QUARTA SESSIONE
CHE FARE ?

RELATORI


Prof. P. Simic
Università di Belgrado

Prof.ssa Mirie Rushani
Università di Pristina

Prof. A. Karjagdiu

Prof. K Metaj
Università di Pristina

Prof. F. Sejdieu
Università di Pristina

Prof. D. Janjic
Direttore del Forum for Ethnic Relation di Belgrado

Prof. A. Gasparini

Prof. M. Zelazkiewicz
Università di Berkley



Don Albino Bizzotto
Beati I Costruttori di Pace

Prof. P. Simic
Università di Belgrado

Prof. A. L’Abate
Università di Firenze

Prof. A. Karjagdiu

Dott. R. Gorgoni
Giornalista

Prof. P. Fumarola
Università di Lecce

Prof. A. Demjaha

Dott.ssa Stasa Zajovic
Donne in Nero di Belgrado

Prof.Ramush Mauriqui
Albanese



Prof. P. Simic :
“Ho avuto molte occasioni di partecipare a questo tipo di dialoghi ed ogni volta mi sono rammaricato dell’assenza dei rappresentanti dei gruppi al potere in Serbia, che con piacere avrei visto impegnati in un dialogo con i rappresentanti dei partiti politici albanesi del Kossovo, le ONG come quella di Dusan Janjic o gli ING (individui non governativi), come me.Voglio dire che in questo tipo di dibattito è essenziale definire quale sia l oggetto del conflitto: è un conflitto che riguarda i diritti umani e quindi trovare una soluzione che si occupi dei diritti umani è soddisfacente o è un conflitto sulla politica, sul territorio e sulle idee nazionali ?
Vorrei dire che, sin dall' inizio, il conflitto del Kossovo, si è posto come una tipica disputa etnico-territoriale; infatti se, per i serbi, il Kossovo fà parte del loro territorio, della loro identità, della loro storia ed nessun politico potrebbe vincere le elezioni se fosse disposto a giungere a compromessi sul Kossovo; per gli albanesi il Kosovo è il territorio dove loro sono la maggioranza e dove, esattamente 120 anni fà, è nato il loro movimento nazionale con la dichiarazione della prima lega di Prisram. Da quel momento il Kossovo è stato, non solo uno dei territori popolati da albanesi nei Balcani, ma il nucleo del loro movimento nazionale specialmente oggi, dopo il fallimento del governo Berisha a Tirana ed il collasso della struttura statale in Albania.
Attualmente il movimento albanese del Kosovo ha un ruolo leader nei movimenti nazionali dei Balcani, in Serbia è diffusa l’ idea che la rivendicazione di una confederazione della Jugoslavia, con il Kosovo come settima repubblica, porterebbe ad una secessione vera e propria del Kosovo dalla Jugoslavia, per annettersi o unirsi all' Albania.
Non è sempre certo che gli albanesi del Kosovo siano disposti ad essere semplicemente parte dell' Albania, poichè lì sono visti come gli occidentali nella ex Germania est .
Le due parti del conflitto non sono disposte a scendere a compromessi, anche se alcuni politici stanno cercando di presentare delle posizioni di compromesso tra le due parti, in particolare alle ONG serbe ed albanesi. Non è difficile avere un dialogo costruttivo, la realtà è che né la politica serba né quella albanese può essere portata avanti all 'infuori di questi quadri contraddittori e in conflitto.
Quali sono, quindi, le soluzioni possibili ? Per i serbi la soluzione preferita è che il Kossovo rimanga all' interno della Serbia con un certo grado di autonomia, ma non allo stesso livello di quella che aveva il Kosovo aveva con la costituzione del '74. L’ élite politica della Serbia attuale ha criticato queste soluzioni, perché nella costituzione del '74 l' autonomia era tale che il paese poteva decidere su tutte le leggi che venivano passate dal parlamento serbo, tanto ch,e spesso, non venivano applicate nella zona autonoma. Questa critica è stata ingigantita e manipolata a scopi politici dai serbi.
Per gli albanesi l'obiettivo è l' indipendenza del Kosovo. E’ possibile dunque un compromesso ? Un quadro politico in cui serbi ed albanesi si sentano a proprio agio ?
Il Kosovo è una regione multietnica, dove nè i serbi nè gli albanesi accettano, tranne le élite istruite, di vivere assieme; gli stereotipi sono terribili, in serbo gli albanesi. vengono chiamati shiptar con una connotazione negativa, ed, a loro volta, anche gli albanesi. chiamano gli slavi shtij .
Nel '74 l' autonomia del Kosovo era di un livello elevatissimo, molto più alto che nell' Alto Adige o nelle isole Aaland, ma vi erano molti problemi causati dal reciproco rifiuto etnico e, anche quando si è presentata l' occasione, dopo gli accordi di Dayton, di allentare la tensione in Kosovo, la politica ha impedito che la si cogliesse .
La mia esperienza personale - io ero molto vicino alle due parti, serba ed albanese, facevo parte del gruppo di parità per l' applicazione degli accordi - è che il governo serbo avesse dei suoi dubbi e possiamo dargli la responsabilità di non aver applicato gli accordi, ma anche la parte albanese non li voleva applicare. L’ applicazione dell' accordo sulla pubblica istruzione era interpretato dai serbi come un ritorno degli albanesi nelle scuole di Stato a condizione che si dichiarassero disposti a ritornare sotto il sistema scolastico serbo e, quindi, sottomessi ai serbi, a questo punto, sarebbero stati disposti ad insegnare anche l' albanese, ma la parte albanese rifiutava di accettare l’ accordo proprio questo motivo: per gli albanesi significava l’ accordo significava consegnare le strutture scolastiche serbe allo Stato del Kosovo e, naturalmente, nessun politico a Belgrado, nessun politico al governo poteva fare questo.
Dopo due anni di duro lavoro il gruppo al quale collaboravo (il gruppo Bettlesmann) ha prodotto un documento politico che parlava delle misure per costruire la fiducia reciproca, presentava tutta una serie di proposte su come applicare l' accordo sull' istruzione e su come usare tale accordo come un precedente che potesse essere applicato al campo della cultura, dello sport, dell' informazione e del commercio .
Ho trascorso molte settimane in incontri organizzati in vari posti dei Balcani, nei quali si cercava di produrre un documento ben equilibrato e poi, l' autunno scorso, la Germania ha presentato questo documento ed ha tentato di mettere d' accordo le parti per far calare la tensione, ripristinare la fiducia, aumentare la sicurezza e fornire un contesto nel quale fosse più facile discutere la questione dello status politico del Kosovo.
Sono stato all’ incontro di Belgrado ed è stato un fallimento totale, perchè uno dei principali rappresentanti dell' LDK ha detto: “ No ! Non possiamo farlo senza alcune precondizioni...”, che poi erano tante, quindi ho capito che l' UCK stava gia minacciando la vita degli albanesi moderati e che diventava difficile raggiungere un compromesso coi serbi, dal momento che l' UCK si stava gia preparando alla ribellione armata di quest' anno.
Penso che possiamo essere d' accordo sul fatto che tutte le parti hanno la responsabilità di ciò che è successo .
Qualche tempo fà il ministero degli esteri serbo ha pubblicato un libro bianco sugli eventi del Kosovo - ha presentato la propria versione della storia - in cui vengono descritti molti casi di massacri subiti dai serbi, per esempio il caso di Kletchca, sarebbe interessante sentire cosa dicono i serbi del forno dove sono stati ritrovati dei cadaveri di serbi che erano stati presi in ostaggio. Quasi tutti i giorni i serbi riferiscono di casi di violenza contro di loro, ci sono più di 20.000 serbi del Kosovo che sono profughi in Serbia, molti sono gli ostaggi serbi che sono stati presi anche prima del caso di Prekasi e c'è questa brutta storia, in corso, dei due giornalisti rapiti dall' UCK, che vengono usati politicamente per presentare l' UCK come un’ istituzione governativa. Li hanno processati per dimostrare di aver creato le proprie strutture giudiziarie.
Vorrei chiedere quanti albanesi del Kosovo sono stati uccisi, perchè disposti a collaborare o, semplicemente, a lavorare per aziende serbe. Non ho le statistiche, ma ricordo che verso Marzo un’ intera famiglia albanese è stata uccisa dall’ UCK, perchè commerciava con la Serbia farina e olio da cucina. Sono stati tutti uccisi come collaborazionisti .
Ho visto molti tentativi di diplomazia di secondo livello per cercare dei compromessi accettabili, ma entrambe le parti devono prendersi la responsabilità del fallimento di tutte le proposte fatte.
Dobbiamo essere molto cauti nell' accettare i dati che ci vengono forniti dalle due le parti, perchè il conflitto del Kosovo è anche una guerra di propaganda, una guerra di cifre : qui si dice 400.000 sfollati, le Nazioni Unite hanno parlato di 247.000, giovedì scorso l' Ambasciatore Hill ha detto che la cifra ufficiale era non più di 40.000, lo ha detto in una conferenza stampa ufficiale al Media Center di Belgrado in occasione della presentazione del libro di Allbrook tradotto in serbo. Rammentiamo i terribili fatti che sono successi in Bosnia, della propaganda delle cifre, ma se si vuole veramente trovare una soluzione pacifica dobbiamo vedere quali sono i punti di compromesso che ci permettano di proteggere gli interessi di tutte e due le parti in Kosovo, per impedire che diventi, come Bianchini ha scritto, nel suo libro Storia di una bomba in Europa, la “bomba ad orologeria” del conflitto dei Balcani meridionali”.

Prof.ssa M. Rushani :
“ Intervengo ancora una volta, vorrei rispondere alla domanda che ci viene posta : “Che fare?” in Kossovo. Leggendo tutte le proposte sulla pace in Kossovo, credo che tutte le proposte che sono state fatte, fino ad oggi, propongano una brutta pace e sono convinta del fatto che, come ci insegna la storia, ogni brutta pace faccia da base ad una buona guerra.
Quindi vorre parlare ponendomi da un altro punto di vista. Non voglio portare qui dati che vengono dal sistema dell’informazione, perché in tempi di guerra, c’è sempre una gran confusione nell’ informazione, che bisogna prendere facendo molta attenzione. E’ certo che ogni parte usi le cifre così come le conviene o che, semplicemente, diventi una vittima d’ informazione stessa. Ma questo non è così importante.
Il problema più grave è che in nessuno degli studi e delle proposte fatte per la risoluzione del problema del Kossovo si è preso in considerazione ciò che sto per dire: studiare il problema profondamente, dalle radici, nel tempo e nello spazio. In questo momento voglio accettare l’ approccio di ciò che viene chiamata “tendenza storica”. Voglio dire che tutte le formazioni sociali, storiche o di altro tipo, sono formazioni dinamiche, che si trasformano, che hanno una propria evoluzione e quindi se vogliamo avere un punto di vista giusto, dobbiamo guardare a queste formazioni sociali soltanto da questo punto di vista. La maturità si ha con lo sviluppo della coscienza umana e poichè, in queste formazioni sociali, i portatori sono gli uomini di coscienza e di non-coscienza, bisogna tener presente anche l’ esistenza della coscienza.
Negare la “ tendenza storica” è un grande errore. Voglio fare un esempio : il comunismo. Il comunismo voleva interrompere la strada dello sviluppo con prepotenza., voleva imporre alla storia un altro regime, dicevano: “Dobbiamo saltare i secoli”, cosa che, per 50 anni, le radio e i media dell’ Europa dell’ Est comunista, hanno ripetuto in continuazione. Ed oggi , che stiamo vivendo il post-comunismo, abbiamo visto bene come sono stati saltati i secoli. Abbiamo visto, tramite l’ esplosione e l’implosione dei problemi dei paesi ex-comunisti, venire alla luce tutti i problemi occultati. Dicevano: “dobbiamo guidare la storia” e ciò era molto sbagliato.
A cosa stiamo assistendo adesso? Vediamo una coscienza (non so se in italiano si possa dire) “ritardata”, che arriva in ritardo, ed è per questo che quando parliamo, qui, a questo convegno - ribadisco ciò che ho detto anche ieri -, non si riesce a capire se usiamo le stesse parole e gli stessi concetti, diamo un significato differente alle parole “democrazia”, “guerra civile” e a tante altre.
Quindi ciò che per l’ Occidente è democrazia, per l’ Oriente, per i paesi ex-comunisti è altro: significa amministrare per eliminare. Cosa eliminare ? Eliminare tutte le diversità, tutto ciò che non appartiene al gruppo o all’etnia al potere.
In Europa il processo di democratizzazione, un processo storico di formazione degli Stati e di definizione delle regioni, si è concluso nel secolo scorso. Nell’ Europa Orientale, invece non si è avuto alcun processo in tal senso, non voglio soffermarmi sul fatto che qui esisteva l’ Impero Ottomano, ecc, però voglio dire che, dopo l’ Impero Ottomano, sono stati creati altri imperi senza alcun criterio: culture, etnie e lingue differenti venivano messe assieme. Quindi il problema del Kossovo, non è solo del Kossovo. Abbiamo tanti Kossovo nell’ Europa dell’ Est, nel Caucaso e può darsi ancora in altre parti del mondo. Questo è un problema che va guardato anche da questo punto di vista.
Trovare una soluzione, una buona e giusta soluzione, una buona pace, non una brutta pace, per il Kossovo significa dover trovare, nel prossimo futuro, un modo per risolvere anche i problemi delle altre parti del mondo, specialmente dell’ Europa dell’ Est dove si hanno problemi simili.
A questo punto pongo la domanda: “Cosa si può fare in questo momento, in Kossovo ?”. Ieri ho sentito dire nel nostro dibattito che, se gli albanesi avessero voglia di partecipare alle elezioni democratiche della Serbia, la situazione potrebbe cambiare. Ma, personalmente, non so cosa significhi democrazia in Jugoslavia e in tutti gli altri paesi dell’ Est. Non si sa che cosa sia la democrazia, avrete sicuramente notato che, sia in Albania, che in tanti altri Stati la democrazia è proprio il “rovescio della democrazia”, direi quasi un’ anarchia. E quindi non vedo perché, gli albanesi o altre etnie, debbano concorrere alla formazione di governi, là dove non c’è democrazia. Il problema non è dunque la collocazione degli albanesi in Jugoslavia, ma è relativo a tutta una mentalità “ritardata” (non so se conviene usare questo termine, perché mi sembra un termine medico), una mentalità che ha tante caratteristiche tribali, che non è interessata ai diritti umani. Quindi credo che sia impossibile aver fiducia in una cosa del genere.
A questo punto devo tagliare moltissimo il mio discorso, perché il tempo stringe, anche se avevo tanti altri argomenti da affrontare sulla questione.
Comunque, voglio dire questo: forse la situazione in Kossovo che, sino ad ora, non era ancora matura per produrre quel processo di maturazione della coscienza umana, che è in atto in altre regioni, sta cambiando. La maturiazione della coscienza umana e culturale, individuale e collettiva, cresce con l’oppressione. Quanto più è grande l’ oppressione, tanto più cresce la resistenza ad essa e l’ autocoscienza. La situazione in Kossovo è giunta ad un punto di non ritorno. Non voglio raccontare qui le atrocità commesse in quel territorio, sarebbe un luongo elenco.
Penso che non dobbiamo perdere più tempo a dire di chi sarà il Kossovo, se dei serbi o degli albanesi, è importante, invece, cominciare, al più presto, a discutere su come sarà. Il Kossovo ha deciso di avere l’ indipendenza prima o poi, non si torna indietro, è su questo che dobbiamo discutere, perché è importante anche per le altre regioni. Quindi forse è meglio dire che chi deve condurre il Kossovo è colui che offre un Kossovo migliore, non ha importanza se serbo, albanese o altro. Sono d’ accordo con il professor Simic quando dice che il Kossovo è multietnico. Non voglio usare le percentuali, perché sono gli albanesi in maggioranza, però le differenti nazioalità e culture vanno rispettate, altrimeti avremo una brutta pace.
Gli argomenti percui il Kossovo si possa configurare come una entità indipendente sono tantissimi: il Kossovo ha i suoi confini, da prima ancora del ’74, era un’ entità geografica che riasale ai tempi della Dardania illirica. Credo che la Costituzione del ’74 non sia stata fatta per il 10 o meno per cento di serbi, ma proprio per gli albanesi.
Voglio aggiungere una domanda: “ Perché, in Jugoslavia, tante nazioni hanno potuto vivere assieme per 50 anni e non possono fare più, adesso ?”. Mi sono data una risposta e penso che sia questa: Tito aveva trovato la formula della convivenza, una formula formale rispetto ai diritti umani. Dopo la distruzione dell’ ex-sistema, questa formula non ha più funzionato e in tutte le nazioni si è aperto il problema della autodeterminazione, se ne sono uscite dalla Federazione. Perché, mi chiedo a questo punto, il Kossovo non può separarsi in quanto elemento costitutivo, in quanto Stato ? Non si può tornare indietro, sono tanti gli elementi che contribuiscono all’ indipendenza del Kossovo. Perché, allora, non discuterne meglio, non progettare un modello. Sono d’accordo con il professor Janjic che dice che bisogna trovare un modello originale. Non dobbiamo cercare un modello che sia uno stereotipo già usati, bisogna saper creare anche altri modelli più adeguati alle esigenze di tutti , per rendere più stabile la pace nei Balcani.
Penso che si possano trovare delle soluzioni alternative, che bisogna solo avere buona volontà e mantenere una certa distanza dal problema.Grazie”.

