia di rilevamento adottate; a maggior ragione se si parla di irregolari. Ben sapete che questo è stato un altro degli inganni ben riuscito. Si è parlato di presenze di cittadini immigrati intorno ai due o tre milioni, creando allarmismo. L’obiettivo era ed è: dare il senso della mancanza di regole e far pensare all’invasione. Ovviamente quando si parla di invasione la nostra mente corre alle invasioni che tutti noi abbiamo codificato sin dall’infanzia: le invasioni barbariche. Anche questo comunque è vecchio come gioco, basta vedere quanto è successo nei Paesi europei dove l’immigrazione è avvenuta prima che da noi. Quantunque siano gli arrivi, sono sempre molti. Molti e basta. Non si capisce molti rispetto a cosa. Ciò che si da per scontato è: molti è una iattura e pochi è bello. Tant’è che quando si vogliono difendere le presenze, non si chiede perché sarebbero molti, ma si dice subito che non di due o tre milioni si tratterebbe, ma di molti meno. Legittimando così ciò che si vuole negare. Ricordiamoci comunque che in questo caso si scambiano i rilevamenti con le stime. Un serio lavoro per creare un po’ di chiarezza, è stato fatto dalla Caritas nazionale con la pubblicazione del “Rapporto annuale sull’immigrazione”. Ebbene i rilevamenti fatti dalla Caritas nazionale hanno dimostrato che gli intolleranti hanno creato inutile allarme. Nel frattempo, scoperto il gioco, questo ballo dei numeri si è assopito, ma si è passati ad altre argomentazioni che hanno come unico punto di forza l’ignoranza altrui. Per capire meglio il problema delle effettive presenze e dei giochi innescati, date uno sguardo agli altri dati disponibili in Italia, come quelli del “Rapporto Ismu sull’immigrazione”. I due rapporti concordano sul numero delle effettive presenze, compresi gli irregolari. Guarda caso che immigrati regolari ed irregolari rilevati o stimati nei due rapporti sono grosso modo gli stessi e corrisponde anche il numero degli immigrati che ha avanzato richiesta di regolarizzazione, in seguito alla normativa inerente la legge 40.
Certo, è facile creare paure e tensioni su un problema su cui è difficile prospettare soluzioni. La gente è usa avere soluzioni facili e su temi difficili non è facile averle. E’ su questo che si fa perno per alimentare le paure. A temi come l’immigrazione non ci sono “soluzioni finali”. La destra ne propone una facile: fermiamoli, ma – pur volendolo fare – provino a farlo! Giammai in nessuna parte del mondo si è riusciti a porre barriere all’immigrazione. Il fenomeno immigrazione è strutturale; sinché esistono differenziali di reddito tra zone ricche e povere non ci saranno barriere che tengano, le migrazioni continueranno. Il Mediterraneo con popoli senza terra e con gli sconvolgimenti che abbiamo creato è diventato una zona di grandi movimenti. Sono stati tracciati dei confini che non reggono e sono diventati pericolosi con la caduta del bipolarismo. Sono necessarie nuove iniziative e soluzioni, non facili. Questa situazione è stata creata dall’Occidente; tutto l’Occidente ha grandi responsabilità passate e presenti. Nel passato con i confini tracciati secondo le sue esigenze e nel presente con la mancanza di politiche adeguate. Sinché l’Europa non avrà una politica per il Mediterraneo, questo tratto di mondo sarà un vulcano. E non dimentichiamo che siamo seduti su una polveriera. Come lo è il Kossovo, dove si preparano ad uno scontro armato dal futuro fosco e imprevedibile. Ancora una volta nel cuore dell’Europa ci sono i preparativi per una guerra; ancora una volta ha bisogno di svuotare un po’ gli arsenali: l’industria bellica, ancora una volta, dice l’ultima parola. E come se non bastasse eccoli là i corvi locali che disconoscono il vero problema per spostare l’attenzione sui localismi: è il modo più semplice per mercificare la situazione. Nella nostra provincia, i profughi sono dapprima demonizzati e poi mercificati per la misera somma di trenta mila lire quotidiane. E’ un gioco pericoloso, ma rende; non importa se passa attraverso la lacerazione del senso comune.
Se il gioco in sé ha dato i suoi frutti in termini di consenso e risorse dislocate, questo dell’emergenza Kossovo resta particolarmente scoperto e – se non offendo – anche idiota. Se di fronte alla situazione kurda gli scenari possibili restano di difficile individuazione, prospettandosi difficili e di lunga durata, lo stesso non può dirsi di quella kosovara. Per questa terra di confine, da tempo sono stati ipotizzati gli scenari possibili; a seconda delle svolte degli eventi, di quando e come potranno svolgersi le ostilità tra serbi e albanesi varieranno gli stessi flussi emigratori. Malgrado ciò, si è parlato di emergenza: non vi sembra una beffa? Non escludo una buona dose di ignoranza, oltre al consueto opportunismo, ma questa storia è proprio buffa! Come si trova il coraggio di parlare di emergenza di fronte ad un fenomeno previsto in ogni fase? Certo, la forza viene dai risultati, come vediamo, parlare di emergenza paga, con la logica e la cultura dell’emergenza tutto si giustifica, anche un servizio di pessima qualità a trenta mila lire giornaliere. Diversamente, in clima di normalità, bisognerebbe spiegare il perché di quel servizio; in clima di normalità, per svolgere determinate mansioni, bisogna avere delle competenze specifiche, soggette a regole di mercato: quali sono le competenze degli operatori del settore? Ci sono centinaia di volontari che svolgono un servizio; tanto di rispetto per queste persone, ma il problema non è il volontariato, ma la quantità di risorse assorbite e la qualità del servizio offerto. Come OPI abbiamo avuto modo di documentare che le condizioni di vita in questi Centri non sono delle migliori, è possibile migliorarle? Il volontario non pagato può svolgere mansioni che avrebbero bisogno di un’alta professionalità; pur nella sua imprevedibile fluttuazione, gli arrivi nel Salento si prospettano in tempi lunghi, non sarebbe il caso di attrezzare del personale adeguato? Con le risorse riservate alla prima accoglienza, che servizio dovrebbero offrire i Centri? Ma poi, si tratta solo di Centri di accoglienza e non di detenzione? Perché si tace su questa ambiguità e su questa commistione tra pubblico e privato? Ci sono troppi dubbi che nascono, in conseguenza di troppe connivenze ed inadempienze, come i bilanci mai esibiti. Suona sospetto il batter continuamente cassa senza presentare entrate ed uscite e poi presentarsi come benefattori e ripresentarsi all’incasso. Sinchè non ci chiariranno questi dubbi è quasi doveroso sospettare che siano questi i motivi per cui nel Salento si parla solo di emergenza?
Come si vede siamo di fronte ad un fenomeno strutturale e di lungo periodo, sia nella dimensione fluttuaria che stabile; perciò si tratta di governarlo, di improntare politiche adeguate a breve e lunga scadenza. Se per tempo si fosse operato nella cultura della normalità, della programmazione, oggi non solo si sarebbero avuti servizi idonei sul territorio, ma la gente vivrebbe meglio un fenomeno che non minaccia nessuno. Tutto questo frastuono su un fenomeno di transito è totalmente inspiegabile. Ormai non è solo questione di solo sospetto, gli interessi reconditi dovrebbero essere chiari a tutti. Come OPI abbiamo documentato abbondantemente il fenomeno immigratorio in tutte le sue componenti e fasi; è del tutto evidente – anche alla luce delle domande di regolarizzazione presentate – che l’immigrazione politica è solo ed unicamente temporanea, di passaggio, bisogna solo gestire il fenomeno ed attrezzare adeguatamente il territorio. Perciò attendiamo tutti che si ponga fine a questa commedia. Nel Salento bisogna attrezzare non solo Centri di prima, ma di seconda accoglienza e creare subito servizi sul territorio. I ritardi accumulati sono troppi e imperdonabili, se solo si tiene presente che una pretesa emergenza ha spazzato via quanto in dieci anni si era costruito; proprio per questo i disagi conseguenti sono da addebitarsi a quanti hanno taciuto o promosso questa politica; è una politica che ha visto lo scambio tra denaro e consenso: denaro ai Centri in cambio di consenso. Date uno sguardo alle cordate che sistematicamente si esibiscono sullo scenario: ad una dichiarazione del vescovo di Lecce, fa seguito il regolare accostamento di comune e regione. E se non bastasse andate a vedere le esibizioni pubbliche: la cordata è sempre in sintonia. A questo punto rimettiamo ordine, iniziando con il mantener separato il sacro dal profano; che ognuno svolga il suo ruolo al meglio: che il volontariato svolga il suo - che è quello di coadiuvare e non supplire - e svolgere il lavoro con professionalità senza improvvisare; urgono uffici attrezzati, mediatori culturali, centri d’incontro e di preghiera sul territorio e quant’altro la storia degli ultimi anni ci ha indicato. C’è poco da inventare. E soprattutto bisogna operare in trasparenza e nelle regole della democrazia. Gli Enti locali la smettano di agire estemporaneamente, ci sono delle indicazioni legislative, come ho già detto, ed è da quelle che bisogna partire. Un conto sono i “diversi punti di vista” – e su quelli dell’attuale giunta leccese non ci sono dubbi sulla matrice razzista – ed un altro l’agire clientelare. Eppure le ambizioni dell’attuale sindaca potrebbero trovare miglior destino se solo non si facesse guidare da sola smania di potere e dall’ignoranza del fenomeno; la nostra si muove come se dovesse inventare l’acqua calda. Se prendesse atto, fosse anche in termini minimali, che in materia d’immigrazione c’è un’ampia letteratura e non si parte dalla preistoria lei sarebbe un po’ meno patetica e potrebbe dare al Salento il ruolo di ponte tra culture, se solo si sfruttasse la vocazione geografica. Cosa che un’altra persona come il Presidente della Regione Distaso, anch’egli di destra ma informata, ha capito ed ha difficoltà a realizzare a causa sia del basso livello culturale che della cordata di cui si circonda.
