PRIMA SESSIONE
“PREVENZIONE DEI CONFLITTI
E RUOLO DELLE ORGANIZZAZIONI NON GOVERNATIVE”.

RELATORI


Prof. A. Donno

Prof. A. L’Abate
Università di Firenze

Prof. P. Fumarola
Università di Lecce

Prof. J. Marichez
Università di Parigi

Prof. K. Metaj
Università di Pristina

Prof. F. Sejdieu
Università di Pristina



Prof. M. Zelazkiewicz
Università di Berkley

Prof. D. Janjic
Direttore del Forum for Ethnic Relation di Belgrado

Prof. P. Simic
Università di Belgrado

Prof. P. Nushi
Presidente del Consiglio dei Diritti Umani di Pristina

Sig.ra Etta Ragusa
coordinatrice di Campagna Kossovo



Prof. A. Donno: :
“Grazie professor Sejdulahu e grazie anche al professor Halil Nyrto che ha tradotto.
A questo punto potremmo dare inizio ai nostri lavori, alla prima sessione, il primo relatore era Jan Oberg, ma è assente e quindi chiamo subito a parlare il professor Alberto L’Abate dell’ Università di Firenze. Prego professore”

Dalla sala, senza microfono interviene il professor Abdulla Karjangdiu, in risposta al messaggio del delegato del Rettore di Pristina : ”Noi professori, non siamo solo rappresentanti dell’ Università di Pristina, ma siamo anche membri, segretari e presidenti di partiti politici albanesi del Kosovo, ecco questo volevo precisare”.

Prof. A. Donno: :
“Sì certamente, nel corso delle tre giornate di discussione avrete modo sicuramente di parlare e noi avremo modo di apprezzare le vostre posizioni”