Prof. A. Karjangdiu :
“Non ho potuto sentire tutto ciò che ha detto il signor Simic, ma non era necessario sentire tutto. Devo smentire alcuni fatti. I fatti sono i seguenti: in Kossovo c’è un terrore di Stato che terrorizza, massacra e fa pulizia etnica. Ecco perché la minaccia della Nato, della comunità internazionale è venuta lì, ecco perché il gruppo di contatto è passato quelle risoluzioni. Sono state adottate anche altre due risoluzioni, da parte delle Nazioni Unite, più recenti, con richieste particolari che non vengono applicate del tutto da alcuni albanesi, i resistenti, per così dire. E’ questa una situazione normale, che accde in tutte le comunità; quando viene attaccata la dignità e la sopravvivenza di una comunità, quando i diritti umani non vengono più rispettati, allora si resiste, si reagisce. Perché adesso dovremmo dare all’ altra parte ? Noi siamo le vittime di un aggressore che ha distrutto tutta la Jugoslavia, che è un problema per l’ intera Europa, che sta mettendo a rischio la pace nei Balcani, da ormai 7-8 anni. Noi siamo parte della società intellettuale e dobbiamo dirlo, perché apparteniamo ad una delle parti.
Se parliamo di fatti accaduti, vorrei ricordarvi che qui ci sono i nomi ( non ho tempo adesso di citarli tutti ), ci sono bambini di un anno, donne incinta, è anche stato costruito una specie di forno crematoio per le vittime dei criminali della Bosnia, che vengono a perpetrare massacri. Da mesi, a ritmo di 5-6 alla settimana, si carbonizzano i corpi di queste vittime. Non faccio i nomi, ma negli ultimi dieci giorni di settembre, 167 albanesi sono stati uccisi, massacrati, bruciati. Questo è riportato in un solo numero di questo giornale. Ne abbiamo abbastanza, non ne possiamo più, venite a vedere, basta parole, vi faccio vederele foto: bambini, famiglie. Stanno distruggendo famiglie intere, stanno facendo la pulizia etnica degli albanesi come nel 1880, come è accaduto tra le due guerre mondiali, o nel periodo di Rancovich, in cui mezzo milione di albanesi sono dovuti scappare in Turchia. Dal ’45 fino al ’50 il governo della Jugoaslavia di Tito ha giustiziato 45.000 albanesi.
Lasciate che vi dica solo questo: non parliamo di uccisioni, quando le uccisioni non sono perpetrate da noi, non siamo stati noi. E’ ora di non ascoltare più solo un’ unica verità. C’è una verità del 10%, dell’ 8% dal 1912 ad oggi, ma c’è l’altra verità quella della maggioranza che vede il Kossovo come una tipica colonia del 1913, dove regna la discriminazione, con leggi che riducono la nostra civiltà, che perpetrano la pulizia etnica, nel 1913 solo il 5% della popolazione era serba, ma è il 95% degli abitanti che per 85 anni hanno dovuto subire la colonizzazione. Ecco perché l’ Europa e l’ America sono intervenuti, perché si sono vergognati di questa situazione”.

Prof. K. Metaj (Traduzione in consecutiva del Prof. H. Myrto):
“Quando abbiamo fatto i preparativi per questa conferenza, io personalmente ho preso l’ impegno che avrebbero preso parte anche i colleghi dell’ Università Serba di Belgrado. Può sembrare incredibile, ma l’ organizzazione non ha potuto, evidentemente, trovare le persone che volevano discutere con noi.
Ho bisogno di chiarire alcune cose con il collega Simic, perché con il collega Janjic, ci conosciamo da tempo, e sappiamo quali siano le reciproche opinioni che già da tempo abbiamo chiarito.
Penso che per chiarire la situazione attuale sia necessario soffermarsi sulla fenomenologia della crisi nel Kossovo che, purtroppo, si è incanalata nella violenza. Cosa che, secondo me, sin dall’inizio, il regime ha gradito. Non credo che il regime attuale vorrà o vorrebbe, di sua spontanea volontà, cambiare la situazione del Kossovo, lo status del Kossovo. Il regime attuale ha usato tutti i mezzi per privare il Kossovo della sua autonomia; inizialmente ha usato la violenza e, in seguito, con una serie di leggi discriminanti, ha fatto in modo che il Kossovo non rimanesse una zona multietnica e multinazionale. E’ stato proclamato pubblicamente che il Kossovo è un territorio serbo e si è fatto di tutto perché la presenza albanese venisse eliminata.
Non vi voglio stancare menzionando la serie di provvedimenti presi in tal senso, ve ne faccio uno: il cambiamento di toponomi e microtoponomi, ad esempio, che dapprima erano toponomi albanesi e che oggi sono stati sostituiti con toponimi di lingua serbo-croata.
E’ chiaro che siamo arrivati a una situazione in cui è così difficile trovare la soluzione giusta.
Vi faccio un altro esempio: quando noi, colleghi e professori di Università qui presenti, siamo stati licenziati dal nostro lavoro, sulla nota di avviso c’era scritto: “Il professore Kadri Metaj viene licenziato da questo lavoro, perché l’insegnamento di lingua albanese non è più attivo”. Dinanzi a questa situazione, gli albanesi hanno voluto fare qualcosa per non perdere la loro identità e la loro lingua.
Per un certo tempo abbiamo avuto la speranza che si sarebbe trovata subito una soluzione. Forse quello che dirò potrà sembrare ipotetico, ma forse, in quel periodo, l’autonomia poteva essere anche ridata. Ma, le azioni del regime sono state sempre più violente e , nella situazione attuale, ci troviamo ben lontani da quella soluzione ipotetica. Le azioni degli albanesi, come il referendum e altre, di cui ha parlato prima il collega, non sono state altro che una reazione alle azioni fatte dal governo serbo contro gli albanesi.
E’ stata qui menzionata la questione delle scuole, il collega Simic ha detto: “Poichè le scuole sono statali, gli allievi albanesi devono ritornare nelle scuole statali”. Siccome penso che il governo dei serbi sia illegittimo, penso che le scuole abbiano rappresentato una chance per calmare la situazione e per indicare una via alla soluzione pacifica. Il regime però non ha fatto alcun passo per offrire una soluzione politica. Sembra forse un pò forzata la nostra insistenza nel rivolgerci sempre al fattore internazionale, ma ho l’ impressione che ormai noi stessi, gli albanesi, i serbi, non possano trovare un linguaggio comune per la soluzione del problema, non a caso, prima, sono stati menzionati i crimini commmessi contro gli albanesi.
Ritengo, quindi, che i problemi possano essere risolti, ma è necessaria la presenza di un arbitrio internazionale. Non cooperare con il tribunale dell’ Aja, non permettere alle persone incaricate dalle istituzioni internazionali di entrare, ecc., rende sempre più difficile il processo per una soluzione. Dobbiamo tener presente che la spirale della violenza ha proprio la tendenza al rialzo ed è proprio questo che rende sempre più difficile il lavoro dei politici albanesi. Avete sentito che ora si parla, oltre che della compagine politica albanese, anche e sempre più della compagine militare albanese e ciò complica i problemi. Grazie”.

Prof. F. Sejdieu (Traduzione in consecutiva del Prof. H. Myrto):
“Kadri Metaj menzionava prima la compagine militare albanese, ritengo che cerchino di difendere se stessi, è una reazione naturale.
L’altra cosa sulla quale il professore ha posto l’ accento è la necessità di un intervento internazionale, che, innanzitutto dovrebbe analizzare i crimini commessi e tutto ciò che la violenza ha prodotto …”

Prof. D. Janjic:
“Qualcuno ha detto che abbiamo parlato di soluzioni finali, io non ho mai parlato di soluzioni finali, so benissimo che nella storia nessuna soluzione è finale; so anche, molto bene, che nella storia ci sono molti politici, molte persone, molti movimenti che cercano di trovare la soluzione finale. Uno dei più noti esempi è la soluzione finale che cercava Hitler.
Non ho detto che dobbiamo raggiungere una soluzione finale, ho detto solo che i movimenti etno-nazionalisti, compresi quelli serbo e albanese, hanno chiesto le soluzioni finali e questo è un problema. E’ un problema pragmatico, anche per Rugova, perché lui ha visto, ha annunciato così precocemente una soluzione finale. Con un politico che ha fatto un’affermazione così forte, sin dall’inizio, sull’ obiettivo finale, non può più esserci flessibilità e questo adesso crea i problemi. La storia ci ha insegnato che qualsiasi politico, che sin dall’ inizio ha proclamato la soluzione finale, non è mai riuscito a raggiungere il suo scopo. Questa è una lezione che dobbiamo tener presente.
Inoltre non posso dividere la storia in due periodi, prima e dopo Milosevic. Mi dispiace, non è Gesù Cristo, non sono ossessionato da lui. Volevo solo parlare delle tendenze e sottolineare il fatto che abbiamo due tendenze in atto in Kossovo attualmente. E questa è la nostra responsabilità, parlare proprio di questo e lavorare su questo. La prima tendenza è continuare sulla base di un’ approccio monolaterale: sostenere le mobilitazioni etno-nazionalistiche della gente, chiedere soluzioni finali, attraversare le guerre e le crisi politiche, andare nella direzione di ciò che possiamo chiamare “Stato indipendente”. Questa è una soluzione all’ opera adesso. L’altra soluzione è di procedere passo dopo passo, di attraversare i negoziati pacifici, democratici e politici e di raggiungere autonomia e indipendenza livello per livello.
Personalmente posso immaginare uno stato indipendente del Kossovo, per questo ho fatto riferimento all’ Austria, ma poiché non mi piace fare speculazioni sul futuro storico, credo che dobbiamo lavorare per costruire il futuro, adesso, ma rispettando la realtà di oggi. Quindi sarebbe veramente assai poco obiettivo dire che la soluzione si deve fondare sulla parte dei diritti del popolo albanese , questo è parziale., esiste anche l’ altra parte, ci sono i serbi, c’è lo Stato serbo e poi, la parte più importate, la comunità internazionale. Non possiamo guardare da una parte sola. Mi dispiace, ma ero presente quando l’ alto ufficiale del Dipartimento di Stato americano ha detto ai serbi: “Sarete puniti nei prossimi dieci anni e il Kossovo rimarrà nel vostro Stato e voi dovrete pagare il prezzo della sicurezza della regione.”
Ho solo una domanda: “ Chi ha prodotto questa gente, chi commercia e chi detiene i profitti del commercio delle armi ? Gli albanesi, i serbi ? No, non siate stupidi, stanno pagando per questo, non ci stanno guadagnando. E per questo che penso e personalmente voglio sostenere il secondo processo, la seconda tendenza, di procedere passo dopo passo per arrivare ad una soluzione ad interim , ho sempre parlato di una soluzione ad interim. Dare l’opportunità alla gente di avere, un giorno, un referendum, ma non solo per gli albanesi, imparate qualcosa dalla storia. Deve essere un sistema di referendum se si vuole usare un metodo pacifico e allo stesso tempo aprire una prospettiva attraverso la cooperazione sub-regionale. Dobbiamo spostarci, dobbiamo comunicare, dobbiamo avere scambi. L’intera sub-regione deve cooperare, collaborare e poi, solo dopo, si potrà vedere.
In secondo luogo il professor Fumarola - Piero - ha chiesto qualcosa riguardo ai 2.000 soldati, chiamandoli soldati, inviati dall’ ONU in Kossovo. Credo che sia - come dire - uno dei risultati necessari, ma un brutto risultato per la soluzione del conflitto. Sarebbe stato meglio andare direttamente, come aveva proposto il mio partito e anche Gonzales, con una presenza militare aperta in Kossovo, di modo che tutti sappiano. Tutti sanno ormai che 2.000 persone non sono sufficienti., adesso si chiedono le guardie del corpo questi 2.000. Adesso si stanno organizzando le forze per un intervento speciale, perché? Per me sarebbe stato meglio discutere in modo aperto. Il tema cruciale è l’ allargamento della NATO. Questa è la questione fondamentale che sta dietro a tutta la storia. Quindi se questo è cruciale apriamo una discussione, ma che non sia solo una discussione serbo-albanese, bisogna parlare tra l’ America e la Russia, tra l’ America e l’ Europa. L’apertura di una discussione è la nostra idea, incoraggiare un’ apertura nel senso di una collaborazione centrale nei Balcani. Perché la Serbia e il Kossovo non dovrebbroe essere coinvolti nel sistema di sicurezza sub-regionale e regionale ? O, perché non dovrebbero essere presenti apertamente rispetto ai buoni o cattivi effetti dell’ allargamento della NATO. Forse in Serbia la popolazione voterà per entrare nella NATO, perché no ? La mia domanda è: “Chi deve pagare il prezzo delle nuove guerre? Perché è evidente che i capi di adesso hanno bisogno di scuse e hanno prodotto uccisioni, terrorismo semplicemente per avere scuse. Ho paura di sapere la risposta di chi pagherà le spese delle guerre : non è il Kuwait, non c’è petrolio nè altro di simile.
Poi, il professor Simic ha riferito di alcuni sforzi per raggiungere un compromesso, che non hanno avuto successo, e ha detto: “Hanno inserito la questione dello status”. Quindi il mio commento è che è così, deve fallire, perché la questione cruciale è lo status. Ma lo status di Stato è un termine comune, che significa la realtà politica, giuridica, economica e sociale, la posizione della gente ordinaria, delle élites, delle comunità e dello Stato. Ma adesso qual’è il problema fra la posizione albanese e le posizioni serbe ? Il problema albanese è che loro hanno collegato le loro richieste per lo status alle richieste sullo status di Stato e hanno creato un’ uguaglianza tra lo status di Stato del Kossovo e lo status di albanesi. Da parte serba invece si è cercato all’inizio non di discutere dello status, ma di ridurre il discorso alla concessione dei diritti umani. Questo va male. La lezione è stata uccidere persone, crimini, guerra. Io veramente ero a favore di una discussione diretta sullo status del Kossovo.
In futuro non continuate ad essere ossessionati da Milosevic. vi do due esempi: noi abbiamo chiesto che il nostro sistema delle scuole fosse ripristinato a come stava prima, ma prima di chi ? Prima di cosa ? Per essere indipendente…no scusate…il nostro sistema scolastico non è mai stato indipendente, prima era un sistema statale, ma con un diritto all’ educazione, all’istruzione degli albanesi molto elevato. Purtroppo Rugova ha firmato un brutto accordo, ha firmato un accordo che diceva che gli albanesi dovessero rientrare negli edifici dello Stato, senza discutere del contenuto del programma di studi, dei libri di testo, ecc..
Non è vero che la sconfitta di questo accordo è la causa dell’ aumento della violenza. Uno dei motivi della crescita dell’UCK è la sua radicalizzazione tra i giovani. Ciò è vero. Vivevo in Italia negli anni ’70 e quindi ho visto che i giovani possono essere spinti verso il terrorismo: Lotta Continua, Brigate Rosse. Molti studenti sono stati spinti verso il conflitto armato a causa del collasso dell’ accordo sulla pubblica istruzione. Questo accordo è stato firmato per un’unica ragione, e posso capire la posizione di Rugova: voleva in quel momento sollevare la questione dello status del Kossovo e ha avuto successo. Ha sollevato la questione, ma a che prezzo!
Infine ho scoperto che nell’incontro di New York ho la responsabilità personaledi aver criticato i politici albanesi e serbi. A New York li ho visti a lavoro e ho detto: “Non sono abbastanza. Dobbiamo fare qualcosa per intervenire nel corpo politico serbo. Dobbiamo costruire un nuovo partito moderato di orientazione social-democratica, se vogliamo creare un equilibrio, aprire delle prospettive per un cambiamento politico”. Adesso io sono il vice-presidente del partito social-democratico. E questo è il mio ultimo punto. Oggi questa realtà, questa questione, l’ago della bilancia è nelle mani dei radicali. Oggi dobbiamo iniziare a costruire ponti, a cooperare per preparare il futuro, un futuro comune, credetemi, la Serbia non potrà essere democratizzata finché non sarà risolta la questione dello status del Kossovo. Il Kossovo non raggiungerà alcuna libertà, indipendenza, autonomia, senza la democratizzazione della Serbia. Conosco questi processi. Siamo legati a doppio filo. Sostengo veramente che i negoziatori serbi e albanesi e la comunità internazionale dovranno raggiungere una soluzione, ma cominciate a pensare allo strumento per l’ applicazione di questi accordi. Incontri come questo non sono irragionevoli. C’è qualcuno adesso al potere, è vero, ma domani chissà ? Specialmente nei Balcani. Ma oggi è così evidente che coloro che stanno al potere, Milosevic e Rugova potrebbero semplicemente firmarli gli accordi, ma non potrebbero applicarli. Per questo dobbiamo pensare ad aiutarli, a controllarli e a lavorare all’applicazione degli accordi. Sono a favore della metodologia pacifica del passo dopo passo, dell’ autonomia di alto grado, uno Stato all’interno della Federazione, e poi di referendum all’interno di una regione stabile. Forse sembrerà che voglia semplicemente guadagnare tempo, ma credetemi, altrimenti, passeranno 10 anni di guerra. Grazie”.