In conclusione, si smetta, per cortesia, di parlare di emergenza; l’emergenza se l’è inventata un gruppo di persone interessate ad operare in emergenza; un disastro per la collettività salentina, resosi possibile grazie ad una traballante cultura solidaristica e democratica del territorio. Insomma le forze solidali sono flebili nella difesa dei diritti degli immigrati e di contro abbiamo una destra agguerrita che ha fatto dell’immigrazione una bandiera per sventolarla contro gli immigrati.
Infine, anche per il rispetto degli ospiti d’oltre Adriatico, è doveroso spendere qualche minuto per parlare di un fenomeno che spesso si rimuove: i visti d’ingresso per entrare sul territorio italiano.
Per capire il modo migliore è di andare a visitare le Ambasciate italiane all’estero di quei paesi in cui si richiede il visto. Assisterete a scene apocalittiche: gente che sta a fare la fila dalla mattina alla sera; in quei Paesi si è creata una nuova professione, quella degli “stazionatori”, un mestiere triste ma remunerativo. Sono generalmente giovani disoccupati, spesso facenti parte di piccole organizzazioni, quando non collegate con qualche membro dell’Ambasciata; stazionano in fila, notte e giorno, dietro le Ambasciate. Un comune cittadino, per poter accedere all’Ambasciata deve acquistare il posto da loro, non una sola volta, ma due tre volte, tante ne servono per poter sbrigare una qualsiasi pratica. Si arriva allo sportello e regolarmente si è rimandato indietro, c’è semper qualcosa che non va. Un gioco di nervi duro a sopportare; un inferno. Mi raccontava una madre marocchina che lei era dovuta andare ben quattro volte in Ambasciata per poter avere i documenti necessari per iscrivere i suoi due figli gemelli all’Università francese. La sola entrata per il disbrigo delle pratiche le era costata l’equivalente di un milione di lire italiane: due stipendi di suo marito, preside in un collegio. Per non parlare della cauzione che bisogna versare per poter ottenere visto ed iscrizione universitaria: e poi parlano di cooperazione! Questa è la condizione normale per chiedere il visto d’ingresso in Italia, come in qualsiasi altro Paese dove sia previsto.
Perché credete che si sia ricorso agli scafisti per venire in Italia dall’Albania? Gli addetti ai lavori sanno bene che in una prima fase a Durazzo c’erano dei centri attrezzati per la fabbricazione di passaporti falsi e per ottenere i visti d’ingresso “regolarmente” in Ambasciata. Il passaggio successivo all’uso degli scafi è avvenuto quando passaporti e visti non sono più stati competitivi sul mercato, quando costavano troppo rispetto all’offerta degli scafisti. Non è che questa sia una attività in disuso, ma attualmente è riservata a chi si possa permettere di aspettare anche qualche mese e pagare uno, due o tre milioni per un visto d’ingresso. E’ lecito chiedersi: cui prodest mantenere i visti? Che senso ha conservare quest’inutile e discriminatorio atto burocratico, questo insulto alla pari dignità dell’uomo?
Un’ultima osservazione, collegata a questa buffonata dei visti. Sapete quanto prende un professore universitario in Albania? Sui centocinquanta dollari mensili. Per chi non sappia il livello dei consumi in quel Paese sappia che un gelato costa anche cinque mila lire e un albergo cento dollari a notte. Questo è il progresso che l’Occidente ad oggi ha portato. La domanda che voglio porvi è questa: come fa, con stipendi così poveri, il potenziale migrante a procurarsi il milione di lire per la partenza? Come può procurarsi quel denaro se non deviando o indebitandosi lui e la famiglia sua? Non nasce il sospetto che siamo noi con le nostre politiche inadeguate ed autocentrate a innescare preoccupanti processi di devianza in quel Paese? Capite a cosa è costretto quel famoso clandestino di cui parla la stampa, arrivato in Italia? Capite che la vita sua e della sua famiglia dipende dalla riuscita della sua traversata? Bene, allora bisogna capire anche l’evoluzione del coinvolgimento successivo: quello della disponibilità al trasporto di un borsone con hashish o marijuana. Quando nel 1995, insieme al mio amico Kosta Barjaba andammo ad intervistare gli scafisti di Valona, non esisteva ancora questa figura di giovane con borsone, questo attore viene dopo, proprio in conseguenza di un adattamento al mercato ed alle nuove condizioni. Al giovane, spesso anche minorenne, privo di mezzi, viene garantito il passaggio gratis ed una certa somma, oltre a degli agganci in Italia. Agganci da cui – com’è facile intuire - sarà difficile potersi liberare, qualora lo volesse; comunque il giovane “clandestino” deve qualcosa. E’ una condizione di centinaia giovani, una propensione a delinquere che ci deve far riflettere.
Se analizziamo bene e criticamente il fenomeno questo è un marchingegno da cui è facile uscire, se solo lo si volesse, ancora prima di incorrere nella condizione criminale dei soggetti. A monte, come vedete, c’è una legislazione inadeguata che permette alla criminalità d’inserirsi e tradurla in affare. Basterebbe fare quanto dicevamo per regolarizzare il fenomeno. Nulla di rivoluzionario, solo un invito a decentrare il punto di vista e capire il fenomeno nel suo complesso, non solo guardando l’Italia, ma anche l’Albania e i suoi problemi e dinamiche sociali.
Se riusciamo a fare questo sforzo, sarebbe il caso di farne un altro e capire da dove viene quella droga, da cui gli italiani si sentono invasi. Prima però voglio ricordare che il Salento è uno dei principali produttori di tabacco d’Italia e che il tabacco è molto più nocivo dell’hashish. Proprio il Salento non credo abbia diritto a dire, abbattiamo le coltivazioni d’oltre Adriatico. Ma non è questo tipo di riflessione che voglio innescare, sebbene ne riconosca l’importanza. La questione è che quell’erba la producono diecine di piccoli contadini in rovina, mandati fuori mercato dalle importazioni di ortaggi e prodotti italiani, greci e bulgari. Le loro tradizionali coltivazioni non avevano più mercato e sono stati dei gruppi organizzati – più o meno organizzati e/o criminali, è un gioco che non mi interessa - ad offrire loro i capitali per piantare e in seguito riprendersi il raccolto. Un'operazione intelligente, non c’è che dire. Prima di sparare facili sentenze, ricordiamoci che in una società capitalistica ciò che guida gli investimenti non è l’utilità sociale, ma il profitto. Nella civilissima Europa non si investe forse in armi, essendo più retributive? E non dimentichiamo che questo lo abbiamo insegnato noi agli albanesi, insieme con tante altre belle cose.
Conclusione, questi contadini continueranno a produrre quelle merci sinché non daremo loro l’occasione di produrre qualcosa di altrettanto retributivo. Ma di ciò si preferisce non parlare. Più comodo criminalizzare dei ragazzi, produrre apprensione e lucrarci sopra. E allora permettetemi di essere franco sino in fondo: io ho dubbi su chi sia il vero criminale. Grazie.”

Prof. Pietro Fumarola :
“Era prevista per questa mattina una tavola rotonda con il Presidente della Regione, Di Staso, ma poiché è impegnato a Taranto con il Presidente della Repubblica, il Professor Di Staso sarà disponibile ad un incontro qui con noi, oggi pomeriggio alle ore 16:00. Nel frattempo è arrivata la professoressa Adriana Poli, Sindaco di Lecce, che ringraziamo per la sua presenza ed a cui diamo subito la parola.”