Prof. A. L’Abate :
“Mi dispiace che Oberg non sia qui.
Faccio parte della commissione che è stata nominata dall' Università per la stesura di quell' accordo fatto dalle Università di Lecce e quella albanese di Pristina; inizialmente questo accordo avrebbe dovuto essere firmato anche dall’ Università serba, l’ accordo iniziale prevedeva un accordo a tre, senonché, il professor Papovic, che inizialmente era stato gentile, diciamo, e che ci aveva incoraggiato a procedere con questa iniziativa, l’ ultima volta che siamo andati ci ha chiuso la porta in faccia e non ci ha voluto nemmeo vedere, quindi l’ unica firma è stata quella del Rettore dell’ Università albanese ed è su quell’ accordo che stiamo andando avanti. Non c’ era nessun desiderio di escludere così il mondo accademico serbo da un accordo di collaborazione. Difatti siamo contenti che qui siano presenti alcuni colleghi dell’ Università di Belgrado, con cui, invece, i rapporti son sempre stati molto più validi e molto più stretti.
Devo dire che mi dispiace che non ci sia Hobberg e che l'idea proprio di questo seminario è nata anche da una sua stimolazione. Lui ha scritto due saggi dopo essere stato abbastanza recentemente in Serbia e a Pristina, due saggi molto stimolanti, il primo che dice che non è stato un fallimento della prevenzione, in realtà non si è voluto prevenire il conflitto, questa è stata la prima relazione scritta. Noi abbiamo il testo in inglese e se qualcuno vuole il testo si può chiedere di fotocopiarlo. L’ altro documento è anche molto interessante, non solo per la discussione di questa mattina, ma anche per la sessione di questo pomeriggio. Oberg dice che ora è il tempo della vera non violenza, in realtà dice che sono fallite sia una politica di accordi un po’ troppo deboli, sia la politica armata e attualmente è il momento di una non violenza attiva.
Per entrare nel tema della giornata: “Prevenzione dei conflitti è ruolo delle organizzazioni non governative”, è certo che se siamo a un conflitto armato nel Kosovo e stiamo cercando di uscirne fuori, ma ancora la situazione non è del tutto chiara, se siamo arrivati a questo punto è perché sicuramente gli Stati europei in generale hanno fatto poco o niente, cioè non hanno lavorato a sufficienza. L'altro giorno, in un convegno a Milano, ho avuto l'occasione di vedere la nostra sottosegretaria agli esteri, l' On. Patrizia Toia, che avrebbe dovuto partecipare a questo convegno e che non è potuta venire, la quale mi ha dato atto pubblicamente che forse il nostro gruppo impegnato nella campagna per la soluzione non violenta nel Kosovo, è stato insieme alla comunità di Sant' Egidio uno dei pochi organismi che, in Italia, si è dato da fare per prevenire il conflitto. Chi ha lavorato effettivamente, per tutti questi anni, per prevenire il conflitto, sono state le organizzazioni non governative. Oltre la nostra e alla comunità di Sant' Egidio c'è da citare, ad esempio il centro per l'azione preventiva di New York, la Bettelman Foundation, che avrebbe dovuto venire a questo convegno, ma che non ha potuto partecipare, perché hanno un altro incontro in questi giorni; il Centro greco di studi internazionali che anche sta lavorando in questo campo, l' istituto ASPEN di Berlino e Filadelfia. Sono tutte queste organizzazioni non governative, che hanno lavorato sodo per anni, proprio per cercare di prevenire il conflitto e cercare di stimolare l' intervento dei rispettivi Stati,a fare una politica più seria nei riguardi del problema del Kosovo.
Hanno ottenuto alcuni successi, ad esempio l'apertura del centro americano a Pristina, che è stato rivendicato da CPA come risultato anche dei loro colloqui avuti con le autorità Serbe; c'è stato l’ accordo per la normalizzazione del sistema scolastico, promosso e stimolato, dalla comunità di Sant' Egidio italiana, accordo che è stato bene accolto in quel periodo; noi come Campagna per una soluzione non violenta abbiamo aperto a Pristina, quella che abbiamo definito un' ambasciata di pace, con l'aiuto anche dei fondi della Campagna italiana per l'obiezione ai servizi militari.
In quei giorni, proprio per l'accordo, ero a Pristina, ho sentito la grande gioia che c'era, finalmente la politica del passo dopo passo, della gradualità, che è tipica della non violenza, dava dei risultati e si incominciavano a vedere dei primi passi: nella scuola, inizialmente, e si sperava che dopo si passasse alla salute e ad altre cose del genere. Diciamo che quasi tutti, a parte alcune voci critiche, e la gran parte della popolazione era in festa, abbiamo partecipato anche noi ad una di queste feste organizzate dai giovani.
Dopo questi primi risultati, ci sono stati alcuni incontri specifici, colloqui tra le parti, in particolare cito quelli ai quali ho partecipato, ma c'è ne sono stati tanti altri ai quali non ho partecipato, compreso il primo al quale ho partecipato indirettamente lavorando per degli amici che andavano a New York, facendo in parte quel libro che poi abbiamo pubblicato sulla prevenzione del conflitto. Ci sono stati gli incontri di New York, di Vienna, di Ulci, c’è stato poi anche un incontro al Parlamento europeo, che non era specificatamente sul Kosovo, ma che ha trattato il problema del Kosovo alla presenza del neonato Organismo europeo per la prevenzione dei conflitti e dell' Osce.
Ora , che siano le organizzazioni non governative ad aprire il campo non c'è nulla di male, è una cosa normale, sappiamo che un Lord inglese aveva sostenuto che il ruolo del volontariato è proprio quello di aprire le strade agli Stati, di fare dei passi nuovi, andare oltre. Quindi non c'è da meravigliarsi che questo ruolo della prevenzione sia stato portato avanti da queste organizzazioni non governative in prima persona, questo è ciò che si chiama: “diplomazia di secondo livello” o, come noi preferiamo dire, “diplomazia popolare” o “diplomazia dal basso”. Esiste oltre alla diplomazia ufficiale anche una diplomazia non ufficiale, è importante che questa si muova, è importante che cerchi di lavorare e cerchi eventuali soluzioni a problemi, insomma, l' importante è che operino una rottura in una situazione ed aprano nuove strade: è importante, poi, che gli Stati seguino e portino avanti ciò che è emerso dal lavoro di questi elementi.