Presidente della tavola rotonda, Prof. A. Gasparini:
“Vorrei dire che sul problema e sul futuro del Kossovo, noi abbiamo sentito diverse soluzioni dove vi erano alcune parole chiave importanti, a me sembra, che sono emerse dai discorsi. Importante quella che sottolinea il ruolo degli attori , non solo politici ovviamente, ma anche del volontariato, come Don Albino Bizzotto dei Beati i Costruttori di Pace, o quella che si lega alla concezione della sovranità.
Credo che, il concetto di sovranità nazionale sia una variabile rilevante. Ricordo che, nel ’92, a Gorizia si fece un convegno internazionale dove si misero a confronto due concetti: quello di solidarietà internazionale, che significava anche possibilità di un intervento dall’ esterno, allora avevano le prime avvisaglie della crisi ex-jugoslava e avevano in corso il problema somalo e gli interventi in Somalia, bene, questa solidarietà internazionale veniva messa in contrapposizione, in qualche modo, alla sovranità nazionale. Intervento attraverso diverse forme, in forma di solidarietà internazionale significava, in un certo senso, ledere la sovranità nazionale. Credo che, probabilmente, si debba ridefinire il concetto di sovranità nazionale, bisogna intenderci. Si è parlato di democrazia, di democratizzazione della Serbia e quindi della formazione di una nuova cittadinanza. Credo che le vie per la ridefinizione del concetto di sovranità nazionale passino anche attraverso questo processo di democratizzazione, nel quale la sovranità non è tutto. La sovranità è limitata, non nel senso sovietico, ma dai diritti, dai riconoscimenti della cittadinanza, soprattutto è limitata da quel concetto di democrazia, che si è maturato nell’ Occidente e che è alla difesa anche delle minoranze.
Il concetto di sovranità nazionale, dunque, si sta modificando, lo vediamo nell’ Europa dell’ Unione Europea. In che senso ? Nel senso che la sovranità nazionale degli Stati membri dell’ Unione Europea è sempre più messa in discussione dalla stessa Unione Europea. Le università lo sanno, perché i fondi per la ricerca passano soprattutto da Bruxelles, più che da Roma o da Parigi o da Bonn; lo sa Atene, lo sa anche Roma ovviamente, perché certi progetti, grandi mega-progetti di sviluppo, passano attraverso l’adesione a regole formali, a standard fissati dall’ Unione Europea. Lo sanno anche per esempio gli agricoltori italiani e il governo italiano, quando devono pagare delle penali all' Unione Europea se non vengono rispettate delle regole. Questo è un altro modo di revisione, anche di messa in discussione della sovranità nazionale. Questo porterebbe il nostro discorso molto avanti : a dire, ma allora se l’ Unione Europea si espande, vuol dire che si espande anche verso i paesi balcanici e che li ingloba. Si avrebbe, dunque, una duplice spinta verso la messa in discussione e la ridefinizione del concetto di sovranità. Soprattutto, di quel concetto dove la sovranità è tutto e dove in nome suo vengono schiacciati i diritti elementari, anche quelli delle minoranze e del loro riconoscimento.
Un’ altra parola chiave mi sembra la sequenza tra Kossovo e libertà del Kossovo, forse indipendenza o forte autonomia, ad interim diceva il professor Janjic, dentro alla Federazione e poi questo dentro una nuova Jugoslavia o una nuova Balcania. Anche questo “regiornalismo” è importante, tuttavia anche questo ha il sapore di dèjà vu, bisognerà vedere se certi Stati vorranno fare parte della nuova Balcania, di questa entità neo-jugoslava, che già si prefigura o che immaginiamo possa nascere. In tal caso è possibile che l’ apertura, l’ espansione dell’ Unione Europea vada anche aldilà dei regionalismi e quindi possa aiutare, inserire, selezionare, codificare nuovamente in termini diversi questa sovranità nazionale ed interessare anche ai paesi balcanici.
Un’ altra affermazione che è stata fatta qui e che a me sembra molto interessante è: che il conflitto ha degli aspetti distruttivi, ma porta anche a produrre una sorta di maturazione, di autocoscienza, induce a creare la coscienza della propria identità, al rafforzamento di essa. Soprattutto nei confronti poi di quella sovranità che spesso viene degradata, declassata a una tribalizzazione di cui parlava la professoressa Rushani
Oggi pomeriggio siamo qui a trattare del “che fare” e credo lo si possa trattare in tanti modi. Certamente il “che fare” dei fini ultimi, di quelli per i quali addirittura si muore, ma penso che dovremmo in qualche modo limitare enormemente l’ importanza di questo genere di fini. In primo luogo, c’è un altro obiettivo, lontano, di lungo periodo che potremmo porci, che può essere quello dell’ assetto futuro dei paesi balcanici. E’ un obiettivo di lungo periodo, dicevo, che bisogna avere in mente e che lo si raggiunge attraverso obiettivi di breve periodo. In secondo luogo, eseguendo da questo punto di vista quanto ci diceva il professore Janjic, è necessario che la realizzazione di questo lungo periodo sia abbastanza aperta: lui usava la parola ad interim.
Ritornando al “che fare ?”, il “che fare” nel breve periodo è “un che fare” subito, adesso. E, se sono d’ accordo i partecipanti alla tavola rotonda, potrebbe essere proprio più importante trattare questo, certamente con una visione a lungo periodo, che, però, possa essere sottoposta a delle modifiche. Perché dico questo. Perché noi sappiamo che il lungo periodo è certamente legato ad una nostra visione del futuro, ma anche a delle immagini condizionate dal contesto, dalle relazioni del momento o dei tanti momenti che ci permetteranno di realizzare questo futuro. Fra gli obiettivi del breve periodo è fondamentale quello del dare fiducia. Fiducia è una parola grossa, ma una parola indispensabile, perché le persone che si mettono intorno a un tavolo a trattare, a parlare del futuro o a parlare anche delle contingenze, devono avere fiducia l’ uno nell’ altro, averne un minimo, o perlomeno cercare di trovare questa fiducia, cercare di non parlare dei torti, non di dimenticarli. Comunque cercare di lavorare, perché questi torti o questi soprusi non si perpetuino. Dare fiducia è l’ idea concreta degli obiettivi a breve periodo. Certamente è un’ idea generica, ma è anche, come ho detto prima, disponibile alla modificazione degli obiettivi a medio e lungo periodo. Dare fiducia….”che fare” per dare fiducia: a mio avviso dovremmo parlare di attori e di strumenti. Attori sono i politici, ma anche la gente e la società civile, sono anche le organizzazioni internazionali e - perché no, siamo realisti - l’ autorevolezza degli Stati che hanno il potere, di imporre a volte, quelle sanzioni positive di cui ieri si parlava. E anche attori che simulino anche che cosa succede se si introducono certe variabili, se si vuole realizzare il tutto adesso, se lo si vuole realizzare a medio termine, se insomma si inseriscono, si manipolano delle variabili nuove. Quali strumenti. Gli strumenti sono ovviamente gli incontri, ma possono essere anche, come ho detto prima, le simulazioni del vedere cosa si può fare.
A mio avviso, questa è una prima domanda. Altre domande riguarderanno: quale società del Kossovo vogliamo ? Quali élites ? Non dobbiamo dimenticare che se devono essere ricostruite delle élites per la democratizzazione della Serbia, dovranno essere costruite, ricreate delle élites economiche, sociali, politiche, culturali, che gestiscono anche il nuovo Kossovo e la nuova realtà. La nuova realtà che verrà dopo l’ aver creato questa fiducia e l’ essersi incontrati e orientati verso la realizzazione di questi aspetti positivi di soluzione. Una soluzione che potrà essere l’indipendenza del Kossovo, una sua larga autonomia o tante altre cose.
Qui siamo riuniti in parecchi. La proposta è quella di limitarci ad un primo giro di dieci minuti ciascuno, eventualmente su questi aspetti molto concreti, poi di aprire la discussione. Grazie”.