On. Adriana Poli :
“La ringrazio, purtroppo avrò la necessità di dovermi allontanare e quindi non potrò prolungare la mia presenza.
Ho ascoltato con attenzione le cose dette dal professor Perrone e ho preso anche qualche appunto, perché ci sarebbe molto da dire in un dibattito franco, leale, e onesto, che voglia arrivare, mi auguro, a delle conclusioni, in special modo, poi, quando si fanno delle affermazioni e quando si tenta di fare un’ analisi che, comunque, è un’ analisi di parte. Si dovrebbero poi anche indicare delle strade da percorrere e delle conclusioni cui giungere in termini concreti, altrimenti tutto rimane una sorta di petizione di principio.
Parto dal binomio che diciamo è stato censurato e dal discorso che è stato fatto, intorno ad una sorta di ambigua interpretazione della solidarietà, dietro la quale, dice Perrone, esiste esclusivamente il razzismo, un razzismo che non è più un razzismo biologico, ma un razzismo senza razze, perché viene sostituito dalla paura della cultura. Io non credo che ci sia una paura della cultura, credo che da parte degli Stati, che si sono organizzati nel tempo, nei secoli, in un certo modo, che da parte, non delle razze, chiamiamole gente o popoli, che hanno una loro cultura, una loro identità e una loro religione, ci sia una legittima preoccupazione, non di doversi escludere a vicenda, ma di doversi integrare. E’ sul tema dell’ integrazione reale che si misura non la solidarietà o l’ accoglienza pietosa e di facciata, ma l’ accoglienza e la solidarietà reali.
Per essere realisti, io continuo a chiedere a me stessa e lo chiedo anche ai cittadini, se, ciò che si fa in una piccola città come Lecce, sia una accoglienza reale, perché tuttora ci sono dei quartieri, che non oso neanche definire dormitorio, che sono molto peggio di un quartiere dormitorio, dove, in nome e per conto dell’ accoglienza e della cosìddetta solidarietà, si consente che vengano fittati posti letto a quattrocento mila lire al mese, tre volte circa il costo di un visto, mi pare di avere appena sentito.
Personalmente sostengo, che se questo è il modo, Lecce non è affatto accogliente. Lecce specula sulla solidarietà, consentendo che ci siano delle situazioni di disagio morale, sociale ed economico, che possono poi determinare dei conflitti, molto pericolosi, anche in una città che, per sua cultura, tradizione, atteggiamento di tutti quanti i suoi abitanti è spontaneamente solidale, al di là delle indicazioni politiche e delle costrizioni normative.
Esiste dunque, credo, nella situazione attuale, una sorta di soglia della reale solidarietà che non è superabile, per far sì che quella di facciata sia, invece, una vera solidarietà e una reale accoglienza.
Come Sindaco, come primo cittadino di questa città, mi pongo il problema del come e quante persone accogliere effettivamente. Dico effettivamente, perché accogliere non significa mettere insieme, indistintamente ed indifferentemente, dalle quattrocento alle quattrocentomila persone; significa invece avere la capacità di poter determinare nelle città delle condizioni adeguate di qualità della vita. Per evitare di essere razzisti, la qualità della vita, non si misuara su quella del cittadino che tradizionalmente abita nella città, ma su quella che si deve offrire a chi è in condizioni di estremo disagio, perché cacciato dalla sua terra, perché la situazione internazionale, evidentemente, non ha preso a cuore, per tempo e nei modi dovuti, certe situazioni in tante parti del nostro emisfero, non per l’ eccessivo liberismo o forse anche a causa di esso, ma per gli egoismi di una Unione Europea che troppo si è fatta prendere dall’ economia e, molto poco, si è fatta suggestionare dai problemi dell’ emigrazione che riguardano i problemi della reale solidarietà.
Dunque, come primo cittadino, mi pongo il problema di cosa poter fare per creare il minor disagio possibile a chi viene e il minor disagio possibile a chi accoglie, cioè ai miei concittadini e quindi mi pongo la domanda: ho tanti alloggi, non stanze in cui costringere la gente, fino a sei sette e dieci persone, che siano sufficienti per determinare accettabili condizioni di qualità della vita per queste persone, che pretendo di accogliere nella mia città? La risposta attualmente è: “No”.
Allora mi pongo il problema del rapporto con la Regione e, soprattutto, con il Governo nazionale che fa una politica dell’ immigrazione relativa soltanto alla fissazione di un tetto di quota di accessi, che viene regolarmente aumentato con decreti legislativi, che si susseguono, non a distanza di un anno, ma a distanza di tre mesi.
Mi pongo così un secondo problema: se il Governo centrale riesca o meno a garantire, soprattutto in zone di frontiera, com’è la nostra, una situazione reale di accoglienza e quindi se, per dirla in soldoni, mi da le risorse per costruire gli alloggi per l’ accoglienza dei nuovi arrivati, che io non voglio mandar via dal mio territorio, ma ai quali bisogna garantire condizioni di vivibilità.
A questo va aggiunto che, una volta dato loro l’ alloggio, si pongono altri problemi che intendo risolvere. E tanto intendo risolverli - ve lo dico per vostra informazione, perché vedo che evidentemente non si sa - che, personalmente, come primo cittadino, ho destinato un luogo di culto a persone che hanno una religione diversa dalla mia e che fino a questo momento non ne avevano mai avuto uno pubblico. Mi rendo conto che, se in una città ci sono milleottocento persone di religione diversa dalla mia, devo dar loro una struttura, un servizio, perché abbiano un luogo di culto, per incontrarsi e per esprimere anche i loro sentimenti religiosi. Quindi, in questo senso, non credo di aver espresso in alcun modo, non in quanto persona, ma come rappresentante di un’ istituzione, una cattiva volontà.
In merito ai conflitti attuali, al di là dell’ Adriatico, credo che siamo stati tutti incapaci o forse che non si sia avuta la volontà di risolvere quei problemi, lasciando cinicamente che si risolvessero da soli attraverso le forme di pulizia etnica, che non condivido assolutamente e contro le quali mi batterò fino in fondo. Come amministratore di questa città una delle cose che ho fatto, tra l’ altro, è stata quella di far votare un documento di adesione alla campagna “Nessuno tocchi Caino”, contro la pena di morte. Se sono contro la pena di morte, tanto più sono contro la pulizia etnica, che certamente non è un intervento degno degli anni duemila, in qualsiasi parte del mondo si abiti.
Bisogna chiedersi anche, se i danari della cooperazione internazionale siano investiti bene, poiché si elabora sempre un rapporto costi/benefici: lo si fa in una famiglia, in una piccola azienda, perché non farlo in uno Stato? Mi pongo dunque la domanda se i Governi, susseguitisi nel tempo, spendendo centinaia di migliaia di miliardi, ché di questo si tratta, abbiano investito bene ed efficacemente nella cooperazione internazionale. Fare cooperazione internazionale, professore Perrone, non significa creare le industrie, perché, a proposito, si potrebbe dire anche che chi fece la Cassa per il Mezzogiorno d’ Italia progettava una industrializzazione, mai realistica, nè realizzata che in forme distorte, poichè non era certamente legata alle nostre naturali risorse, volontà, espressioni, capacità, territorio. Anche in questo caso sono stati soldi sprecati.
Dunque possiamo dire, diciamolo tutti e non solo come discorso di parte, che i danari della cooperazione internazionale sono stati sprecati malamente, per far cosa, poi? Se tutte le organizzazioni sorte su territori, come quello albanese, sono tutte o solo in parte organizzazioni che funzionano o se invece sono, molto spesso, troppo spesso, organizzazioni che attingono danari dai diversi Governi e che non danno una ricaduta, un ritorno in termini di utilità non economica, ma sociale. Se si investe in cooperazione in Albania, non immagino che una fabbrica di scarpe, sottratta al territorio pugliese e portata in Albania per affamare la gente di là, sia un investimento utile. Non lo immagino minimamente, tanto che mi adopererei invece per evitare che il territorio salentino venga a sua volta spogliato di una fabbrica, anche in considerazione del fatto che gli aiuti dello Stato a quel territorio sono stati interrotti, causando un impoverimento della sua economia. Questa condizione di crescente disagio economico impedisce, oltre tutto, di determinare quelle condizioni reali di accoglienza verso altri popoli di cui ho detto prima.
Mi preoccuperei in definitiva di vedere se la “carità pelosa”, che vado a fare in Albania, sia quella di impiantare una fabbrica, per farvi lavorare i bambini albanesi a cinque lire, senza fare inoltre né opere di educazione, né di carità, nè di solidarietà, nè d’ investimento.