Prof. Marek Zelazkiewicz :
“Mi chiamo Mark Zelazkiewicz e desidero ripeterlo, perché vorrei sottolineare le mie origini polacche e la mia americanizzazione di breve termine; ho vissuto quindi il periodo di transizione nel mio paese, dal comunismo al libero mercato, dal dominio autoritario alla democrazia.
Come introduzione a questo mio intervento, desidero sottoporre alcuni punti: credo che l’autodeterminazione, la vera sovranità non possano essere raggiunte nello scenario politico e che la sovranità e l’autodeterminazione siano il risultato di un lungo processo di lotta, in un determinato paese e nello scenario internazionale. La nazione o paese che costruisce su questi aspetti di vita sociale, può riuscire a raggiungere l’ autodeterminazione e autogestirsi, può diventare sovrana. La parola repubblica non significa nulla se l’ economia è traballante, se l’ aspetto umano viene trascurato, se l’ ecologia è in uno stato disastroso, se il sistema politico è caratterizzato soltanto dall’ etichetta della democrazia. Direi infatti, a mo’ di introduzione, che abbiamo ancora molto da fare, immediatamente, abbiamo tutti un lavoro da svolgere, noi come persone, individualmente, e come organismi non governativi, per la crescita politica e governativa dell’ arena del Kossovo; vi è spazio per tutti coloro che provengono dalle varie parti del mondo per sostenere, appunto, la sua autodeterminazione.
Ora vorrei ordinare il mio intervento in quattro diversi capitoli: innanzitutto, vorrei parlare delle misure immediate; in secondo luogo, farò un commento che riguarda il periodo di transizione, spiegherò che cosa significa; in terzo luogo, darò alcuni esempi di misure e provvedimenti pratici che possono essere adottati e devono essere adottati al più presto possibile nel Kossovo, ed infine, se rimarrà del tempo, vorrei fare un commento che riguarda dove possiamo trovare questi sostenitori, questi partner.
Iniziamo con le misure immediate da adottare. Lascio agli storici tutto ciò che è successo fino ad ora. Non è il mio argomento d’ elezione e non vorrei essere coinvolto in questo tipo di dibattito, che è dominio degli storici. Il passato lo lascio quindi agli storici. Potrei invece parlare di lotta politica delle prossime settimane, dei prossimi mesi, tra tutti i partiti, ma anche questo non è di mio dominio, è dominio dei politici, è un settore che riguarda i politici. Il dibattito politico, allora, lo lascio ai politici.
Tuttavia ritengo che ci siano delle misure di base immediate che debbano essere prese per il vantaggio di tutti coloro che sono coinvolti, che vogliono esserlo, sia per i Kossovari, che per i serbi e per tutte le popolazioni europee e dei Balcani. Le prime misure immediate da prendere, a mio avviso, sono abbastanza ovvie: innanzitutto, è necessario sostenere il diritto di autodeterminazione nel Kossovo in qualunque modo, da parte di tutti i paesi che desiderino apportare un contributo e un aiuto. Questo tipo di sostegno dovrà essere rivolto al dialogo tra tutte le parti in causa; in secondo luogo, che le misure immediate debbano essere adottate per sostenere la democratizzazione della Serbia, anche qui in ogni modo possibile e con ogni modalità. Perché? Innanzitutto perché gli albanesi hanno bisogno della Serbia democratica, come vicino e non di un paese aggressivo e autoritario, anche l’ Europa ha bisogno di una Serbia democratica. Al momento la Serbia mi sembra una tasca dimenticata dalla storia, l’ ultimo paese che è arretrato di 10 anni nel processo di sviluppo, di transizione politico-economica e culturale, che è appunto una transizione che va dal comunismo all’ economia di mercato. Ed, infine, per il vantaggio della stessa nazione serba, la Serbia ha bisogno di democratizzazione, di lasciare da parte questa sua passione per il nazionalismo, di scrollarsi di dosso questo nazionalismo estremista che caratterizza il paese. Si tratta quindi non soltanto di una questione di sopravvivenza dello spirito della nazione serba, ma anche di sopravvivenza economica della Serbia stessa e di tutta la regione balcanica. Non dobbiamo, infatti, aspettarci - e desidero parlarvi della mia esperienza dal punto di vista dello scenario politico americano -, che l’autodeterminazione del Kossovo e la democrazia della Serbia, debbano venire da potenze straniere. Non è mai accaduto, se diamo uno sguardo alla storia del conflitto nella fase comunista e post-comunista, queste aspettative non sono mai state accordate, è stato sempre un processo molto costoso, di lotta molto dura, da parte della nazione che aveva deciso di intraprenderlo per ottenere dei risultati.
Passo al secondo punto: il periodo di transizione. Come potete vedere sto sostenendo che il periodo di transizione può essere raggiunto con successo, che si può attraversare questa fase di transizione con un buon esito, se gli albanesi nel Kossovo e i serbi in Serbia, compiranno gli sforzi necessari, loro per primi, nel dare il via a questo periodo. Questa strada può essere percorsa in un numero svariato di anni, pochi o molti. Questo processo di trasformazione sarà diverso in Serbia rispetto al Kossovo, poichè la nostra conferenza mette a fuoco la situazione del Kossovo, lascerei da parte la Serbia, per il momento.
Passerei adesso al terzo punto: le misure pratiche da adottare per il periodo di transizione in Kossovo. La transizione da una situazione di miseria, di guerra, di distruzione, ad una situazione di autosufficienza, di sviluppo economico, politico e sociale, sarà un processo difficile, arduo, caratterizzato da conflitti, talvolta piùttosto aspri. Appena la dittatura autoritaria sarà eliminata, gli albanesi dovranno affrontare i propri conflitti, le proprie contraddizioni. Queste contraddizioni potranno forse venire a galla, in maniera talvolta violenta. D’altro canto, ogni nazione possiede delle risorse proprie che possono essere utilizzate per avere successo in questa fase di transizione. Per come vedo io la situazione, la risorsa più preziosa, più importante e con maggiori potenzialità del Kossovo è rappresentata dalla risorsa umana, dalla popolazione del Kossovo. Questo potenziale umano si trova in una situazione drammatica attualmente: l’ istruzione non è stata sviluppata in pieno, per raggiungere i livelli europei e del resto del mondo, e migliaia di persone, non so esattamente quante, ma indubbiamente parecchie, stanno vivendo il trauma della guerra. Probabilmente avrete sentito parlare della sindrome del Vietnam e della sindrome della Guerra del Golfo in America, si tratta di una malattia, diciamo di proporzioni epidemiche di centinaia di milioni di persone che hanno vissuto la guerra. Questo è anche il caso del Kossovo. Oggi ci troviamo a conoscere, ad affrontare la sindrome del Kossovo, che significa che una buona parte della popolazione kosovara ha bisogno di curare questa malattia epidemica. Nel campo del potenziale umano il Kossovo ha bisogno di una nuova istruzione che possa raggiungere quella dei livelli medi mondiali, insieme a una serie di altri elementi.
Le misure pratiche nella fase di transizione possono anche essere adottate nell’ area delle telecomunicazioni e delle comunicazioni in generale. Un professore qui ha presentato, il Koha Ditore, un giornale con immagini e fotografie, ma, sfortunatamente, cari amici del Kossovo, sino a quando non parlerete in inglese e sino a quando questi giornali non saranno stampati in inglese, in francese o per lo meno in italiano non avrete voce, non sarete ascoltati, perché potrete parlare soltanto tra di voi, non con l’opinione pubblica internazionale. E’ pertanto necessario migliorare la capacità di comunicazione, di comunicare in entrambe le direzioni: sarebbe infatti opportuno che le persone del Kossovo potessero ottenere una traduzione in albanese delle trasmissioni della CNN, perché è importante sapere ciò che gli altri pensano oggigiorno ed essere in grado di intraprendere un dialogo.
Un’ altra area è la transizione politica dalla situazione attuale, non desidero descriverla a fondo, perché assai complessa, poco chiara e segna l’ inizio della democrazia. Ma la transizione verso una democrazia totalmente sviluppata è una questione che richiede poco tempo. Nella situazione attuale esistono 3 entità: la presidenza, il Parlamento e l’ UCK con un certo sostegno politico, appena il Kossovo raggiungerà l’ autodeterminazione potremo aspettarci che le contraddizioni, tra queste e altre entità politiche, sicuramente sorgeranno. Che cosa si dovrà fare allora in questa fase ? Saremo pronti per una fase di mediazione ? Per una fase di risoluzione non-violenta dei conflitti? Da questo punto di vista suggerirei di sostenere a tutti gli elementi caratteristici della società civile, delle istituzioni non governative, una regola democratica, un comportamento democratico in tutti gli ambiti della vita. I centri come quello del signor Agon Demjaha, il Center for the Development of Civil Society o come come quello (del signor Selinis) creato a Pristina solo tre settimane fa, il Center for Democratic Culture (egli è l’ ex-segretario della Corte Costituzionale del Kossovo), sono due centri che dovrebbero essere sostenuti in tutti i modi possibili.
Bisogna sgrossare il progresso verso la democrazia in termini pratici. la democrazia intesa come modo di comportamento dovrebbe essere introdotta all’ interno delle università, non come un corso supplementare di scienze politiche, ma come corso obbligatorio per tutti gli studenti che frequentano le Università di Pristina. I libri, che presentano questo processo di transizione verso la democrazia, dovrebbero essere tradotti in albanese.
Molte altre misure dovranno essere adottate. Già conosco molti organismi che sostengono e che sarebbero pronti a sostenere, anche in un futuro prossimo, questo tipo di attività o di sforzi.
L’ area successiva riguarda la transizione economica. Da una economia sottosviluppata e caotica, il Kossovo dovrebbe passare, al più presto possibile, ad una economia di sviluppo, di autosufficienza economica. In questa area ci troviamo dinanzi a molte contraddizioni: innanzitutto la disoccupazione, non appena le persone che vorranno un lavoro scenderanno per le strade, come affronteremo tutto questo ? Le aspettative non sono soltanto la libertà, ma anche migliore tenore di vita.
E infine desidero menzionare i problemi ecologici. Purtroppo nel Kossovo mi sono reso conto di quanto sia inquinato questo paese. Si tratta di un’ esigenza di sopravvivenza biologica della nazione avere acqua pulita, aria pulita. Abbiamo dei buoni partner in California, siamo pronti a condividere le nostre esperienze. Anche in Europa abbiamo diversi partner.
Per giungere ora alla fase conclusiva del mio intervento. Dove trovare questi partner e persone che sostengano queste attività nella fase di transizione ? Innanzitutto il mio consiglio sarebbe di cercarli nelle risorse interne del paese, nel potenziale umano, ho conosciuto tante persone, dei professori, che sono pronti ad intraprendere questa strada per oltrepassare la situazione attuale. In secondo luogo suggerirei che la cooperazione nel Kossovo dovrebbe attivare i rapporti con i paesi dell’ ex-Europa dell’ Est, che abbiano già passato questa fase di transizione dal comunismo alla economia di mercato e finalmente alla democrazia. Suggerirei di guardare con molta attenzione ai paesi altamente sviluppati, come l‘ Europa Occidentale e gli Stati Uniti d’ America, per evitare gli errori compiuti da questi paesi nel processo di industrializzazione.
Infine, sono pronto a trasmettere questo vostro messaggio ai miei amici, ai miei colleghi dell’ Università di Berkley in California, ai Peace Workers, ai gruppi che sostengono il Kossovo, se tutti voi desiderate che questo messaggio sia trasmesso. Per tutti questi aspetti e per tutti gli altri di transizione e di sviluppo, abbiamo esperti che sono pronti a venire ad aiutarvi. Grazie”.

Don Albino Bizzotto :
“Parto da una posizione molto debole, sia perché ho ascoltato con molta attenzione questa mattina e certamente non sarò io a suggerire nuove soluzioni politiche, visto che ce ne sono tante e che c’è poi una certa difficoltà nel praticarle; sia perché la debolezza della mia posizione dipende dal fatto che, come società civile, ci troviamo in un momento di non grande partecipazione e passione: la situazione del Kossovo ci arriva attraverso una forma assai semplificata, percui non siamo a conoscenza né della storia, né della complessità della situazione e perché - gli albanesi non me ne abbiano - l’ immagine degli albanesi in Italia non è sempre un’ immagine molto positiva. Con gli avvenimenti che sono accaduti in Albania, credo che in Italia l’ atteggiamento, più diffuso in questo momento, non sia di apertura.
Ho messo giù uno schema per fare alcune osservazioni e per chiedere in fine qualche consiglio a voi, come società civile, per le iniziative che vogliamo intraprendere.
La prima osservazione che mi pare possa essere condivisa è che noi, come società civile, veniamo a conoscenza della realtà degli altri paesi soltanto ed esclusivamente per il tempo dell' intromissione del conflitto armato. I paesi a noi vengono alla luce soltanto e solo per il tempo in cui esiste il conflitto armato. Così è stato per i paesi africani del Ruanda, del Burundi, della Somalia, del Congo e anche per il Kossovo. Lo stesso per la Bosnia, nessuno sa come sta andando avanti Deitun in Bosnia e, tutto sommato, non interessa più a nessuno.
Per questo credo che la soluzione politica vada ricercata ad ogni costo, perché puntare sulla vittoria delle proprie posizioni significa, alla fine, portare a uno scontro e portare alla guerra. La pace che nasce dalla guerra - sto guardando molto dentro il problema di Deitun - oltre che imposta, non è rispettosa dei diritti dei popoli, ma è soltanto il compromesso raggiunto tra i contendenti e risponde principalmente a una cessazione dello scontro armato, delle armi e non a una composizione positiva del conflitto. Pregherei di analizzare questo aspetto, perché è fondamentale anche per intraprendere strade per arrivare, almeno, a delle parziali soluzioni.
L’ altra cosa che mi preme sottolineare è che la guerra oltre alla devastazione materiale, porta principalmente a una devastazione dei popoli. Lo scontro armato in Kossovo, in questo momento porta a una radicalizzazione “reale” dei rapporti tra i popoli, ad una separazione dei rapporti e non si può pretendere da una persona, che ha alle spalle un dramma, che sia tranquilla e accetti tranquillamente la realtà. Tutto ciò pesa ovviamente, anche sul piano politico, per arrivare a delle conclusioni e a degli accordi.
L’altro elemento che mi preme sottolineare è: che quando una pace viene firmata dopo una guerra, generalmente accetta la filosofia della guerra. In questo momento in Bosnia, in Croazia, nella Repubblica Sebska, nonostante i propositi, le dichiarazioni di principio sulla convivenza, sulla possibilità dei popoli di rimanere uniti, il rapporto con le minoranze è rimasto immutato dal punto di vista del potere politico. In Istria, a Bukovar - ci sono stato lunedì scorso - , si pratica ancora la discriminazione etnica. Dovunque, anche a Sarajevo. Quindi è da tener ben presente anche questo altro aspetto, sul piano pratico: una pace che viene da una guerra mantiene intatta la filosofia della guerra.
Aggiungo che in questi processi di pacificazione, tutti i leaders sempre si rifanno alla società civile, ma nella democrazia, che viene dopo la guerra, la società civile è quasi esclusivamente serbatoio di consenso: non è richiesta la partecipazione reale, anzi diversificandosi per etnia, anche a livello politico, si ha la politica in verticale, non la politica in orizzontale. La misurazione non avviene più sul programma politico e quindi sulla valenza e sul modo di riconoscersi della persona, sulle cose che sono di maggiore utilità per tutta la società, ma si misurano esclusivamente sul rapporto di maggioranza o di opposizione in termini etnici. Questo comporta molte difficoltà.
C’è anche un altro aspetto: una difficoltà che io sento in questo momento, anche a livello internazionale, gli Stati preferiscono agire da soli indisturbati. I movimenti della società civile, in qualche modo non dipendenti direttamente dagli Stati o dai governi, sono visti più come un terzo incomodo, con cui fare i conti, piùttosto che una risorsa, non solo umanitaria, ma anche politica, per risolvere i problemi. Generalmente devo dire che le ONG, cioè tutti i gruppi che lavorano, i gruppi di volontariato, nel senso più ampio del termine, sono quelli che conoscono i problemi concreti a partire dai bisogni della società civile, dai bisogni della gente, potrebbero essere veramente una grande risorsa, ma diventano buoni solamente quando ci sono dei progetti umanitari da portare avanti, per il resto non sono buoni, anzi i governi diffidano di loro.
Adesso penso a quale sia il terreno pratico per la società civile nella specifica situazione del Kossovo. Sto cercando di enucleare alcuni aspetti, alcuni punti e, ripeto con grande povertà, senza entrare nel merito politico. Compito primo è quello di stabilire un rapporto di conoscenza e di partecipazione agli avvenimenti rompendo la semplificazione che ci viene dai mass-media - lo dico senza attaccare, senza polemica nei confronti dei mass-media -, perché c’è un rapporto, una convivenza tra le notizie che desideriamo trovare e quelle che ci vengono ammannite, la merce che ci viene ammannita. E’ chiaro, però, che semplificare una situazione come quella del Kossovo significa non entrare nel merito di niente. Quindi abbiamo bisogno proprio di conoscenza in Italia, in questo momento, della situazione.
Il secondo terreno su cui impegnarci è il “no” alla guerra con molta decisione e con una posizione netta nei confronti di tutti quelli che accettano e hanno fiducia nella guerra. Devo dire che in questo momento nella società albanese c’è una controtendenza, perché i più giovani, specialmente, hanno visto che in tre mesi o in pochi mesi la guerra ha mosso la comunità internazionale, molto più velocemente che in 8-9 anni di resistenza non-violenta. Questo è un problema di difficoltà, di grande attenzione, di grande sensibilità e di grande rispetto per la posizione delle persone che soffrono, però anche di dissenso rispetto all’ idea di arrivare ad una pace, che sia una pace della società, tramite la guerra. Su questo credo che Gandi abbia molto da dirci. La stessa esperienza è stata fatta da tutto il gruppo dirigente del Kossovo che avrebbe molto da insegnarci. Per questo la porta d’ entrata per comunicare ed essere presenti in termini attivi, credo che per noi sia quella di partire dal punto di vista delle vittime, di tutte le vittime, e dai bisogni concreti della popolazione. So bene che tutto ciò comporta una grande fatica, a Sarajevo sono stato mandato via in malo modo, quando ho detto che gli ammalati di tumore nell’ ospedale serbo erano come gli ammalati di tumore nell’ ospedale non-serbo di Sarajevo, quando abbiamo posto il problema che tutti i bambini hanno il diritto di non portare il peso delle colpe dei padri. Questi sono i problemi. A chi vive all’ interno di conflitti, dove lo schieramento è essenziale., per uscire dalla situazione, si chiede sempre che ci sia non una equidistanza, non un monitoraggio, non una presenza attenta a tutti, ma una solidarietà dove chi soffre di più ha diritto più degli altri. Questa è la fatica che sosteniamo tutti noi, l’ ho sperimentato per esempio in Chapas, lo stesso subcomandante Marcos ci ha preso in giro per un’ azione di monitoraggio.
Tuttavia, a livello politico, un’ azione di monitoraggio, cioè rilevare la realtà per presentarla poi politicamente alla Comunità Internazionale, è secondo me, un’ azione di valore politico molto più grosso, che non una semplice azione di solidarietà e che verrebbe vista come un mero schierarsi da una parte o dall’ altra.
So bene che quanto sto dicendo è difficile da attuare ed in questo non c’è nessuna pretesa, nessun desiderio di insegnare, ma guardo ad una “presenza” che si fa capire, attraverso le vittime e i bisogni della popolazione.
So anche che noi non possiamo costituire un polo politico all’ interno del confronto politico fra le parti, però per la popolazione è molto importante trovare un riferimento, non esclusivamente politico, ma diretto, perché credo che ricostruire la fiducia rompendo la propaganda, la comunicazione separata, che ricostruire la fiducia pratica, siano dei compiti che la società civile può portare avanti. L’ ultima volta che siamo entrati in Kossovo, ho verificato che i gesti per creare quel “riferimento” possono essere piccolissimi, gesti, come portare semplicemente le fotografie dei nipotini nati all’ estero o una busta con dei soldi, sono capaci di mobilitare, all’ interno di tutto il gruppo, una simpatia e, in seguito, anche una possibilità di comunicazione che rompe lo scontro di una comunicazione che esiste fra la gente soltanto per scontrarsi. E’ quindi una forte presenza di società civile capace di instaurare dialoghi e percorsi concreti, che mettono in rapporto differenti situazioni, sofferenze, problemi. Anche in Italia abbiamo dei problemi, non ne siamo esenti.
Fare questo potrebbe, secondo me, attutire almeno un po’ questo momento drammatico in Kossovo, dello scontro fra le popolazioni, e potrebbe aiutare a facilitare i rapporti negli scambi commerciali, negli scambi culturali, per esempio: creare in Italia un movimento di integrazione fra i rifugiati, provenienti dai vari paesi, presenti sul nostro territorio. Un’ iniziativa del genere diventerebbe importante per la trasmissione di messaggi all’ interno di altri territori , e per stabilire una certa tranquillità nei rapporti e nei passaggi , perché sono convinto che molti rifugiati Kossovari all’ estero, non ritorneranno subito in Kossovo , ma entreranno e usciranno in continuazione, se ciò accadrà attraverso un buon rapporto, per la società civile significherà scambi ulteriori o momenti culturali ulteriori.
L’ ultima volta che siamo stati in Kossovo abbiamo incontrato un rappresentante religioso della comunità ortodossa e un rappresentante religioso della comunità cattolica, entrambi si stimano reciprocamente, ma fra loro non si parlano. Abbiamo pensato che se non decideranno di telefonarsi, andremo noi a prelevarli e li faremo incontrare, confrontare, li porteremo a guardarsi in faccia.
Questo lo possono fare persone che hanno già fatto e maturato un grande cammino interiore e pratico nei rapporti con la popolazione e pensiamo che sia uno dei punti che possiamo sollecitare, anche dalla Comunità Internazionale come società civile, cioè creare dei poli di inormazione per rompere quella spirale maledetta dove la comunicazione è solo quella della propria parte. Un esempio di questo è il fraintendimento, di questa mattina, che ha portato ad uno scontro fra di noi, distraendoci dalla ricerca e dalla comprensione più profonda nei rapporti, mi riferisco al discorso di Simic, che non intendeva giustificare ciò che diceva, ma che poneva il problema di un certo tipo di informazione che circola solo nell’ ambito in cui viene data.
So di aver parlato di cose piccole, domani parlerò del progetto “I Care! “, ma mi interesserebbe proprio perché il primo “servizio sulla società civile è per noi in Italia, ne abbiamo molto bisogno; il secondo è una comunicazione che possa in qualche modo stabilire rapporti e punti che non dipendono solo da decisioni politiche , il nostro “che fare?”rimanga interno non soltanto all’accordo e alla firma degli accordi, ma alla possibilità di realizzarli quando la gente accetta di muoversi all’interno dei rapporti diversi, altrimenti non funzionerà.

Prof. F. Sejdieu :
“Penso che la maggior parte delle tesi, che qui sono state poste, abbiano un grande spazio di interpretazione e che si possano considerare originali. È chiaro che per trattare la questione del Kossovo, in questo momento, dobbiamo confrontarla con tre o quattro fenomeni che ci vengono in mente. Il primo che si chiama “sovranità” , il secondo “oppressione” e il terzo che guarda alle pretese di tutte le parti in conflitto.
È risaputo che in Kossovo c’è un conflitto fra la maggioranza albanese e la Serbia, cioè la Jugoslavia federale, che tratta il Kossovo come se fosse una sua regione, difendendo questo atteggiamento con la forza. L’altra parte, quella albanese, ha deciso di resistere parallelamente con la resistenza non-violenta. È trascorso però molto tempo e la gente, che fa parte dei movimenti non violenti del Kossovo, ha chiesto aiuto a tutti, ricevendo risposte fino ad ora inadeguate. Quali sono le soluzioni per uscire da questa situazione ? Prima di tutto bisogna far tacere le armi. C’è un detto latino che dice: “Dove ci sono le armi, la ragione scappa”, bisogna comprenderlo bene e non interpretarlo nel senso del dare la precedenza alle armi, per giustificare la militarizzazione del Kossovo. In secondo luogo, è molto importante che l’ aiuto internazionale sia diretto, la questione è: se sia possibile garantire un’ operazione delle organizzazioni internazionali governative e non ed il loro intervento in questo conflitto.
Ieri si è parlato dei grandi sistemi economici del Kossovo come opera dei diversi paesi dell’ Occidente, e come tutto ciò produca degli effetti sulla situazione. Se in Kossovo non ci fossero interessi economici, tutto ciò che lì sta accadendo sarebbe marginale. Da parte nostra, riteniamo che la Serbia si muova per il suo interesse economico, che genera l’ attuale carattere coloniale nell’ atteggiamento serbo.
In merito alla democratizzazione della Serbia , inteso come bisogno proprio della popolazione serba, ritengo che se questa idea riuscisse a diffondersi in certi ambienti potrebbe andare avanti, ma ho paura che la maggior parte della gente abbia lo stesso atteggiamento nei confronti della questione kosovara. L’estrema paura che abbiamo è che se mancherà l’ intervento di tutte le parti interessate, il Kossovo si rinchiuderà in se stesso e la gente non troverà prospettive di vita. Quindi accadranno le stesse cose e si avranno le stesse conseguenze che si sono avute per altri progetti e precedenti esperienze in Kossovo.
Cosa possiamo fare noi in Kossovo ? Credo che da parte nostra ci sia l’ apertura al dialogo con tutti, vogliamo che tutti i cittadini del Kossovo si sentano uguali tra di loro. Pensiamo che nessuna etnia del Kossovo dovrebbe andar via e che noi tutti dobbiamo lavorare affinchè ciò non accada. Il professor Nushi ci ha dato alcuni esempi in questo senso.
Speriamo che anche questa generazione, che noi consideriamo tollerante, continui ad agire in questa logica, perché è in essa che noi troviamo una risposta alla domanda : “Abbiamo trascorso assieme un periodo di tanti anni e cosa è successo ?”. Dovremo avere dunque ancora pazienza e lavorare di comune accordo. Mi viene in mente un’ affermazione di un nostro amico italiano che dice: “La nostra pazienza è arrivata alla fine, però continuiamo, perché è la strada più giusta, che non va idealizzata, ma presa come realtà e, quindi, bisogna continuare a lavorare in tal senso”. Grazie”.

Prof. P. Simic:
“Una frase che ho sentito pronunciare, sia ieri che oggi, ma anche in molti altri convegni sul Kossovo ai quali ho partecipato è: Quando i Serbi se ne andranno, e non: Quando il compromesso sarà raggiunto o Quando verrà trovata una soluzione. Questo è un verdetto, non una proposta su come ottenere il rispetto dei diritti umani, su come creare una società multiculturale, multietnica o multiconfessionale o come ottenere un modello che possa permettere la sopravvivenza della regione balcanica , che è una delle regioni più multietniche d’ Europa. Neanche questo che ha portato all’ Europa la nozione della polveriera dei Balcani. Qui si tratta dell’ idea di come, ad esempio, gli ebrei avrebbero reagito quando qualcuno avesse detto: Quando gli ebrei se ne andranno da Gerusalemme, o, per fare altri esempi: Quando i polacchi se ne andranno dalla Cecoslovacchia. Quando gli albanesi se ne andranno dal Kossovo. Neanche fra i nazionalisti più fervidi, né in Serbia, né in Albania e né fra gli albanesi si è sentita una frase del genere. Ho sentito nazionalisti militanti, da entrambe le parti, e nessuno dei due è riuscito mai a voler ottenere una pulizia etnica totale della zona, semplicemente litigavano per chi avrebbe detenuto il potere. Ma qui abbiamo qualcosa di diverso: “Che cosa accadrà se i serbi dovessero andarsene dal Kossovo ?”. “Si devono portar dietro tutte le reliquie, tutte le proprietà, tutte le loro terre, la loro storia ?”. Oppure devo porre altre domande.
Forse devo rispondere alla domanda: “Che cosa accadrà quando i serbi se ne andranno nel Kossovo?”. I serbi se ne andranno dal Kossovo e allora forse anchei musulmani se ne andranno dalla Bosnia, i macedoni dalla Macedonia, i Greci da Cipro. Forse avremo una catena di divorzi che seguiranno il precedente, dato dal principio di stabilire e di creare degli Stati-nazione etnicamente puliti, che era il sogno violento di tutti i nazionalismi della Jugoslavia, che dicevano che gli Stati multietnici sono impossibili e che solo gli Stati-nazione possono assicurare una buona transizione e quindi prima dobbiamo dividerci, fare la transizione alla democrazia, creare degli Stati-nazione stabili e, se possibile, culturalmente omogenei, e dopo potremmo rivedere se, come Stati-nazione ormai ben costituiti, possiamo riunirci.
Questo è il messaggio del nazionalismo nei Balcani, è questa la logica che, per ora, ha scacciato milioni di persone dalle loro case in tutta la ex-Jugoslavia Centinaia di migliaia di persone hanno perso la vita per questo e adesso stiamo vedendo gli orrori di una crisi balcanica dopo l’ altra, perché la multietnicità ormai è passata di moda. E allora ? Evviva gli Stati-nazione !?. Signori e signore, credo che questo sia molto sbagliato, credo che la multietnicità abbia le sue virtù: in Bosnia, in Serbia , in Macedonia, dappertutto, perché è così che le persone credono che i valori liberali e i raggiungimenti democratici dell’ Europa debbano essere applicati. Non pulire etnicamente gli Stati-nazione, ma permettere alle persone di vivere assieme come cittadini, avendo dei diritti negli Stati in cui vivono.
Ora vorrei dire qualche parola sulla sovranità e vorrei aggiungere qualcosa sull’ autodeterminazione. Vorrei attirare la vostra attenzione sul lavoro di due esimi esperti, professori: uno è italiano, si chiama Antonio Cassese, ex giudice del tribunale internazionale dell’ Aia, un esperto di diritto internazionale che ha scritto un libro due anni fa sull’ autodeterminazione; l’altro, un professore americano, (Hosthannan)(Harman), anche lui ha scritto un libro sull’ autodeterminazione partendo dall’ idea che se dovessimo seguire rigorosamente la definizione di autodeterminazione, prevalente agli inizi degli anni novanta, dovremmo riconoscere il diritto all’ autodeterminazione di tutte le comunità etniche del mondo, circa duemilaseicento comunità linguistiche, più di tremila comunità etniche, direi. In pratica la comunità internazionale entrerebbe in una condizione che non sarebbe così differente da quella che si ha nei Balcani. Questa frenesia di questo tipo di autodeterminazione, cioè che ciascun gruppo etnico, ciascuna nazione possa avere il proprio diritto, se non viene soppresso o pulito etnicamente, se sopravvive quindi, diventerebbe una strada per l’ inferno lastricata di buone intenzioni. Come dice l’ esimio Antonio Cassese dovremmo distinguere vari tipi di autodeterminazione, naturalmente tutte le comunità etniche hanno il diritto di esprimere la propria opinione , ma non sempre dovremmo avere una autodeterminazione esterna, bisogna cercare anche quella, che Cassese chiama, autodeterminazione interna, cioè una multitudine di forme di autonomia: personale, territoriale, politica, culturale eccetera… .
Quindi, per garantire l’ ordine internazionale dal caos che ne conseguirebbe, dovremmo cercare di organizzare l’ autodeterminazione per permettere alla gente di vivere bene, a proprio agio, all’interno di questo contesto, non è una teoria nuova. Quelli che di voi conoscono le teorie dell’ autodeterminazione, delle autonomie territoriali, eccetera. sanno che anche dopo la prima guerra mondiale la Lega delle Nazioni si trovava a disciplinare delle tensioni di questo genere, come nel caso delle isole nel mar Baltico, che erano sotto la sovranità finlandese, ma popolate dagli svedesi, per le quali la Lega delle Nazioni predispose dei principi che sono seguiti tuttora, così che le isole Aland vengono considerate una delle forme più progredite di autonomia territoriale. Adesso sia la Finlandia che la Svezia sono parte dell’ Unione Europea e forse l’autonomia delle isole Holland, che è esterna all’ Unione Europea, è quasi un elemento controproducente.
Vorrei aggiungere un paio di conclusioni al mio discorso. Rispetto alle ragioni dei diritti politici: i miei diritti non possono essere maggiori dei tuoi diritti, i diritti di uno non possono essere più diritti di quelli di un altro, i diritti umani sono egualmente grandi, hanno una propria dimensione, finché non interferiscono con i diritti dell’ altro, sia esso un essere umano o uno Stato o una comunità.
Se noi ci riferiamo a questo criterio dell’ autonomia, credo che potremmo guardare ai modelli raggiunti e che funzionano con successo nei paesi dell’ Europa occidental. Sarebbe possibile chiedere che i paesi balcanici accettino di più di quello che hanno accettato i paesi dell’ Europa occidentale, dei modelli comprovati di autonomia?. Personalmente propongo, già da sei anni, il modello dell’ Alto Adige, che, anche se doloroso come compromesso per entrambe le parti, è un modello che funziona.
Che cosa ci hanno insegnato la lezione dell’ Alto Adige e le lezioni più recenti, come quelle dell’ Irlanda del Nord, dell’ accordo tra Ungheria e Romania, eccetera?. Ci insegnano che a volte è difficile raggiungere un accordo, fra paesi in conflitto, sui temi etnici, perché le parti non tendono ad essere dei politici razionali, ma a comportarsi come dei liberatori, dei movimenti nazionali, dei leaders nazionali, che non sono disposti ad accettare niente di meno che la indipendenza totale per diventare padri della nazione, padri di uno Stato. Ne abbiamo sentito parlare e forse questo è un altro nome del nazionalismo della ex Jugoslavia, in fondo.
Ho tratto una lezione dal caso dell’ Alto Adige, l’ ho studiato per molto tempo; ci sono vari modelli, adesso va molto di moda studiare questi modelli. A volte è più facile che gli Stati tra di loro raggiungano un accordo, perché i capi nazionali hanno ambizioni nazionali, mentre gli Stati hanno interessi per gli Stati e, a volte, possono raggiungere un compromesso se hanno un obiettivo comune. Quel’ è l’ obiettivo comune secondo me ? Naturalmente ve lo presento di proposito qui in Italia, perché vorrei sentire l’ opinione degli italiani. Poichè tutti e due i paesi stavano cercando, di ottenere un obiettivo comune, cioè l’ ingresso nell’ Unione Europea, l’ Italia era già dentro, l’ Austria bussava alla porta, il sistema dell’ Unione Europea con le regioni, le frontiere, l’ accordo Shengen, aveva accettato delle rivendicazioni legittime delle minoranze, o delle comunità etniche, che vengono raggiunte legittimamente, senza cambiare le frontiere, garantendo semplicemente i diritti umani. Allo stesso tempo, l’ ingresso nell’ Unione Europea che come sappiamo non era un’ invenzione economica, ma politica per appianare i conflitti etnici che avevano causato due conflitti mondiali in questo secolo. In pratica si stavano offrendo le garanzie in modo tale che, alle comunità etniche, venissero garantiti i bisogni legittimi e che avessero tutte i diritti culturali, politici, economici e di sviluppo, senza cambiare frontiere e senza minacciare la sovranità degli Stati esistenti.
Questa è la formula che è stata usata per garantire la stabilità nell’ Europa moderna, e allora perché questo principio dovrebbe essere inaccettabile e inapplicabile nei Balcani ? Forse non se lo meritano ? È giustificabile dire che ciò che va bene per l’ Europa non va bene per i Balcani ? Oppure potremmo dire, imporre direi, ciò che abbiamo sentito dire oggi, cioè che l’ integrazione europea limita la sovranità degli Stati ? E’ vero: io rinuncio a parte della mia sovranità - qualsiasi accordo internazionale è una limitazione della sovranità -, ma, in cambio ho qualcos’ altro, ho una sicurezza, una garanzia che il mio Stato non sarà smembrato di nuovo e quindi tendo a non trattare le comunità etniche come comunità sleali, sovversive, senza la tentazione di usare la forza.
Ma se un aspetto della soluzione possibile è questa formula, cioè applichiamo ciò che funziona in Europa, mi rendo conto, studiando il modello dell’ Alto Adige, che è un modello molto costoso: ho capito che Roma paga tremila dollari per ogni abitante dell’Alto Adige, so che l’Unione Europea ha investito pesantemente in tutte queste regioni di confine e che ha adottato una serie di sistemi per proteggere le popolazioni. Un secondo aspetto che abbiamo tratto come conclusione in molte altre conferenze su questo tema è che solo l’integrazione in un contesto più ampio renderebbe possibile una tale soluzione.
Quindi lo slogan non è “prima risolvete i vostri problemi e poi considereremo di includervi o di annettervi all’ Europa”, dovrebbe essere il contrario che la proposta di includere nell’ Europa è una condizione per risolvere i problemi.
Tutto questo se i Balcani facessero parte dell’ Europa, ma se invece i Balcani sono il riflesso di una situazione dispotica dell’ Est , un rimasuglio dell’ impero bizantino, allora non sarà così. Una delle dottrine più sovversive nei territori jugoslavi è un libro, scritto nell’ 88 dall’ esimio Jean Baptiste Duroselle, che diceva che i Balcani non appartengono all’ Europa, che Carlo Magno aveva tracciato la frontiera fra Est e Ovest e che quello è il limite dell’ Europa e, allora, quei paesi che stanno nella parte dell’ Est non possono essere considerati europei.
L’ Europa si sente minacciata dalle ondate di migrazione, gli ultimi 140.000 albanesi del Kossovo hanno avuto il rifiuto dell’ asilo politico in Germania, 40.000 in Svizzera, solo nelle ultime settimane. Guardo all’ Unione Europea, mi dispiace che non ci sia Lucio Caracciolo, perché credo che fra le prime parole ragionevoli, da parte dell’ Europa occidentale, ci sia questo termine: Euroslavia, è vero che forse hanno scelto male il nome, perché per i croati e per gli sloveni era una cosa che sapeva troppo di Jugoslavia, però credo che l’ idea fosse giusta: mettere fine alla guerra, andare incontro alle rivendicazioni delle popolazioni, dare ciò che gli spetta cioè i diritti.
Seguiamo Cassese e altri studiosi che adesso stanno cercando di sistematizzare, di teorizzare l’esperienza degli ultimi sette-otto anni dal crollo del muro di Berlino, allora credo che l’ Europa debba trovare questa formula.
In rispetto a questo Paese che mi ospita, l’ unico passo che è stato fatto dall’ Unione Europea è stato fatto sotto la presidenza italiana due anni fa: il cosiddetto approccio regionale, ma poi è morto lì e, adesso, abbiamo la Nato, abbiamo Holbrooke, la sua turbodiplomazia e ci aspettiamo nuove guerreì.
Quindi, e concludo, credo che gli orrori balcanici serbi possano diventare una storia senza fine, se ciascun conflitto etnico viene risolto con la separazione, con il divorzio e con le parole “quando i serbi se ne andranno”, o “quando qualsiasi altro se ne andrà”.
Non dimenticate che i Balcani del Sud e dell’ Est sono pieni, come una pelle a macchia di leopardo, di conflitti etnici, perché ciò che accade in Kossovo si potrebbe tradurre per la Macedonia in Macedonia occidentale, per l’ Albania, in Albania del Sud o Epiro, per la Grecia in Cipro, per la Turchia in Kurdistan, per la Romania in Transilvania, devo andare avanti ancora ? Tutti questi conflitti li dobbiamo risolvere con la frase “quando quel popolo lì se ne andrà ?”. E’ questo il modo di risolvere le dispute nei Balcani ?
Quindi pensiamo seriamente ai valori Occidentali e ai diritti umani, vengo adesso dalla conferenza di Bucarest, dove la gente che vive nei Balcani orientali si sente molto frustrata, perché vede due pesi e due misure: sì abbiamo bisogno dei paesi dell’ Europa Centrale, strategicamente e i Balcani ? Mettiamoli da parte. Ciò che vorremmo applicare nei nostri paesi non va bene per i Balcani.
Mi dispiace se sono stato più offensivo di quanto non ne avessi l’ intenzione, ma penso che, adesso, quando c’è una grande guerra che incombe sui Balcani del sud, ho letto di recente che fanno delle scommesse sulla data in cui riprenderà la guerra : 3 di marzo, 5 di aprile... . Questo non è il messaggio che vogliamo sentire e il ruolo di un incontro come questo, di dialogo, dev’essere esattamente l’opposto. Grazie”.