E’ necessario, quindi, rimodulare la cooperazione internazionale ponendosi la semplice domanda: è utile mandare una fabbrica di scarpe o è più utile insegnare agli albanesi a coltivare la loro terra? Premetto che quando sono andata in Albania per vedere e sapere, con la curiosità di chi le sta di fronte, che cosa accade al popolo al di là del canale d’ Otranto, mi sono resa conto che originariamente, sia pure durante un regime economico che non condividevo e non condivido, quel territorio aveva una sua organizzazione per cooperative. Col governo Berisha, invece, si è tentato di avere un altro tipo di organizzazione e a me, come cittadino del mondo, è dispiaciuto vedere che, in Albania, c’ erano terreni coltivati a terrazze abbandonati, che comunque avevano richiesto un impegno economico, sia in termini di risorse finanziarie, che in termini di risorse umane. L’ agricoltura, che è una delle potenzialità del territorio albanese, aveva ricevuto incentivi, per le arance, ad esempio, che marciscono sugli alberi e per terreni che non si coltivano più.
Tutto ciò mi pone un problema: se non sia più utile mandare qualcuno in Albania che insegni a coltivare la terra con i nuovi sistemi competitivi con i grandi produttori del mondo.
Quando i nostri emigranti andavano in Svizzera con le valigie di cartone, ci andavano anche con le lacrime agli occhi, perché volevano ritornare nella loro terra portando il frutto del loro lavoro; non credo che un albanese sia diverso da un meridionale che andava in Svizzera. Penso che un albanese ami, come tutti i cittadini che nascono in un luogo qualsiasi del mondo, rimanere nella propria terra per vivere con le proprie abitudini, religione e cultura, con la propria famiglia e il proprio modo di essere. Perché non creare per questa gente le condizioni che consentano loro di restare nel proprio paese; perché bisogna attrezzarsi qui, nella nostra terra, per tentare di governare malamente un fenomeno, come quello migratorio, che è una sorta di nuovo esodo biblico?
Non mi interessa più di tanto sapere se sono tre milioni o venticinque, sono comunque milioni di persone che si trovano in condizioni di estremo disagio nella propria terra sia essa l’ Albania o il Kossovo o qualsiasi altro paese. E’ tanto forte il desiderio di appartenenza e d’ identità degli albanesi del Kossovo, che si sono fatti le loro scuole: sono dunque razzisti se vogliono le scuole albanesi, un loro sistema sanitario? Gli albanesi, come tutti i cittadini del mondo, vogliono avere una loro identità. Sono il 90% della popolazione del Kossovo e vogliono anche sapere se, stando lì, possono avere le loro scuole e il loro sistema sanitario. In qualche modo è stato loro concesso, allora mi guarderei bene dal lanciare accuse di razzismo che nascondono, invece, l’ incapacità di affrontare in termini seri e profondi un problema dinanzi al quale siamo stati tutti incapaci di dare delle risposte adeguate. Oggi noi non stiamo affrontando un problema d’ ordinaria amministrazione, stiamo affrontando un’ emergenza dovuta all’ incapacità di affrontare per tempo un conflitto ed un processo. Ci troviamo dinanzi all’ incapacità di gestire, in modo civile, il fenomeno della seconda e della terza accoglienza. Abbiamo i containers ad Otranto, forse abbiamo dieci case con persone volenterose e brave, ma successivamente non avremo la possibilità di determinare sul nostro territorio condizioni reali affinché questa gente vi possa permanere in condizioni di vita accettabili. Grazie”.

Prof. P. Fumarola :
“Ringraziamo il Sindaco, Prof.ssa Adriana Poli, e vorrei dire qualcosa in merito alle cose dette. Abbiamo già discusso nel corso di questo incontro delle ONG e dei loro limiti. Rispetto al conflitto armato in Kossovo, bisogna dire che non era solo prevedibile: era annunciato, certo, garantito. Anche i disordini in Albania non erano solo prevedibili, ma quasi organizzati, costruiti da una politica estera che, per quanto ho capito, negli ultimi anni è stata un disastro e lo è ancora e mi riferisco alla politica estera italiana ed a quella europea. In un certo senso qui, in questo incontro, siamo arrivati ad una convinzione più o meno comune che la politica della cooperazione e quella delle ONG e la gestione amministrativa di tanti denari non garantisce nè la qualità della spesa, nè offre un riscontro in termini di benefici di ordine socio-culturale, di prevenzione dei conflitti ecc. . Se ne è discusso il primo giorno con l’ intervento di Alberto L’Abate. Abbiamo detto che le ONG in grado di fare prevenzione dei conflitti sono pochissime, si contano sulle dita di una mano.
La politica estera italiana ha sbagliato tutto con l’ Albania, è stata un vero e proprio disastro, ricordo qui che la marina militare italiana ha affondato una nave di poveri profughi disgraziati, che fuggivano da una guerra. Di tutto ciò non si conoscono ancora i risvolti giuridici, certamente la responsabilità di quel disastro dipende dalle filosofie che orientano la politica estera dei governi. Indubbiamente ci saranno delle responsabilità nelle modalità di azione che hanno portato ad agire in modo così inopportuno, di notte, con il mare mosso nel Canale d’ Otranto. Mi vanto di essere un marinaio, mi diverto molto ad andare in barca a vela e vi confesso che il pensiero di quella notte mi riempie ancora di dolore e di vergogna, perché posso immaginare cosa significhi vedersi addosso un mostro come quello che ha speronato la bagnarola dei profughi e sentirsi affondare.
Questa impostazione delle politiche dell’ immigrazione porta, per chi volesse fare un brutto calcolo che è quello dei cadaveri e di chi li lascia in mare, come in questo caso, vorrei offrire un dato che mi ha colpito e che ricordo con precisione, la notizia fu data da un telegiornale della RAI 2. I morti nell’ Adriatico in un certo periodo dell’ anno scorso, sono stati cento solo per quell’ incidente provocato dalla marina militare italiana, un numero di morti ben superiore a quello attribuito alla responsabilità dei viaggi clandestini ed in ultima analisi alla criminalità degli scafisti.
In merito alla questione dei profughi e dei loro diritti e delle operazioni italiane all’ estero ritengo che noi siamo in mano ad una politica estera pericolosa ed avventurosa, lo dico con molta franchezza, perché è italiana la responsabilità maggiore di tutto ciò che è accaduto in Albania. Ricordiamo tutti le avventure dell’ Ambasciatore Foresio e la spettacolarizzazione televisiva della crisi albanese e del disastro di cui in qualche modo siamo corresponsabili”.

On A. Poli :
“Vorrei aggiungere qualcosa, che avevo dimenticato di dire al professore Perrone. Per la consulta dell’ immigrazione abbiamo chiesto, come amministrazione comunale, alle associazioni di candidarsi alla consulta stessa, perché non esiste ancora in questo momento. Inoltre abbiamo anche riaperto i termini fino alla fine di dicembre, perché, nonostante le avessimo già invitate a candidarsi, le associazioni non sono state particolarmente sollecite Questo accade non solo per l’ immigrazione, ma anche per tutte quante le altre consulte, che pure sono previste nello statuto comunale e che non sono mai state attivate.”

Prof. Pietro Fumarola:
“Ha chiesto la parola Don Pippi Colavero, che, come è accaduto per l’ assenza del professor Oberg, non è relatore annunciato di questo incontro solo per una nostra incapacità e difficoltà organizzative, quindi per questo siamo doppiamente grati della sua presenza.”

Don Pippi Colavero, Presidente AGIMI :
“Saluto tutti e ringrazio dell’ opportunità di intervenire in questo dibattito. In verità, avendo letto il programma del seminario e non avendo potuto partecipare nei giorni precedenti, ero venuto con un interesse e un’ attenzione, che non era quella rivolta ai centri di accoglienza, ma a ben altre dimensioni. Vorrei esprimere dei pensieri e delle riflessioni in poche parole e poi rimango a disposizione per il dibattito.
La prima riflessione: 1993, Albania, Valona, campo di lavoro internazionale, partecipa Don Valentino Salvoldi, l’ Agimi propone a Don Valentino una visita a Pristina nel Kossovo, perché lo fa: non perché siamo più bravi, ci mancherebbe altro, ma perché, tra i nostri collaboratori e i nostri consulenti culturali e scientifici, avevamo una persona che aveva insegnato per sette anni albanese all’ Università di Pristina e poi ne era stata espulsa, pertanto ci sembrava opportuno richiamare l’ attenzione su quell’ area geografica e sui problemi ad essa connessi. Da quella iniziativa partì la Campagna per una soluzione non-violenta nel Kossovo, all’ inizio avviata con il MIR e poi coordinata con Pax Christi e con i Beati i Costruttori di Pace che volentieri qui vedo; per motivi nostri organizzativi e per scelta, a questa Campagna abbiamo dato un sostegno puramente culturale e qualche volta economico, non abbiamo partecipato alle fasi successive, per cui, in questo momento, anche il nostro nome e il nostro logos non compare, ma sono cose che succedono. Perché dico questo, perché sono d’ accordo con l’ analisi che è stata fatta, il Kossovo non è un’ emergenza, del Kossovo, noi ad Otranto abbiamo avuto esperienze terribili, la Serbia ha favorito la fuoriuscita di decine di migliaia di giovani dal Kossovo, che hanno usufruito di uno status internazionale, negli anni 94/95, che permetteva loro di entrare in Italia senza visto, in forza dei trattati di Osimo; pertanto, sui traghetti di Otranto passavano migliaia e migliaia di Kossovari, a differenza degli albanesi, che poi raggiungevano la Svizzera e la Turchia o rientravano dalla Svizzera e dalla Turchia, questo fenomeno è durato fino a quando gli albanesi stessi non si sono accorti che, anche loro, potevano fornirsi un documento kosovaro e cominciare a passare. Percui negli ultimi anni molti albanesi sono passati con documenti, non certamente Kossovari. Su questo fenomeno noi abbiamo tentato di riflettere, abbiamo fatto le nostre osservazioni e le abbiamo inviate a chi di dovere, abbiamo partecipato a delle mobilitazioni e opere di sensibilizzazione dell’ opinione pubblica, ma purtroppo non se ne fatto nulla e condivido l' analisi e i giudizi del professor Perrone.
Seconda osservazione: Agimi, parlo qui solo ed esclusivamente a nome di Agimi e a titolo personale come presidente Agimi , ritiene oggi che il problema del Kossovo, dei Balcani e dell’ Albania sarà un problema affrontato in ritardo e in maniera, secondo me, parziale, se non verrà inserito nel problema Mediterraneo. Mi rendo conto che questo tema avrebbe bisogno di ben altre sedi, noi abbiamo tentato di farlo nell’ estate scorsa in Settembre, con il primo meeting dei giovani che abbiamo intitolato “Giovani per un’ Europa mediterranea” ; credo che sarebbe interessante aprire questo dibattito proprio in questa sede, che è la sede della ricerca scientifica: l’ Europa, l’ Europa di Maastricht, l’ Europa alla quale noi stiamo pensando, l’ Europa nella quale siamo entrati e pensiamo, come dicono alcuni, di non rimanerci. Per noi l’ Europa che sta nascendo è un’ Europa già vecchia che non serve molto.
Vado veloce su questa riflessione, perché ne voglio aggiungere un’ altra e mi dispiace che il Sindaco di Lecce sia andata via, mi riferisco alla questione dell’ accoglienza. A nostro parere, il problema non è più un problema di accoglienza, ma è un problema di politica economica e più in generale di politica internazionale.
Ho letto con molto interesse in questi giorni un dossier su Parigi dal titolo “Parigi non è più bianca”, lo dice chi ha vissuto per quindici anni a Parigi e adesso è tornato nella propria patria, allora io dico che in un certo senso il problema è sì, proprio nell’ economia, - scusate la frammentarietà dell’ intervento, perché non pensavo di intervenire -.
Il problema, secondo me, è posto male, ho avuto il piacere di leggere alcune annotazioni del titolare della cattedra di demografia dell’ Università La Sapienza di Roma, il quale dice che “i non italiani” o gli immigrati in Italia sono pochi, prepariamoci, perché gli immigrati in Italia saranno molto più numerosi, anzi gli immigrati in Italia gli andremo a cercare e non dovremo forse preoccuparci di accoglierli, perché dovremo invocare che vengano. Quali sono i dati ai quali fa riferimento questo professore per dire che gli immigrati in Italia sono pochi, un dato è stato citato qui, le stime più esagerate parlano del 2% di immigrati in Italia, mentre in altre nazioni sono già il 4, 5, 7% e sono nazioni europee.
Il problema è demografico ed economico produttivo. È demografico, perché l’ Italia è a tasso di natalità zero, anzi al di sotto dello zero, dunque il problema sarà rilevante da questo punto di vista. Molte scuole a Milano, Torino, Napoli e Roma registrano una percentuale di bambini, figli di immigrati, che qualche volta superano la percentuale dei bambini italiani presenti.
Ma, c’è di più e credo, che su quanto sto per dire dovremmo riflettere, avendo anche a disposizione una sede scientifica del sapere, qual è l’ Università di Lecce, e cioè che il problema dell’ immigrazione - lo dico con una battuta - purtroppo non lo risolverà nè la politica, nè la chiesa, ma lo risolveranno gli imprenditori, perché conosco già imprenditori toscani, del bresciano o del Veneto che, nelle loro fabbriche, ricevono lavoratori irregolari e nel giro di poche settimane o di pochi giorni, con il consenso delle istituzioni e non solo della Questura, risolvono il problema della regolarizzazione. Molti posti di lavoro, in Italia, non sono più occupati dagli italiani e saranno occupati dagli immigrati.
Concludo con due battute, la prima, che sostengo ormai da anni, è che dal porto di Valona potrebbero partire ogni Lunedì almeno cento donne albanesi che possono venire nel Salento a lavorare e tornare il Sabato a Valona, a vivere il fine settimana con le loro famiglie. Che cosa farebbero queste donne? Quello che fanno già, non so se cento, il professor Perrone potrebbe dirmelo con più esattezza, forse duecento e forse di più, assistono gli anziani, perché a me, come segreteria dell’ Agimi, arrivano continuamente telefonate di richiesta di disponibilità. Certamente mi chiederete: “Come lavorano, con quale contratto di lavoro, a quanto?”. Questi sono i problemi da affrontare mi pare; mi permetterei di dire al Sindaco di Lecce che, forse, non deve preoccuparsi neppure di costruire gli alloggi, perché altrimenti sostituisce la Caritas e sostituisce le associazioni non governative.
Bisogna invece affrontare il grossissimo problema di un economia e di una società che ha bisogno. Dobbiamo dircelo, dobbiamo cominciare a dire che gli immigrati sono pochi in Italia, l’altra sera c’è stata una trasmissione sulla quale avevo qualche dubbio e c’è stato anche chi dice che nella propria industria, nel napoletano, girano millecinquecento cinesi, certamente clandestini, sommersi, però sono questi, caro professor Fumarola, i problemi da affrontare, per dare dignità agli italiani, che vogliono continuare a produrre e agli immigrati che vengono qui, forse a dare una mano all’ Italia e non a chiedere l’ elemosina. Grazie”.

Prof. P. Fumarola :
“Vorremmo che intervenissero il dottor Peter ... che è Direttore del Dipartimento dei Servizi Sociali della contea del Kent e Martin .. per avere un loro punto di vista su questi problemi."

Dott. Peter Gilroj
"Signor direttore buongiorno. Perché la contea del Kent si trova qui oggi? Innanzitutto vorrei ringraziare il Presidente Di Staso e Don Colavero che ieri ci ha dato delle informazioni molto interessanti su come funziona il suo lavoro.
Il Kent è una regione molto grande a sud-est dell' Inghilterra, dove si trova il porto di Dover, che, annualmente, è attraversato da circa 20 milioni di persone. Abbiamo anche a poca distanza gli aereoporti di Heathrow e di Gatwick. Il Kent ha una popolazione di circa 1,5 milioni di persone.
I servizi sociali di cui sono responsabile, ora hanno anche la responsabilità delle persone che arrivano al porto e chiedono asilo.
Lo stile delle presentazioni di questa mattina era molto interessante ed il mio stile, forse, è per voi un po' più noioso, tenterò di attirare la vostra attenzione cercando di essere più veloce.
Se guardiamo al crollo dell’ Unione Sovietica e ai problemi dei Balcani, che risalgono senz’ altro a molto prima che io nascessi, ci sembrerà chiaro che l’ instabilità sarebbe stata prevedibile e quindi l’ emergere dei problemi dei quali soffrono attualmente queste popolazioni. In un certo senso mi sento deluso, come persona nata dopo la guerra mondiale, perché ancora non abbiamo risolto, come comunità internazionale questi problemi; mi sento molto frustrato, quando sento che accadono vicino a noi cose, che non avrei mai potuto immaginare come concepibili negli anni ‘60 e ‘70. E’ un momento di grande tristezza per me come Direttore dei Servizi Sociali nel Kent assistere alle conseguenze dell’ instabilità, non solo in Kossovo e Albania, ma in tutta l' Europa orientale; noi ora ne subiamo le conseguenze nel Regno Unito.
Se tutti abbiamo ben chiaro un modo umano per affrontare questi problemi io non lo so, quando guardo ai governi, alla Comunità Europea, ai modi in cui noi stiamo lottando per piegare questi movimenti di popolazioni e poi sentiamo le cose che ci sono state raccontate questa mattina: di persone che vengono spostate come degli schiavi, un mercato di corpi umani che attraversa una democrazia occidentale e il governo non riesce a trovare il modo di risolvere il problema.