Prof. A. L’Abate:
“Riprenderò uno dei temi che ha trattato il professore Simic. In particolare, il primo problema che si pone riguardo il Kossovo, è la contraddizione tra due principi di diritto internazionale: uno è un principio di diritto internazionale, l’altro è una decisione che concerne gli Stati. Il primo è il principio dell’autodeterminazione, che tutti riconoscono come un elemento del diritto internazionale, il secondo stabilisce di non toccare i confini dei paesi in generale, in particolare quelli europei, perché questo ripone problemi molto complessi.
Per quanto riguarda il principio di autodeterminazione, credo che il compito più difficile, sia quello di cercare delle forme in cui il principio venga soddisfatto, senza necessariamente ricercare la costruzione di nuovi Stati. Secondo Galtung il rischio è che seguendo solo quella strada, avremo il nostro futuro pieno di guerre. Anche nel discorso che faceva don Albino, che sostiene che bisogna intervenire per eliminare le guerre e non per farne altre, viene segnalato questo rischio. Bisogna quindi cercare delle forme in cui questi principi vengano soddisfatti a parità di diritti e di dignità, con tutti quegli elementi che sono fondamentali dei diritti umani, non solo attraverso forme statuali, ma anche attraverso forme sovrastatuali. E’ questa, mi pare che sia, anche l’ indicazione che veniva da Janjic e a cui si richiamava anche Mirie Rushani. Cerchiamo forme creative dunque per soddisfare il principio dell’autodeterminazione.
L’ altro principio, che è stato richiamato dalla politica internazionale, è quello per il quale attualmente si dice no all’indipendenza, sia perché si ha paura che il problema si estenda ad altre zone, alla Macedonia in particolare, ma anche al Montenegro e così via, sia perché è un principio che è stato posto a Helsinki e che si vuol mantenere.
Il problema che pongo è il seguente: se l’abolizione dei diritti costituzionali del Kossovo fatta dalla costituzione, nel 1989, attraverso un atto di forza e di violenza, non abbia concretamente modificato i confini. Il Kossovo, non era più Serbia, era una parte statuale di una Federazione e attraverso quell’atto si sono, di fatto, modificati i confini. Questo è vero. La comunità internazionale ha creato molti equivoci. In seguito all'uscita del mio libro, che trattava delle proposte delle ONG e dove molte pagine sono dedicate alle proposte di Simic, all’interno della Bertelsmann Foundation, è stato pubblicato un libro molto interessante di Troebs, un analista tedesco che ha lavorato all’interno della stessa fondazione, che analizza le proposte delle organizzazioni governative oltre a quelle delle ONG. Se si analizzano tutte queste dichiarazioni si può notare un grosso equivoco: di solito si parla di autonomia, ma in alcuni casi si parla di autonomia all’interno della Serbia e in altri casi si parla di autonomia all’interno della Jugoslavia, come se fossero due cose identiche, in realtà non sono affatto identiche e sicuramente bisognerebbe chiarire almeno questo concetto di autonomia.
Per ritornare ai problemi di cui abbiamo discusso anche ieri, l’amico francese ha detto che per portare avanti un’azione non-violenta a lungo raggio e ben centrata sono necessari degli obiettivi ben chiari, che noi dobbiamo definire a lungo, medio e breve periodo. In questo momento è necessario trovare delle soluzioni transitorie che riaprano il dialogo, che permettano di fare dei passi avanti, che migliorino la situazione, per ridare ad una politica del passo dopo passo una credibilità che non ha avuto finora. Ma per far questo è necessario che ci sia una forte mediazione internazionale. Personalmente e come movimento, non siamo molto favorevoli agli Stati Uniti, che fanno da soli il bello e brutto tempo in tutto il mondo, ma siamo più favorevoli alla valorizzazione delle Nazioni Unite, che si interpellano solo quando fanno comodo. Abbiamo creato le Nazioni Unite per dar loro un ruolo reale e, non solo, per dargli del denaro o del personale. Da questo punto di vista credo che sarebbe molto importante un intervento reale di un mediatore internazionale come le Nazioni Unite e non semplicemente degli Stati Uniti.
Ritorno al problema delle autonomie e delle soluzioni. Il giornale Review International Affairs - del quale non si può dire che sia pro-kossovaro, dato che in passato ha pubblicato i documenti peggiori di un certo sciovinismo anti-kossovaro, e in questo numero riporta un documento sul ritrovamento di fosse di serbi che sarebbero stati uccisi dagli albanesi e dall'UCK, ma non fa alcun cenno delle altre di cui si è parlato e che invece sarebbero dell’altra parte - ha pubblicato un articolo molto interessante di uno studioso di Belgrado che analizza le varie forme e i vari suggerimenti del gruppo di contatto. La prima proposta è l’autonomia del tipo Alto Adige.
Noi, come campagna per una soluzione non- violenta abbiamo organizzato un seminario, al quale erano presenti la Bertelsmann Foundation, la Comunità di Sant’Egidio e altri gruppi internazionali, come HCA, per studiare a fondo l’autonomia dell’Alto Adige e per vedere sino a che punto poteva essere utilizzabile nel caso del Kossovo. È venuto fuori qualcosa di molto preciso, e cioè che la Costituzione dell'Alto Adige riconosce a questa regione dei diritti molto inferiori rispetto a quelli che la Costituzione del 1974 riconosceva al Kossovo e che quindi non può essere un modello di risoluzione del conflitto. Tanto più che un articolo della legge internazionale dice che: “il livello di statualità e di sviluppo costituzionale raggiunto, che possa essere sospeso ed eliminato in possibili circostanze straordinarie non può essere degradato e dovrebbe essere ristabilito". Si è trattato in questo caso più che di circostanze straordinarie, di un atto unilaterale da parte dell’allora Jugoslavia ed, in particolare, da parte del Partito Comunista che imperava. A questo proposito, quando a Bolzano è stato chiesto cosa sarebbe accaduto se lo statuto dell’Alto Adige fosse stato tolto unilateralmente dagli italiani, la risposta netta dell’esperto di legge dell’Alto Adige, che era venuto a spiegarcela, è stata: “sarebbe la guerra”. Allora, se la guerra non c’è stata, almeno finora, dobbiamo ringraziare i Kossovari, che hanno scelto una politica ed una strategia non-violenta. Ma ritornando all’articolo, esso si conclude, come abbiamo visto, affermando che " lo Statuto non può essere degradato e dovrebbe essere ristabilito”.
Quindi, quando mi si parla del modello dell’Alto Adige, come una possibile soluzione, ho forti perplessità. Abbiamo una serie di fotografie che mostrano quante persone hanno votato per il referendum sull’abolizione delle caratteristiche statuali del Kossovo: erano una estrema minoranza. Hanno votato persone che non ne avevano il diritto : in pratica, l’eliminazione delle caratteristiche statuali è avvenuta attraverso un processo di illegalità che non può essere accettato a livello internazionale, se non rinforzando e giustificando agli atti di guerra. Un punto fondamentale è dunque che non si può chiedere meno di quello che c’era già. Quindi i diritti acquisiti nel ‘74, non possono essere eliminati, per quanto ne dica la Serbia, anche se i serbi organizzano un referendum per dire che si tratta di un problema interno. Dinanzi ad una violazione di questo tipo, alla violazione di diritti che erano già stati acquisiti, sinceramente credo che essi devono essere ristabiliti. E’ questo un elemento fondamentale per portare avanti un serio dialogo.
L’altro tipo di soluzione di autonomia, invece, a cui dedica molto spazio l’articolo che citavo prima, sempre proposta dal gruppo di contatto, si basa sull’esempio dell’autonomia delle isole Åland. L’articolo dedica a molto spazio a questo tema, ma non dedica neanche una parola a quelle due caratteristiche, che mi sembrano fondamentali nell’autonomia delle isole, che potrebbero servire per una soluzione transitoria, e, come diceva Janjic, per cominciare il dialogo. Le due caratteristiche sono: da una parte, il fatto che il garante era la Lega delle Nazioni (l’antecedente delle Nazioni Unite), quindi un garante di tipo internazionale; dall’altra, il riconoscimento della neutralità di questo paese e il riconoscimento di una loro accettazione di demilitarizzazione del territorio. Queste mi sembrano due caratteristiche importanti su cui lavorare, anche se il discorso del disarmo era molto valido quando la proposta di una autonomia di questo tipo da me portata avanti al Parlamenbto Europeo, nei primi mesi del 1996, ma allora l’UCK se non proprio non esistente, era una realtà decisamente minoritaria.
La terza proposta è quella del protettorato discreto. E’ certo che gli accordi prevedono la presenza nel Kossovo di personale civile dell’ OSCE; mi ha meravigliato l’ intervento di Fumarola, che parlava di militari, ma il fatto che siano militari l’ho citato io per far vedere la contraddizione che c’è nel mandare dei militari a fare delle operazioni civili. In realtà, questi che dovrebbero essere dei civili, non sono armati. Sembrerebbe che si tratti, come si dice nel numero di Limes, quasi di “un’intromissione interna”, ma il problema è se mai quei duemila osservatori internazionali siano sufficienti a garantire una transizione seria verso una soluzione migliore. Credo che duemila sia un numero inadeguato che dovrebbe essere aumentato, essendo stato quasi due anni in Kossovo e avendolo girato un po' tutto.
Sicuramente, questa presenza va protratta, fino a quando non si arriverà a situazioni diverse da quella attuale, e dovrebbe essere affiancata ad un’azione di disarmo interno. Ciò vuol dire che se da un lato si dovrebbero ritirare i militari serbi dal Kossovo e controllare il problema della polizia serba, quasi unica al mondo ad avere carri armati, armi pesanti e gruppi interni come quelli di Arkan, che sono fra i peggiori criminali; dall’altro si dovrebbe porre il problema della sicurezza, posto anche da Janjic, col disarmo dell’UCK, che può avvenire, man mano che va avanti il processo di autonomia del Kossovo, attraverso la trasformazione in quello che molti di loro erano già, cioè in poliziotti, ricostituendo sostanzialmente un sistema di sicurezza interno ufficialmente riconosciuto e controllato da parte del governo che si costituirà. Anche in questa fase sarà importante la presenza degli osservatori sia per proteggere quelle che sono le minoranze reali, quelle dei serbi nel Kossovo, perché nonostante la buona volontà di Rugova, resta il rischio di azioni di vendetta per regolare il problema dei profughi. Non dimentichiamoci che il problema del Kossovo è esploso quando la Germania, la Svizzera, la Svezia e anche l’ Italia hanno cominciato a rifiutare di dare asilo ai profughi e a rispedirli nel loro paese, cioè in una zona dove non c’era né lavoro, né alcuna sicurezza. Verso il suicidio, quindi. Chi rientrava spesso veniva messo in carcere, torturato, perseguitato : è ciò che è accaduto anche a una donna (nipote di Agani), che è stata messa in carcere con un bambino di due mesi, sia pur solo per qualche ora.
Quindi il problema dei profughi è un problema fondamentale e devono avere il diritto a rientrare in Kossovo, diritto rivendicato anche dai serbi. Ovviamente, anche loro hanno diritto a rientrare, se lo vorranno. In realtà, per quella che è la mia esperienza, la maggior parte dei profughi serbi che sono stati mandati in Kossovo, non ci sono andati volontariamente, ma per forza. Quindi se devono ritornare per forza, non vedo la necessità di tale rivendicazione.
Un altro problema, accennato da Marek Zelazkiewicz, è quello dell’aiuto alla ricostruzione dei villaggi e delle case che sono andate distrutte. È un grosso impegno, ma necessario, del quale si deve far carico tutta la comunità internazionale, altrimenti sono solo parole. I profughi kossovari hanno grande nostalgia del loro paese e la maggior parte di loro vuol rientrare in Kossovo, per questo credo che la comunità internazionale debba permetterglielo. Dico questo e ripeto che senza la presenza e senza un grosso impegno della comunità internazionale, la guerra comincerà tra qualche mese”.