Nel Regno Unito, il precedente governo conservatore, cambiò la legge sull’ immigrazione: per la prima volta escluse l' assistenza verso le persone che chiedevano asilo al porto di accesso del paese. Due o tre anni fa, le amministrazioni locali come la mia, non erano coinvolte nell' assistenza alle persone e alle famiglie che chiedevano asilo e assistenza nel porto di arrivo.
Questa legge è cambiata e adesso i governi locali devono prendersi le loro responsabilità, devono occuparsi delle persone che chiedono asilo a differenza del sistema italiano. Noi, dei Servizi Sociali della Contea del Kent, spendiamo ciraca tre milioni e mezzo di sterline all' anno solo per le persone che chiedono asilo a Dover e in altre due piccole cittadine; sono circa 4.000 le persone che hanno chiesto asilo e questo è per noi veramnete un grosso problema.
Il motivo percui siamo qui è di cercare di avere informazioni sul modo in cui in Italia state gestendo questi problemi. Era molto interessante ascoltare il sindoco e le tensioni fra le associazioni di volontariato, la Chiesa, i diversi punti di vista e il Governo centrale. Non è diverso nel Regno Unito e ve lo dico, certamente è un paese dove la situzione è meno tesa e difficile, sono d’ accordo su quello che ha detto don Colavero che, alla fine, in un certo senso siano le persone a fare in modo che le cose accadano, non è mai il governo che riesce a gestire i problemi.
Negli ultimi due anni, abbiamo avuto un forte afflusso di Kossovari e di albanesi nel Regno Unito, ci troviamo dinanzi ad un dilemma e, questa mattina avrei voluto porre questa domanda: “Come si distingue un albanese kosovaro da uno d' Albania? E' una cosa molto interessante, perché da noi si ottiene un certo tipo di trattamento, a secondo di come uno si dichiara: se albanese del Kossovo o d' Albania. Gli albanesi d’ Albania avranno uno status diverso in Inghilterra rispetto ai Kossovari. Noi abbiamo accolto delle famiglie e non abbiamo, certo, una crisi come la vostra, però, a me, sembra davvero una crisi perché la devo risolvere io; se avessi avuto io 25.000 persone al porto di Dover, l’ avrei considerata davvero una crisi, un’ emergenza, senz’ altro una crisi operativa.
Nel Kent, quando accogliamo persone, trasformiamo i servizi sociali normali in servizi speciali, che poi ritornano ad essere servizi normali una volta che si supera la fase di crisi. Certo non possiamo più continuare così, non possiamo continuare ad aprire i nostri centri diurni e di prima accoglienza e trasformarli in servizi specifici agli immigrati che chiedono asilo.
Quindi siamo venuti qui, per vedere come l’ esperienza italiana ci possa aiutare per ripensare, da un punto di vista culturale e religioso e dal punto di vista della specifica condotta professionale, a quale sensibilità avere nell’ affrontare i problemi di ordine pubblico.
Qui abbiamo incontrato la vostra polizia, anche da noi sono coinvolti i poliziotti. La differenza che noto è che noi, nel Kent, abbiamo un rapporto operativo molto stretto con i nostri colleghi della polizia, che prima di tutto non sono armati e credo che questo cambi molto la situazione. In Inghilterra abbiamo un ottimo rapporto di collaborazione con la polizia e questo, naturalmente, rende diversa l' impressione che i profughi hanno quando arrivano, ma avendo risolto ciò, il governo ha ancora delle grosse difficoltà a prevedere quali saranno le conseguenze a medio e lungo termine. Ci appare chiaro quando si guarda alla Russia. Noi abbiamo avuto, per esempio, grossi afflussi di persone dalla Repubblica Ceca, adesso arrivano gli albanesi e i Kossovari.
Il Governo, attualmente, sta cercando di affrontare un tema fondamentale nel Regno Unito, quello dell’ accoglienza permanente, cioè dove trovare lavoro, come affrontare i temi socio economici per questi nuovi arrivati. Questi non sono problemi che possono affrontare solo i politici, perché è a livello di Contea e di Città, qui da voi di Regione e di Comune, che vanno affrontati, non possono essere gestiti solo da Londra o da Roma. Ci deve essere dunque una collaborazione fra i governi locali e il mondo privato economico, industriale, commerciale, anche una sensibilizzazione per quanto riguarda le abitazioni. Negli anni '50, quando molti degli abitanti dei Caraibi vennero a vivere nel Regno Unito, trovarono lavori sottopagati, erano dei lavori che gli inglesi non facevono molto volentieri, ne abbiamo portato le conseguenze per trent' anni. Quindi i problemi che il Governo dovrebbe raccogliere in particolare per le popolazioni che desiderano rimanere in Inghilterra sono in primo luogo: l' istruzione; secondo: la lingua, che da noi è molto importante; terzo: come assimilare e trovare un equilibrio tra le esigenze dei nuovi arrivati e quelle della comunità indigena, che si preoccupa per le loro richieste di abitazioni e di lavoro.
Nel Regno Unito, la popolazione etnica di minoranza è più del 7%, mentre in Italia si aggira attorno al 2%, ma non si può generalizzare, perché se voi venite nella parte nord-occidentale del Kent abbiamo delle popolazioni multiculturali, invece se venite dove siamo noi, a Dover, per esempio, non c’è nessuna popolazione di minoranza. Quindi avere 4000 nuovi arrivati che non parlano bene l' inglese, che camminano per le strade a gruppetti, che cercano di auto-aiutarsi e noi aiutiamo loro, pone la popolazione locale in una condizione di crescente difficoltà. Abbiamo già delle organizzazioni neofasciste in Inghilterra, che vengono fino a Dover anche per destabilizzare ulteriormente questi problemi.
Credo che ciò che ho visto in Italia ed , in particolare in Puglia, è che voi italiani avete una storia, un rapporto con l' Albania cosa che ho trovato molto interessante, non lo sapevo prima di venire. Da questo punto di vista, gli italiani di questa parte d’ Italia, forse hanno una visione più approfondita, più chiara, sono più consapevoli dei temi culturali che bisogna affrontare con le popolazionii Kossovari, gli albanesi.
Spero che questa esperienza, questo nostro viaggio, mi aiuti a capire e poi a riapplicare ciò alla nostra realtà; forse sarà un piccolo sassolino gettato nello stagno, che forse influenzerà piano piano il Regno Unito, poi Bruxelles e forse tutti insieme, gradualmente, affronteremo in modo più serio e più approfondito questo problema, che credo sarà fondamentale per i prossimi quattro o cinque anni. Grazie.”

Prof. Martin Ajre
“Buongiorno. Vorrei solo elaborare alcuni dei punti che Peter ha già sollevato. Credo di poter incominciare così: son stato molto interessato a sentire un dibattito sulle responsabilità di chi avrebbe dovuto fare che cosa, per quanto riguarda il Governo italiano, ma non è una questione che riguarda solo il Governo italiano o solo il Governo inglese è una questione che deve essere affrontata a livello di Unione Europea, perché molti dei problemi che voi avete sono simili ai nostri. A me sembra che la realtà sia, a livello europeo, una politica traballante se non addirittura caduta del tutto.Questo è il mio primo punto.
Alcuni dei temi, dei quali siamo dovuti divenire esperti, ci erano sconosciuti fino a due anni fa; improvvisamente, dal nulla, abbiamo dovuto cogliere delle nuove responsabilità, fornire il sostegno finanziario e l’ assistenza alle persone che richiedevano asilo e arrivavano nel Kent. Non siamo diventati degli esperti, ma negli ultimi due anni abbiamo fatto passi da gigante.
Credo che dobbiamo riconoscere che l’ origine di tutto questo fenomeno, di cui ha parlato Peter, non voglio qui parlare della realtà del razzismo, ma voglio solo dire che il razzismo esiste e che il ruolo che noi abbiamo, il nostro compito nello svolgere le nostre responsabilità è un compito che dobbiamo svolgere contro lo sfondo del razzismo Naturalmente tutti deploriamo il razzismo, ma ciò che mi preoccupa è che quando i Servizi Sociali del Kent danno aiuto agli asilanti, non informano la popolazione sui mali del razzismo, in modo da non offendere gli elementi xenofobi della popolazione.
Credo che l' altro aspetto di questa questione sia il ruolo dei mezzi d’ informazione.
Peter ha fatto riferimento alle crisi, credo che la crisi peggiore che si è avuta nel Kent è stata, un fine settimana, quando tutti insieme sono arrivati 150 Rom dalle Repubbliche Ceca e Slovacca. Non sono 25.000 come da voi, ma per Dover e per noi è stato veramente un momento d' emergenza.