Prof. A. Karjagdiu :
“Grazie per avermi dato la parola.
Sono discussioni molto interessanti, mi piace la presentazione dei diversi punti di vista, lo scambio, il confronto. Siamo qui, come una famiglia di intellettuali, dobbiamo ascoltare i messaggi e le argomentazioni degli altri, cercare di aggiungere i nostri punti di vista, confrontarci e forse giungere a delle conclusioni, se non noi, almeno chi ci ascolta.
Devo darvi una spiegazione, questa mattina un collega serbo ha detto che c’erano non so quanti serbi rapiti dall’ UCK. Secondo il nostro Consiglio per la Difesa dei Diritti Umani, che ha molti dati sui crimini e massacri commessi dall’ esercito serbo in Kossovo, abbiamo la cifra di 783 rapiti, di questi solo 42 sono serbi, gli altri sono albanesi ed ogni giorno si scoprono, in fosse comuni, cinque, sei, dieci cadaveri di albanesi, carbonizzati, massacrati. 741 persone albanesi scomparse in tre o quattro mesi durante l’ offensiva delle forze paramilitari e di polizia serbe.
Voglio rimanere nel tema della conversazione, perché è molto interessante. È stato detto anche, qualche momento fa, dulcis in fundo, qualcosa di interessante, forse incoraggiante: un nostro amico qui ha parlato di stati etnici da una parte e dall’ altra parte dell’ espressione “quando i serbi se ne andranno”. Devo dire che non ricordo di aver sentito dire questa espressione, ma se l’ ho detta io, mi dispiace, devo chiedere scusa immediatamente.
Voglio dire anche che, gli albanesi del Kossovo non hanno mai avuto, e non hanno adesso, uno stato etnico e non vorranno mai avere uno stato etnico, una comunità, per il semplice fatto che se guardiamo alla storia di queste due nazioni vicine, la serba ed l’ albanese, vedremo che da secoli sono tutte e due lì accanto l’ una all’ altra, da quando arrivarono gli slavi del sud in quelle zone, fin dalla creazione dello stato medievale della Serbia, con capitale Rashca, quindi dopo gli Illirici che erano lì, da molto prima, secondo i ricercatori inglesi e di altre nazionalità, ma non secondo gli storici albanesi.
Vorrei chiedere anche quante centinaia di migliaia di albanesi dovrebbero essere espulsi, rimossi con la forza con gli eserciti, ispirati del famoso memorandum dell’ Accademia serba delle Scienze. Dovrebbero andarsene come sono scappati di fronte alle atrocità delle autorità del regime serbo? 350.000, queste sono le cifre del Consiglio d’ Europa, in soli otto anni di colonizzazione serba, oppure devono essere 400.000 quanto sono quelli che sono scappati dai crimini e dalle atrocità delle aggressioni degli ultimi otto mesi. Persone, albanesi, che se ne sono dovuti andare a causa del fatto che uno Stato, per il solo fatto di essere Stato, li ha espulsi... quest’ anno, alla fine del ventesimo secolo, come nel Medioevo, quando arrivarono gli Unni e gli altri barbari nei Balcani. 350.000 persone che non possono essere lì, lasciate che se ne vadano in Germania, in Austria, in Svizzera o anche in Italia , e adesso? 400.000 dispersi, rifugiati, sfollati, perché le loro case sono state completamente bruciate da parte delle bande paramilitari e dalla polizia civile.
E’ vero, sono completamente d’accordo, con il mio amico, sul diritto internazionale, che il nazionalismo balcanico ha sempre fatto grandi sforzi per creare Stati etnici, per omogeneizzare la composizione etnica degli Stati. Questo è vero, e non solo questo: quegli Stati ei regimi, i re o i dittatori, stalinisti o totalitaristi, a volte anche “democratici”, hanno mostrato molto odio che ha scioccato l’ Europa e, ancora, sciocca gli intellettuali e la civiltà europei. Hanno mostrato il loro “patriottismo” espellendo e facendo operazioni di pulizia etnica, ripulendo i loro Stati dalle minoranze, dalle altre comunità etniche, hanno creato Stati cercando di dominarle, senza dar loro diritti umani Mi domando e chiedo: chi ha distrutto la tolleranza e la convivenza relativamente buona in Jugoslavia? Chi ha attaccato nazioni sorelle, popoli fratelli? I regimi hanno attaccato i popoli! Chi ha attaccato le Repubbliche deboli, le popolazioni civili disarmate? Chi ha distrutto le unità federali della ex Jugoslavia e della sua costituzione? E cosa dire della Bosnia? Dobbiamo incolpare i terroristi albanesi? Li chiamate terroristi qui, quelli che muoiono in autodifesa, colpiti dai proiettili. Dobbiamo incolpare gli albanesi anche per i problemi della Croazia?
Anche in passato c’erano fra gli Stati dei Balcani idee megalomani, aspirazioni atte a creare o la grande Serbia, o la grande Bulgaria, o la grande Albania. Ma non esiste un progetto di grande Albania ed il regime serbo ne parla da cinquant’ anni senza prove, fatti, documenti. Esiste una cosa come la grande Serbia, invece? Chiediamoci questo. Che cosa è la repubblica (Szka)? La distruzione della bella situazione di tolleranza che esisteva in Bosnia. Distruggendo famiglie, cugini, uno Stato all’ interno di uno Stato, uno Stato etnico al 100%, questo è l’ esempio migliore. Andate a vedere, non permettono a nessuno di ritornare nella loro terra di origine, nonostante le risoluzioni dell’ ONU. Nessuno. E che cosa dire della Craina? Un territorio all’interno di un territorio, occupato all’interno di una repubblica.
Dopo la distruzione, la violenza gli accordi e i trattati della conferenza di Londra, di Versailles, di Jalta, o di Teheran eccetera, dopo lo smembramento dell’Unione Sovietica , dopo l’ unificazione della Germania, sono stati creati 20 Stati, ma al Kossovo non è permesso neanche di ripristinare la propria autonomia; sarebbe normale anche secondo la diplomazia dell’ antica Roma o di Bisanzio ritornare ad una cosa che era stata sospesa con la violenza e con l’ aggressione.
Cosa dire poi dell’ espressione “ Il Kossovo è sempre stato parte della Serbia”? Cito il libro di (N. Malcam) Il Kossovo. Una breve storia, che è stato pubblicato a marzo di quest’ anno a Londra, secondo lo studioso, che si basa solo sui fatti, il Kossovo non è mai stato parte della Serbia e dopo la battaglia del Kossovo, di cui si parla spesso, non esisteva la Serbia, perché per 5 secoli c’è stato l’ Impero Turco. Dopo il congresso di Berlino, il Kossovo non era nella Serbia.
Lasciate che torni ai documenti: l’ autodeterminazione. Noi, secondo tutti i documenti dovremmo avere l’ autodeterminazione, perché il Kossovo è una colonia. E’ una colonia, perché è oppressa, perché i diritti umani vengono violati, perché la sovranità del Kossovo, di cui il Kossovo godeva, è stata violata. I risultati del nostro referendum sono stati violati.Grazie”.

Prof.ssa M. Rushani:
“Non voglio entrare nei dettagli della tragedia del Kossovo, perché è veramente troppo grave. È troppo tardi per parlare di alcune cose. So che in questa sede non dobbiamo risolvere i problemi del Kossovo questa sera o domani. Siamo qui per cristallizzare cosa dobbiamo fare, se si può avere un’ influenza lì dove si decidono le cose. Certamente, come individui non abbiamo il potere di risolvere in concreto questi problemi, nemmeno come ONG però so una cosa: che la politica internazionale e gli interessi geostrategici del mondo tengono conto di ciò che pensa l’ opinione pubblica. Per questo il nostro contributo deve essere chiaro.
Stiamo parlando di questo: se decidere per un Kossovo indipendente oppure per un Kossovo sotto il controllo internazionale e di come deve essere organizzato al suo interno, se deve essere indipendente o se deve restare all’ interno della Serbia. Sono state fatte tante analogie e tanti paragoni. Personalmente, penso che non si possa fare nessuna analogia con la posizione delle minoranze delle nazioni dell’ Europa Occidentale, poiché qui esiste una democrazia di lunga tradizione: rispetto alla diversità agiscono dei principi fondamentali che sono stati costruiti già da tanto tempo.
In Oriente, invece, abbiamo Stati autocentrici che sono supplementi che derivano da Stati ideologici, questo passaggio da Stato ideologico a Stato autocentrico è avvenuto con la forza. Ricordo bene che le prime elezioni dell’ Est sono state vinte da partiti riciclati: ex comunisti, ex élite già al potere; hanno vinto le etnie più forti, la mentalità tribale, ciò vuol dire che è stata legittimata la mentalità medioevale della legge del più forte. Questo genere di Stati, sono in pieno potere in Oriente e non possono e non vogliono garantire alcuna diversità: né culturale, nè linguistica. Sono Stati completamente chiusi a nuove idee e mentalità, dove esiste solo l’ imposizione brutale dell’ autorità centrale.
Quindi, come possiamo parlare di risoluzione di un problema così grave, come quello del Kossovo, se questo rientra in uno Stato non democratico? Come è possibile fare un’ analogia fra Kossovo e Alto Adige?
È irritante che la signora Marcovic, moglie di Milosevic, dica che gli albanesi se ne devono andare a Lugano o che qualcun altro dica che se ne devono andare negli Stati Uniti.Questa è la mentalità diffusa in Serbia. Allora come aprire un dialogo con un governo del genere?
Un’ altra questione è: cosa accadrebbe se le differenti etnie chiedessero l’ autogoverno? Credo che sarebbe un problema difficile da risolvere, ma se il problema lo si guarda attraverso l’ ottica di cui parlavo prima, attraverso il contesto storico, allora, non ci sarebbe nessun problema da risolvere.
Se guardiamo al problema del Kossovo attraverso il contesto storico e sociale, potremmo dire che si è già raggiunta una piena maturità, che significa: capacità di essere responsabili nei confronti degli altri, cioè delle diversità. Credo che gli albanesi abbiano mostrato pienamente questa responsabilità non solo negli ultimi dieci anni. Anche l’ UCK non ha commesso crimini nei confronti della popolazione serba, tantomeno sono stati commessi i fratricidii della Bosnia. Quindi portare la discussione con analogie a situazioni che sono troppo diverse da quella del Kossovo ci distrae e si aiutano, invece, il conflitto e le atrocità, appoggiando il colonialismo, l’ apartheid , nonché gli Stati autocratici e monoetnici. Penso che i problemi del Kossovo non possano essere risolti con il dialogo, senza distruggere lo Stato etnocentrico.
Ho sentito dire da qualcuno che il governo serbo è illegittimo. Non è vero. Credo che della situazione in Jugoslavia non sia colpevole solo Milosevic, ma una intera classe politica, l’ Accademia delle Scienze, gli artisti, gli scrittori e una grande fetta di popolazione.
Bisogna pensare a questo, dunque, che il compito di ristabilire le sorti in Jugoslavia è affidato alla Serbia, che lo si debba rievocare e dare a qualcun altro, magari alla Comunità Internazionale. Grazie”.

Dott. R. Gorgoni:
“Devo precisare che non sono un professore universitario, ma un giornalista, faccio l’ inviato speciale, in genere mi occupo anche di guerre.
C’è un sistema infallibile che spiana la strada ai giornalisti, soprattutto a quelli che si occupano di guerre, per capire qual’ è il prossimo conflitto del quale ci si dovrà occupare; in genere l’ indicatore è l’operato del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale, di come queste istituzioni si rapportano con i paesi, soprattutto del Terzo Mondo, con quelli dell’ Est, del Medio-Oriente e anche dei Balcani. Noi ora parliamo di Kossovo, io vedo mille soluzioni e nessuna nei vostri discorsi.
Un qualsiasi inviato speciale, che segua una guerra, sa che deve guardare a quale sia stato in precedenza l’ operato di quelle istituzioni internazionali. E’ il caso della preparazione del disastro libanese, che si può datare 7-8 anni prima che iniziasse il conflitto in Libano.
Credo che un atteggiamento intellettuale più serio, sia un atteggiamento che metta in discussione questa pratica, cioè questo magistero di democrazia che proviene dall’ Occidente e che guarda poi a questi disastri, da una parte, con l’occhio dei cannoni e degli aerei e, dall’ altra, con lo sguardo pieno di sussiego di chi ha acquisito la democrazia una volta per tutte e può dare lezioni di questa pratica, quando poi, in realtà, ha partecipato ad un meccanismo distruttivo di economie che, probabilmente gestite in maniera diversa, non avrebbero poi provocato quegli etno-nazionalismi, quelle rotture, quelle pratiche, così come è successivamente avvenuto.
Non vorrei che noi continuassimo, come dopo gli accordi di Taaef per il Libano, come dopo gli accordi di Dayton, come dopo White Plantation dell’ altro giorno, come dopo l’ accordo tra Holbrooke e Milosevic, a dirci la solita frase che: “una pessima pace è sempre meglio di una guerra”, però questa non è democrazia. Grazie”.