Il ruolo dei mezzi di informazione, invece, francamente, è stato di ingigantire il problema ancora di più e quindi hanno creato ulteriori problemi, che sono preseti sino ancora oggi.
Chi richiede asilo viene descritto come un criminale, un indesiderabile, come persone che vengono nel Regno Unito per fare soldi. Questi sono i titoli dei giornali del Regno Unito e ciò, naturalmente, rende più difficile a noi fornire servizi d' assistenza, perché anche i nostri dipendenti vengono offesi e insultati per il lavoro che fanno.
Il motivo principale per cui siamo qui in Puglia è: che è importante fornire servizi culturalmente adeguati, rispettando le credenze religiose, le tradizioni alimentari e familiari, di cui non conosciamo niente, perché non ci sarebbe niente di peggio che l' accoglienza di questi immigrati, fornisca, ad esempio, un sandwich che contiene carne di maiale ad un musulmano.
Il rovescio della medaglia è che il sistema della richiesta d' asilo nel Regfno Unito è spesso abusato. La storia della migrazione è la storia della razza umana. Le persone, come hanno sempre fatto, continueranno a cercare di spostarsi verso terre diverse dalle loro terre d 'origine per tutta una serie di motivi. Uno di questi, sarà di scappare dalla persecuzione, poi ci saranno quelli economici e anche altri motivi.
La realtà è che, noi crediamo o perlomeno credo che in tutta Europa si pensi, che molte delle persone che cercano di arrivare in Europa lo fanno per ragioni economiche ben comprensibili, non facciamo grosse discussioni su questo, credo che lo si possa dare per scontato. Ma la realtà è che mentre la legge sull’ immigrazione in Bretagna è centrata sul miglior deterrente contro l’ immigrazione, in effetti c’è la convenzione per i profughi, quindi con la nostra legislazione si danno diritti a chi chiede asilo e cerca sicurezza e protezione nel nostro paese. Questo deve essere garantito per legge nel nostro paese, ma questo sistema è adesso abusato da moltissime persone che invece cercano di entrare nel nostro paese per altri motivi. Speriamo per il 2.000 di poter cambiare la legge, per avere nel nostro sistema un modo di risolvere i problemi delle altre persone.
L’ altro modo in cui viene abusato il sistema e, qui, ritorno al primo punto, è un problema a livello europeo, che resterà tale, finchè i paesi europei, non agiranno in modo coerente, con un’ impostazione comune, contro il traffico di merce umana, che avete visto in Puglia.
Vorrei concludere dandovi la mia opinione personale sul fenomeno del razzismo nel mio paese e perché dobbiamo fare tanta attenzione all’ assistenza che offriamo agli immigrati.
Quando abbiamo incontrato don Colavero, ieri, ci ha portato al Centro Culturale Albanese di Maglie, e vi devo dire che, se noi fossimo coinvolti nell' apertura di un centro culturale albanese a Dover, credo che sarebbe distrutto con bombe molotov entro 24 ore e su questa nota di vergogna per il mio paese vi ringrazio per la vostra attenzione."

Prof. G. Perrone:
"E' importante sentire anche il parere del primo cittadino, ma è bene che la signora sappia che ciò che ho detto prima non l’ho inventato io; ci sono fiumi d’inchiostro sulle diverse forme di razzismo: differenzialista, delle istituzioni, dei media, della burocrazia, ecc. Mi dispiace che la signora non sia informata, ma questo non mi sorprende.
L'incapacità a capire alcuni fenomeni sociali risiede in quanto si diceva poco fa: nell'incapacità a decentrare il proprio punto di vista, accompagnata ad una buona dose d’ignoranza. Quella della signora è una visione occidentalocentrica tipica, è quell’etnocentrismo ideologico che fa credere alla cultura occidentale di essere il centro del mondo. Così dicasi a livello soggettivo e a proposito d’identità: si pensa che la propria sia l'unica. E’ questa rozzezza che porta a stabilire: quanti immigrati debbano restare a Lecce e magari come dovrebbero vivere; è una rozza e provincialotta forma del classico “sono molti”; un residuo culturale dell’invasione. Rispetto a che cosa sarebbero molti, se gli amministratori non sanno nemmeno quanti siano effettivamente i cittadini non nazionali sul territorio leccese. Quando mai vi siete preoccupati di capire qualcosa di questo mondo, adesso in nome di un ruolo ci si improvvisa conoscitori. Abbiamo come OPI presentato i risultati della nostra ricerca, la signora – come soggetto istituzionale - era stata invitata, ma non si è fatta vedere e da quanto va dicendo o non ha letto i dati o non li ha capiti o in malafede. La signora dovrebbe capire che l’azione umana produce sempre senso e la produzione di senso di un immigrato equivale a quello di chiunque altro; dietro ogni immigrato c’è un progetto migratorio, ci sono delle aspettative ed anche tanta sofferenza per il razzismo e l’ignoranza che li circonda. Loro amano dire: “quando ci conosceranno non ci odieranno”. Personalmente non condivido questo ottimismo, però loro la pensano così. Personalmente preferisco pensare che la causa di molti comportamenti etnocentrici sia la “disconoscenza”, un termine troppo dolce che, in molti casi, sostituirei con “ignoranza”.
Bisogna moltiplicare gli sforzi, con la pazienza che solo i religiosi sanno avere; bisogna prestarsene un po’. Gli antirazzisti nuotano controcorrente per due motivi principali: uno è – almeno in questa provincia – l’evidente interesse; l’altro risiede nella cultura occidentale, la cultura di noi tutti, impregnata di ideologie da dominio. L’occidentale è uso distruggere il nemico, l’avversario, ogni altro che si contrapponga. L’altro non deve esistere; sfugge all’occidentale che ognuno di noi esiste perché esiste l’altro. Si pensi al linguaggio nel rapporto con l’altro diverso da sè; è carico di etnocentrismo, di violenza; è un linguaggio da guerra e non di pace, bisognerebbe evitare di dire “extracomunitari”, ma anche “militanti” e quant’altro crea gerarchia e presuppone violenza. E’ in questa cultura che il razzismo trova alimento; è su questi presupposti che si crea la cultura dell’esclusione.
Quando noi ci siamo opposti alla missione ALBA, non era soltanto perché non si sarebbe risolto niente, ma perché metteva in moto unicamente una cultura della guerra; quella missione costava un miliardo al giorno e noi ci interrogavamo su cosa si potesse fare, invece, con quel denaro. A quei denari si aggiungano quelli spesi per i Centri di detenzione, quelli per pattugliare le coste o quelli che vengono impiegati per addestrare la polizia albanese. - Per inciso, in Albania, la polizia locale è addestrata dalla polizia italiana all'antiguerriglia, all’antisommossa: questa è la cooperazione italo-albanese. Invece di rimuovere le cause del disagio ci si addestra a reprimere la gente. E’ questo modo di ragionare che va abolito, bisogna lavorare per estirpare le radici di questa cultura; questa è la sfida che noi dobbiamo lanciare.
Don Giuseppe Colavero ha detto delle cose chiarissime: che l'accoglienza va migliorata; che la situazione non è di emergenza, anche se c’è gente che grida all'emergenza. A questo aggiungo che ci sono veri e propri lager, che vengono gestiti dalla polizia e da alcuni volontari, che non fanno i volontari ma i carcerieri; duole dirlo, ma è così.
In merito ai Centri di accoglienza, la logica di don Giuseppe, se volete, è frutto del comune buonsenso; lui dice, non c'è bisogno di mettere 400 persone in una struttura di 200, quando ce ne sono altri di centri che non sono stati attivati. Quindi è inutile parlare di emergenza. L’emergenza qualcuno la vuole ad ogni costo, se si continua ad operare in questo modo. Ma siccome chi grida all'emergenza in questa Provincia è un Vescovo, io aggiungo, da laico, che Madre Teresa in tanti anni non ha mai gridato: "Io, io, io! ". Chi dice "Io, io, io! ", vuol dire che è ancora nella fase egocentrica, per lui non esiste ancora l’altro. Quando la Sindaca dice: “Io ho dato un Centro per gli islamici” in rispetto alla cultura altra ecc., dice due sciocchezze in una volta. La prima è che questa richiesta è stata avanzata da lungo tempo, insieme a quella di uno spazio per gli immigrati, perciò lei ne ha accolto escludendo l’altra, perché? La seconda è che non si capisce perché non sia stato dato uno spazio anche ad altre confessioni religiose. Con la sua affermazione dà corpo alle mie preoccupazioni: si continua ad agire a livello personale e al di fuori di ogni norme condivisa. Permettetemi di dire che questo esibizionismo incomincia ad essere stomachevole.
Noi non vogliamo più sentire “io, io”, siamo rimasti gli ultimi legalisti della storia, ormai. Vogliamo che ci sia un’applicazione delle leggi e in tal caso dice che queste decisioni devono passare attraverso la Consulta Cittadina sull'immigrazione; così dicasi per altre situazioni compresa al provincia, sebbene la provincia sia l’unico Ente ad avere le carte in regola. All'interno delle Consulte – che aspettano d’essere convocate –, dove è prevista la presenza delle associazioni degli immigrati e quelle di sostegno, sarà il suo corpo a decidere la propria sorte; solo i componenti hanno diritto a decidere della gestione ordinaria dei problemi degli immigrati. E’ all’interno di questi organismi che si prendono le decisioni e si programmano le iniziative. Una condizione normale che aspettiamo sia rispettata e che, se applicata per tempo, avrebbe posto un freno alla frenesia emergenziale e all’esibizionismo della signora e di sua eccellenza. Se ha voglia di esibirsi, la signora potrà farlo nella sede più idonea, nella Consulta. Sarà una buona occasione anche per istruirsi, se starà ad ascoltare, così in seguito ci risparmierà altre cretinate a cui ci ha abituato.
Per concludere vi comunico un episodio, credo illuminante. Dieci giorni fa, a Orvieto, con due mie collaboratrici abbiamo partecipato ad un Convegno, dove abbiamo presentato la situazione dei figli degli immigrati nella scuola del Salento. Quando una mia collaboratrice ha presentato i risultati della ricerca – che, sebbene totalmente disconosciuti, sono in forte crescita, essendo passati nel giro di due anni da 200 a 400 – ci siamo trovati di fronte un numero incredibile di persone incredule alla nostra comunicazione. Rossana, una delle collaboratrici, si è trovata di fronte ad un coro: "400!? ... Noi pensavamo che nel Salento fossero almeno 40.000!". Vi rendete conto del perché Rossana si è trovata di fronte questa risposta? Vi rendete conti cosa comporti urlare all'emergenza? La gente crede per davvero che qui ci sia un’invasione. Questo episodio la dice lunga sia sul ruolo dell’informazione che sui guasti creati dal prelato e dalla sua cordata. Bisogna smetterla. Per adesso siamo sotto l’attenzione dei media e ciò vediamo crea godimento a qualcuno, ma capito l’inganno un po’ di gente riderà di noi; o meglio di chi continua ad urlare “Al lupo! Al lupo!”.
Bisogna lavorare per creare ponti con gli altri mondi e bisogna sfruttare la nostra posizione geografica. La nostra esposizione ad oriente del Mediterraneo è la nostra più grande ricchezza e una manica di mercanti ci sta vanificando questo grande dono e sporcando la nostra immagine”.

Giorno 14 novembre ore 16.00
Tavola Rotonda col Presidente della Regione Puglia, Prof. S. Di Staso

Prof. S Di Staso :
“L’ immagine, che i media e i giornali diffondono della Puglia, è l’ immagine di una regione in stato di emergenza. Credo invece che si debba portare avanti un’ immagine positiva di questa regione, della Puglia come “regione di frontiera”, che significa proporsi, a livello locale innanzitutto, ma anche a livello nazionale ed europeo, in una maniera propositiva. Il professor Marcello Strazzeri può confermare il successo che si è avuto a Strasburgo, lo scorso 28 maggio, dove la Puglia ne è uscita da protagonista, perché ha fatto una proposta molto seria che è stata assai apprezzata. Ho avuto pieno mandato per potere predisporre una legge, da presentare in Consiglio Regionale, per dare forza ad una eventuale legge nazionale che possa darci status giuridico di “regione di frontiera”. Questa è anche la maniera migliore per poter usufruire di quel quarto interlocutore che è l’ Unione Europea.
In merito al problema del coordinamento tra osservatori, so benissimo che esistono gli osservatori a Bari e che esiste un osservatorio provinciale dove si elaborano soltanto analisi quantitative del fenomeno, l’ osservatorio che invece ci è stato dato dal Consiglio d’ Europa e che sta passando al vaglio economico-finanziario dell’ Unione Europea, è un progetto molto più ambizioso: attraverso questo osservatorio è possibile studiare le strategie di sviluppo da portare in quei paesi, ovviamente l’ osservatorio dovrà essere collegato alle strutture locali che saranno utilissime, avremo bisogno di collegarci anche con osservatori nazionali ed europei, ce ne sono di importantissimi in Portogallo, in Spagna, in Francia. Sarà dunque un osservatorio che vedrà sedere allo stesso tavolo l’ Unione Europea e i paesi del Mediterraneo; certamente non potremo non tenere conto del fatto che esistono l’ Istituto agronomico mediterraneo, strumento di grande rilievo, la Fiera del Levante, braccio operativo in questa regione, e tutto quanto può essere messo al servizio di questo nuovo disegno di cooperazione internazionale.
Rispetto al volontariato, so bene che ci sono tante iniziative, ma hanno bisogno di coordinamento e credo che questo verrà fuori da questa idea forte della regione Puglia. Questa stessa idea è stata accolta anche da altri paesi europei, che hanno problemi simili a quelli della nostra regione. Chiameremo dunque a raccolta tutto il mondo del volontariato, la Consulta dell’ Immigrazione, ad esempio, è uno strumento importantissimo che non deve soltanto studiare i fenomeni a posteriori, ma deve studiare le strategie per favorire una diminuzione dei flussi immigratori.
Certamente nei massmedia fa notizia l’ emergenza, ma non fa notizia un documento educativo che invece spieghi bene ai cittadini pugliesi che possono diventare protagonisti di questo fenomeno.
(Prof. P. Fumarola )
Mi è stato chiesto di fare un incontro su questa idea forte di “regione di frontiera” quella potrebbe essere un’ occasione per invitare anche altri paesi europei come l’Andalusia, la regione Russi on langue d’ oc della Francia, Gorizia che hanno questo stesso problema.

Prof. A. Karjagdiu :
“Onorevole Di Staso ed egregi signori grazie per avermi dato la parola.
Innanzitutto vorrei ringraziare per l’ accoglienza caldissima e l’ ospitalità generosa che abbiamo ricevuto dai nostri colleghi di Lecce. Mi sono commosso nell’ ascoltare il dibattito sulla situazione del Kossovo e dei profughi, e degli sforzi che qui si stanno facendo per questi sfortunati vittime di una guerra aggressiva e ostile.
Vorrei essere breve, anche se avrei bisogno di ore per affrontare l’ argomento di cui vi parlerò. Nella lunga storia tra connessioni e vincoli, relazioni e contatti italo-albanesi, tutto ad un tratto, mi è venuto in mente un autore di queste parti che trecento anni fa ha scritto la prima grammatica albanese in italiano; mi son venuti in mente i nostri primi scrittori, che quasi cinquecento anni fa sono stati educati in Italia; poi Giorgio Castriota, il nostro eroe nazionale ed eroe popolare, che è stato accolto proprio qui in questo paese quando si trovava in difficoltà.; poi anche altri sfortunati immigrati albanesi, quando, cento anni fa con l’ invasione turca, trovarono rifugio e ospitalità qui in Calabria, nella Piana degli Albanesi, integrandosi perfettamente. Voglio ringraziare il popolo italiano, sinceramente, e anche il Governo italiano che negli ultimi anni, nei giorni più difficili per i vicini albanesi abbandonati e, qualche volta, anche calunniati dal regime socialista serbo, sono stati dei veri amici. Da popolo civilizzato, gli italiani si sono recati in Albania con le missioni Alba e Pellicano, facendo investimenti economici, creando nuove aziende e impegnandosi in tante iniziative. Sono stati tempi drammatici e critici per il popolo albanese, si trattava di uscire da una dittatura feroce durata quasi quaranta anni. Adesso la metà degli albanesi d’ Albania sono emigrati. I nostri profughi vi creano problemi, ma spero che ciò non duri a lungo, perché questi profughi sono qui a causa di una guerra aspra e crudele, portata avanti da uno Stato terrorista che fa una politica coloniale, di discriminazione, di pulizia etnica e di genocidio dal 1912
Credo che non avrò tempo di chiarire in che cosa consista questa guerra speciale che si fa in Kossovo. Questi profughi sono il frutto di misure e leggi coloniali, che gettano via gli albanesi , che li licenziano dal loro lavoro, che chiudono l’ Università e le scuole albanesi e perciò credo che quando ritornerà la stabilità e ci saranno nuovamente le istituzioni in Kossovo, quando i nostri diritti nazionali, individuali e collettivi, verranno nuovamente riconosciuti, allora tutto si risistemerà. Vi ringrazio ancora per l’ accoglienza. Grazie”.

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