Prof. P. Fumarola:
“Il mio punto di vista su questa faccenda della violenza e della guerra, è incerto e per spiegare meglio dirò che se io vivessi in Kossovo, preferirei avere un fucile che essere disarmato, sia che fossi serbo o albanese, voglio dire che c’è un margine e un limite alla lotta non-violenta, oltre il quale c’è solo l’ auto difesa personale del gruppo familiare... . C’è insomma una massa di determinazioni costrittive, anche chi detesta la guerra ne è coinvolto: senza alternative immediate, armarsi sembra l’ unica soluzione. Perché (qui voglio fare riferimento al lungo ed appassionato intervento di Don Albino Bizzotto) la guerra ed i dispositivi di guerra, a mio avviso, sono dispositivi che possono essere confrontati e paragonati a quelli delle istituzioni totali, al manicomio ed al carcere. Sono istituzioni totali invisibili le cui mura sono impermeabili alla comunicazione; la comunicazione a qualsiasi livello si rompe e diventa guerra di propaganda, guerra psicologica, sistemi in cui la comunicazione deve essere reclusa e deve essere separata e distorta. Questo dispositivo di guerra non è stato inventato dai popoli, cioè non sono le popolazioni che si sono improvvisamente scoperte etniche. E’ stato, come tutti sappiamo, una produzione degli intellettuali e dei gruppi dirigenti di ciascuna etnia che hanno voluto e dovuto inforcare l’ arma dell’ etnia per mantenere i loro poteri e questo è stato il processo che poi ha portato alla guerra etnica ed al modello di istituzione totale invisibile che sembra emergere, in buona parte, dalla situzione balcanica. Ma il problema non è solo questo, è legato anche al sistema organizzato del colonialismo, dell’ imperialismo delle grandi potenze occidentali, riscoperto improvvisamente dopo la caduta del muro di Berlino. Hanno invaso, prima di tutto, con una grande propaganda mass-mediata i popoli vicini sui temi della loro libertà e della loro democrazia. Vi ricordo che, prima della rottura e dell’ invasione dei “barbari albanesi” in 25.000 nel marzo del 1991, quando arrivava qui un disertore con una barca, le televisioni lo portavano sulla “piazza globale” e facevano vedere quanto fosse terribile il regime albanese e come bisognava liberarsene. Se oggi, dieci anni dopo, arriva un albanese, gli sparano alle spalle: è accaduto qualche tempo fa a Lecce ed è esattamente quanto accadeva col regime enverista, quando si sparava in mare a quei pochi che tentavano di arrivare in Grecia attraversando lo stretto di Corfù.
Il problema è dunque più generale, dopo la caduta del muro di Berlino si è creata quest’ enfasi della e sulle democrazie occidentali capaci di salvare i popoli. Che cosa è accaduto in Unione Sovietica, cosa accade a Mosca, nelle città, nella vita civile e sociale di quelle popolazioni? Mi auguro che Prishtina resti la città che io ho conosciuto, una città in cui all’una di notte le ragazze possono girare libere per la strada in piena guerra, una società ed una civiltà con un grado di rispetto delle persone umane che noi qui ci sognamo. Che cosa ha fatto in questi mondi sociali il sistema della democrazia occidentale? Per questo talvolta ho avuto come un desiderio che si ricostruisse il muro di Berlino, forse prima qualcosa era salvo da questa devastazione. In termini teorici generali, questo significa che il processo di globalizzazione ha depotenziato enormemente la funzione degli stati. In un sistema globale, uno stato, non ha più la potenza, la forza e le ragioni di essere che, nel bene e nel male, aveva prima, anche in Occidente per esempio con il welfare state e il kejnesismo. La globalizzazione porta con se un depotenziamento degli stati, questa non è una novità, ma che si siano attivati anche e contemporaneamente sistemi di riferimento tribali in economia, politica ed anche nelle relazioni internazionali, questa è una novità imprevista su cui non c’è stata un’adeguata riflessione. Il processo di globalizzaione con un deperimento dei poteri e delle funzioni dello stato porta con se l’emergere del dispositivo tribale che rivendica un potere, un territorio, un sistema di decisioni, un’ amministrazione, un’ appartenenza, un’ identità, una guerra… . Sono spaventato da tutto ciò che considero l’ aspetto perverso dell’ era post-moderna. Perciò credo che ciò che accade in Albania o all’ Università di Pristina, è un ottimo specchio di ciò che saremo. Il mondo post-moderno che stiamo costruendo, il nostro comune avvenire, per tutte queste ragioni non va verso una stabilizzazione delle democrazie occidentali, assolutamente no! Può andare verso un loro imperialismo crudele e assurdo, in cui prima si mette su Berisha, lo si fa Presidente e quando conviene lo si butta via, si potenzia, arma, sollecita il popolo Kosovaro, dopo di che, gli accordi si fanno con Milosevic e nessuno sembra aver capito quale accordo sia stato sottoscritto.
E’ vero quello che dice Dusan Janic: si mandano 2.000 persone in Kossovo con il rischio che siano tutti dei servizi, percui nessuno saprà più con chi parlare, ma c’è anche il rischio, come molti pensano, che diventino ostaggio di Milosevic. Questi sono i problemi attuali, forse verità banali, difronte a cui non bisognerebbe, come dicono i francesi, usare la langue de bois, cioè parlare in modo rigido e con una lingua di legno, sappiamo chi sono le vittime in Kossovo e più generalmente in Serbia, ripetercelo non ci permette di guardare e andare oltre. La guerra è una merda, comunque la si affronti. E’ un luogo in cui la gente si chiude e non comunica più. Il regime di Milosevic ha prodotto guerra ed una massa di disperazione e di miseria, perché è il regime più armato di quell’ area nei Balcani, perché è il regime militarmente più forte e non può, in un sistema di guerra, che fare la maggioranza dei morti e delle vittime. Il problema dunque, a differenza di come pensa il nostro amico Predrag Simic, non è che c’è un prima e un dopo del regime. La sua potenza armata è il problema. Su questo presupposto penso che tutte le operazioni, come questa di I Care! , svincolata da interessi economici, come quelli perseguiti dalla maggior parte delle ONG, che portano con se, oltre agli aiuti, un simbolismo molto pesante di “aiuto umanitario”, spesso indispensabile, ma che sancisce lo stato di miseria, di disperazione, di dipendenza e sottomissione di cui le popolazioni potrebbero fare perfettamente a meno se si lavorasse a prevenire conflitti armati, ad immaginare nuove forme di cooperazione per lo sviluppo. Andare in Kossovo a rivendicare, come società civili, uno sforzo e una presenza simbolica internazionale, per trovare spiragli per riaprire il dialogo in questa istituzione totale invisibile, chiamata “guerra”, forse non è più possibile, ma val la pena di operare, simbolicamente, con un atteggiamento di partecipazione e presenza non formale di spezzoni della società civile occidentale. Vediamo cosa succede, cerchiamo, proviamo delle strade nuove, creative, inseriamoci in questa logica di guerra che non sembra dare spazio alla creatività e all’ umano.”

Prof. Agon Demjaha :
“Grazie per avermi dato la parola. Il semplice tema di questo convegno, mostra quanto sia difficile il compito che ci accingiamo ad affrontare qui. La questione del Kossovo è all’ ordine del giorno della comunità internazionale da molto tempo, quindi il nostro non è un compito facile e non ci possiamo aspettare dei risultati veloci da questo convegno. Dopo la fine della guerra fredda e il crollo del comunismo abbiamo visto la rinascita di conflitti etnici che sono stati il risultato di rivendicazione di diversi gruppi etnici che chiedevano l’autodeterminazione, era ovvio che, il sistema internazionale esistente che si basava su due principi contraddittori, integrità territoriale e sovranità dello stato da una parte e il diritto all’autodeterminazione dall’altra non era capace di affrontare questa nuova sfida all’ordine mondiale che emergeva. Sappiamo tutti che, questi due principi sono definiti in modo abbastanza ambiguo, è molto difficile trovare il punto di riconciliazione tra i due principi, per questo motivo, tutti questi concetti vengono rimessi in discussione, prima è stato Gali, ex segretario generale delle Nazioni Unite, che ha detto nel suo lavoro un’agenda per la pace che il l’era della sovranità assoluta è scomparsa perché la sua definizione non si adegua mai alla realtà e vorrei dire che il concetto di sovranità è minacciato da due direzioni adesso, il primo è l’esempio che ci ha detto il Dott. Gasparini della Comunità Europea e questo secondo me è un esempio di una resa volontaria di autodeterminazione in cambio di altri benefici tuttavia un attacco più grosso alla sovranità degli stati è il tma del coinvolgimento internazionale sotto il mandato della sicurezza internazionale e degli affari dei diritti umani e credo che il problema del Kossovo dovrebbe essere osservato da questo aspetto di autodeterminazione e di sovranità. Sappiamo tutti che la comunità internazionale adesso è disposta ad intervenire ad essere coinvolta se pensa che a causa della minaccia alla sicurezza ed alla stabilità internazionale, il conflitto possa allargarsi ugualmente quando c’è un caso di grave sofferenza umana e di violazione dei diritti umani adesso la comunità internazionale è disposta ad intervenire sulla base di risoluzioni del consiglio di sicurezza dell’ONU, tutti e due queste condizioni si applicano bene al conflitto in Kossovo. Sono d’accordo con il Sig. Simic che ne Cassese ne altri esperti nel campo potranno mai essere a favore della concessione del diritto all’autodeterminazione ai 3.000 gruppi etnici che esistono, è chiaro, sarebbe un caos, però Cassese e tutti gli altri esperti sono d’accordo su alcuni principi di base, che non tutte le rivendicazioni sono uguali che dobbiamo distinguere tra le diverse rivendicazioni e poi prendere una decisione su come procedere, sono d’accordo questi esperti anche sul fatto che il semplice rifiuto all’autodeterminazione non può essere l’unica risposta politica ai conflitti che emergono in tutto il mondo, inoltre sono d’accordo anche sul fatto che finchè uno stato multi etnico rispetta i diritti umani individuali e collettivi di tutti i gruppi etnici allora questi gruppi etnici possono coesistere all’interno dello stato multietnico, se lo stato multietnico continuamente viola i diritti umani individuali e collettivi di un particolare gruppo etnico, allora quel gruppo può invocare il suo diritto all’autodeterminazione e chiedere la secessione da questo stato multietnico e questo è il caso del Kossovo. Il Kossovo aveva precedentemente un’autonomia stile Alto Adige che è stata revocata con la forza nell’89 quindi tutte le soluzioni proposte devono avere come punto di partenza quell’autonomia sospesa nell’89.
Devo dire che all’inizio, forse, il conflitto nel Kossovo aveva due attori, albanesi e serbi come parti in conflitto, tuttavia i serbi e gli albanesi ne non-violentemente ne violentemente sono riusciti a risolvere il conflitto e quindi, il coinvolgimento di un terzo attore, la comunità internazionale è inevitabile, adesso abbiamo tre attori chiave che rappresentano tre punti di vista diversi: gli albanesi che cercano l’indipendenza sulla base del referendum, i serbi che vorrebbero mantenere lo status quo trattando gli albanesi come cittadini di seconda classe e la comunità internazionale che sta cercando di trovare una soluzione di compromesso in nome della pace.
Poiché gli obiettivi ultimi degli albanesi e dei serbi sono completamente opposti, sono confliggenti come obiettivi, è la mia opinione che attualmente una risoluzione del conflitto a lungo termine non è possibile quindi credo che ci sia bisogno di una soluzione ad interim, transitoria, che prenda in considerazione tutti i fattori pertinenti ma senza imporre alcuna precondizione a nessuna delle due parti. Mentre cerchiamo questa soluzione ad interim, dobbiamo tenere presente che il primo passo dovrebbe essere l’autonomia revocata nell’89, il secondo passo, che deve essere tenuto presente, soprattutto dalla comunità internazionale, è che se la comunità stessa da per scontato la debolezza provvisoria degli albanesi, causata dalle offensive dei serbi, può essere usata per imporre una soluzione ingiusta per gli albanesi, questo non risolverà il conflitto, semplicemente lo rimanderà alla primavera. Quindi se veramente vogliamo una soluzione sostenibile e fattibile anche se ad interim, dobbiamo prendere in considerazione tutte le rivendicazioni di tutte e due le parti. Stiamo ascoltando molto spesso da tutte le parti, in particolare dagli esperti della comunità internazionale parole come misure della ricostruzione della fiducia, riconciliazione ecc. Devo dire come un uomo che ha vissuto tutta la vita in Kossovo che non ci potrà essere riconciliazione prima di aver raggiunto una soluzione transitoria ad interim, adesso abbiamo solo un accordo tra Holbroke e Milosievich di cui la maggior parte di noi non conosce nulla e in questo accordo gli albanesi non hanno nemmeno preso parte, abbiamo un cessate il fuoco molto fragile cheviene infranto tutti i giorni, queste non sono le pre-condizioni sufficienti per una riconciliazione e per una costruzione della pace.

Dott.ssa S. Zajovic :
“Un mio amico croato ripete spesso uno dei principi etnici che noi, che siamo saltatrici dei muri etnici, si solito adottiamo: l’ elemento fondamentale per una buona educazione è partire sempre dalla critica del luogo in cui viviamo. Percui credo che, in tutti questi anni, il mio dovere di attivista sia stato quello di partire dalla critica della Serbia e del Montenegro.
Mi piacerebbe chiedere, a buona parte degli intellettuali dell’ Accademia serba delle Scienze cosa hanno fatto in questi anni, oltre ad istigare l’ odio del proprio popolo contro gli altri popoli, cosa hanno fatto per favorire la convivenza, cosa hanno fatto perché il loro popolo rimanesse in Craina e nel Kossovo.
La mia pratica di attivista mi ha dimostrato l’ ipocrisia ed il cinismo, in tutta la sua ferocia, di coloro che parlano a nome della nazione, perché sono questi che più di ogni altro odiano il proprio popolo. Loro ci offrono soluzioni facili, risposte rapide, ma poi siamo noi, i traditori e le traditrici, a curare le ferite delle vittime delle loro guerre; insomma, io li considero dei mercanti delle sofferenze umane, che negoziano con il sangue del proprio popolo.
Non voglio entrare nella questione dell’ autodeterminazione, ma mi chiedo come si sono autodeterminati 380.000 giovani serbi, che hanno dovuto lasciare la Serbia per non andare in guerra? Gli accademici non parlano a nome loro, perché quelli sono traditori della patria.
Se, nel concetto di autodeterminazione, non vengono inclusi anche le donne e gli uomini che saltano i muri etnici, i giovani che non vogliono essere reclutati in nessun esercito, allora, per me, non vale la penadi parlare di autodeterminazione. Voglio dire che queste soluzioni facili hanno l’ obbiettivo di emarginare il diverso sia in termini etnici che ideologici. E’ facile espellere il popolo albanese verso l’ altra parte della ?Protopia? Ma noi vogliamo creare la pace come ha detto Don Albino, non vogliamo delegare la nostra volontà, in nessun caso, a coloro che parlano a nome nostro, tantomeno ai partiti politici di carattere etno-nazionalista.
In questa situazione di pace imposta, il nostro obiettivo è creare la pace; voglio unirmi a tutti i saltatori di muri etnici e so che, nei Balcani, siamo in tanti a voler fare le cose assieme come abbiamo fatto finòra. Grazie”.

Prof. (Albanese)
“Voglio parlare di due cose: la necessità di una soluzione pacifica ed il modo di risolvere il problema.
La comunità internazionale ha capito che è impossibile mantenere lo status quo nel Kossovo, che la crisi nel Kossovo può avere ripercussioni anche sulla stabilità della regione dei Balcani; la parte serba ha anche capito che questo stato di guerra è insostenibile.
E’ evidente che la guerra non sia una soluzione conveniente alle parti, tuttavia se agli albanesi riesce impossibile opporsi ad una macchina militare così potente come quella serba; ai serbi si prospetta una guerra a lungo termine, perché ci saranno sempre dei giovani albanesi disposti a lottare.
In termini di sviluppo economico, la Serbia è molto indietro rispetto ai paesi vicini: è rimasta ad un livello di sviluppo che era quello degli anni ‘60, con in più il peso del problema del Kossovo. In queste condizioni non può certo progredire, ma solo regredire, per questo è necessaria una soluzione più durevole. Janjic ha detto che non si può democratizzare la Serbia senza risolvere la questione del Kossovo, io direi che potrebbe essere anche vicevèrsa. Trotzsky ottanta anni fa disse che la Serbia si era messa una pietra al collo e, ancora oggi, se la porta dietro.
Rispetto al modo per attuare una risoluzione transitoria, faccio riferimento alla proposta dell’ ambasciatore americano Hill. L’ opinione politica internazionale e i mass media dicono che la parte albanese non ha rinunciato alla sua rivendicazione principale che è l’indipendenza, ma la parte albanese ha accettato la piattaforma di una soluzione transitoria, proposta dal gruppo dei negoziatori per il Kossovo, nella quale sono esposti tre punti: nel primo, che l’ autogoverno del Kossovo non può essere minore di quello definito dalla costituzione del ’74, a questo fanno riferimento molti politici, da Clinton, a Gonzales, a molte personalità del parlamento europeo, tuttavia non è esposto in maniera soddisfacente, il modo di questa rivendicazione; il secondo, fa intendere che il Kossovo resti fuori dalla Serbia, ma dentro la Jugoslavia; il terzo punto, sollecitato dagli albanesi, è che tra tre o cinque anni sia indetto un referendum. Il progetto americano non offre una risposta soddisfacente alle rivendicazioni albanesi, in questa bozza di proposta si parla del Kossovo come di un posto dove vivono delle tribù, dove il cittadino non è parametro, ma lo sono i gruppi etnici, nonostante il fatto che, in Kossovo, il 90% della popolazione è albanese, solo il 10% è serba e una piccolissima minoranza è composta da altri gruppi etnici. Nella proposta tutti i gruppi etnici hanno diritto al veto, è negato alla maggioranza il diritto di risolvere i problemi della propria esistenza; poi non si fa nessun riferimento ai problemi economici: il Kossovo, oggi, è l’unica colonia esistente in Europa, perché la Serbia vuole continuare a sfruttare le risorse minerarie di cui è ricca la regione.
Da parte nostra c’è una disponibilità a migliorare questo documento, ad elaborare un progetto che stabilisca la pace e la collaborazione reciproca; gli albanesi sono sicuramente disposti ad accettare il protettorato internazionale. Grazie”.

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