Purtroppo devo dire, devo confessare, che questo non accade per due specifiche ragioni: la prima, perché troppe volte lo Stato è in ritardo rispetto a quello che viene promosso dalle organizzazioni non governative, l’ esempio di questo ritardo lo abbiamo attualmente nel Kosovo dove è stato avviato l'accordo tra serbi e albanesi, da parte sua la comunità internazionale è rappresentata dagli osservatori civili dell' Osce. Una proposta del genere è stata presentata da me stesso al Parlamento europeo, quando ero all' interno del gruppo di lavoro per la promozione di ciò che Alex Langer aveva stimolato: la creazione di corpi di pace europei non armati, non violenti, che dovevano essere ben preparati alla non violenza ,alla risoluzione non violenta ai processi di riconciliazione, proposta fatta da noi tre anni fa al Parlamento europeo e ripetuta nel ‘97 a questa conferenza internazionale con un documento che ha girato anche a livello europeo.
Perché avevamo fatto quella proposta? Sia perché ritenevamo che fosse importante per prevenire il conflitto: i corpi europei di pace dovevano essere composti da persone esperte in mediazione, in soluzioni ai conflitti di interventi non violenti; sapevamo che un intervento armato sarebbe stato considerato dal governo serbo come un’ intrusione non accettabile. Quindi sostenevamo che questo tipo di intervento, in quel momento, avrebbe potuto dare un buon risultato e avrebbe potuto aiutare il processo del dialogo: per esempio l' osservazione del fatto che si portassero avanti quegli accordi firmati, ma non realizzati, avrebbe potuto far incoraggiare una serie di attività che avrebbero aiutato questo processo. In realtà, noi lo proponevamo sia perché crediamo nella non violenza e nel suo ruolo, sia perché sapevamo che una scelta di intervento di corpi non armati sarebbe stata probabilmente accettata dal governo serbo, come poi è stato dimostrato. In quel momento l' intervento di corpi non armati avrebbe potuto aiutare l'applicazione degli accordi, avrebbe potuto essere di aiuto reale nella prevenzione dell' esplosione del conflitto armato e monitorare l'applicazione stessa degli accordi fatti.
Noi sappiamo che l'accordo fatto prevede l' intervento di un corpo di questo genere dell' Osce. Se si va a vedere le persone che sono state mandate, perché ci siamo occupati anche di questo, gli italiani hanno mandato su 200, 150 militari; i tedeschi su 200, 120 militari...; i militari sono bravissimi, però sicuramente non sanno né la non violenza, né i problemi di mediazione, non sono preparati a fare questo e l' unica ragione per cui si mandano i militari e non i civili è il fatto che costano di meno, poichè sono già nel ruolo paga degli Stati. Questo cosa vuol dire, che se quella proposta di Langer, fatta già da vari anni, che ha avuto vari testi, vari documenti, già approvati , che ha già un primo finanziamento, non fosse stata messa da parte dai responsabili degli esteri europei, non fosse stata considerata una cosa marginale e colororistica e, invece, fosse stata portata avanti in tempi utili, probabilmente avrebbe avuto dei risultati maggiori e, sicuramente, ora non ci sarebbero dei militari, o dei dubbi sul fatto che loro abbiano una reale capacità di fare un lavoro come quello che gli viene richiesto. Diciamocelo chiaramente, questa non è la loro formazione. Quindi il ritardo è uno dei guai con cui si scontra l' attività delle organizzazioni non governative quando c’è l' intervento degli Stati.
La seconda ragione, che potremmo definire un difetto ancora più grande, è quando questo ritardo è accompagnato anche da interessi economici, che vengono messi al primo posto; in pratica la politica estera non è fatta da una politica di giustizia, di pace, ma è fatta per aprire mercati e trovare nuovi mercati. Nessuno ha nulla contro il problema di cercare mercati, se però la ricerca dei mercati va contro la ricerca della pace, va contro la ricerca di soluzioni più eque, lì il problema si fa molto grave.
Questo è l'ultimo punto che svilupperò per arrivare poi alle conclusioni del mio intervento, sul quale spero poi ci sia un dibattito, anche accanito, mi auguro, su questo aspetto. Io ero presente a Pristina nell' ambasciata di pace il giorno in cui è avvenuto l'accordo con la comunità di Sant' Egidio sulla normalizzazione delle scuole. Devo dire che la comunità di Sant 'Egidio ha poi aderito alla nostra campagna, abbiamo occasione di vederli abbastanza spesso, il Professor Morozzo, che era stato invitato, si è scusato ieri telefonandomi e dicendo che aveva troppi impegni universitari, ma che sarà presente al nostro incontro alla fine di questo mese. Egli ha partecipato anche ad altri incontri, quindi le cose che dico sono a nome nostro, non posso dire a nome della comunità di Sant' Egidio, ma sicuramente c’ è un qualcosa delle impressioni scambiate.
Ero presente a Pristina, dicevo, ed ho sentito Dini, il nostro Ministro degli Esteri, che parlava alla televisione serba, che annunziava l'accordo e diceva: “Ormai la Jugoslavia ha dimostrato la buona volontà e quindi dobbiamo reinserirla nel contesto internazionale, bisogna eliminare le sanzioni di primo livello, dobbiamo cercare appunto queste soluzioni”. Ora devo dire che noi come non violenti, parlo a nome della Campagna per la soluzione non violenta non siamo troppo favorevoli alle sanzioni, nel senso che sappiamo come le sanzioni, di fatto, sono servite a Milosevic, ad Arkan ed al gruppo dirigente serbo, a guadagnare quattrini a palate, a creare, a sfruttare, a farsi un’ economia loro e chi ha subito le conseguenze delle sanzioni è la povera gente, come succede anche in Iraq. Quindi non è che siano favorevoli alle sanzioni di per se, però siamo più favorevoli a quelle che Gené Sharp, per esempio, con cui ho lavorato negli Stati Uniti, chiama “sanzioni positive”, che si possono dire “incentivi”, forme di “incentivi condizionati”: “io ti aiuto a far questo a patto che tu faccia questo e quell'altro”; quindi siamo più favorevoli a questo tipo di intervento. Però, subito dopo aver eliminato le sanzioni di primo livello, l' Unione europea, l' Italia e la Grecia credo che siano stati fra i primi promotori, ha dato alla Jugoslavia lo status di mercato privilegiato, questo vuol dire che da allora è iniziata la corsa della Telecom, della Fiat, dell'industrie greche per lo sfruttamento delle miniere di (Trepcia) e così via. Nulla di male, possiamo dire, in questo, se fosse stata tenuta sotto controllo effettivamente l' applicazione di quegli accordi, se questi accordi economici fossero stati condizionati dal fatto che venissero applicati gli accordi e che venissero portati avanti. Essendo là, ho potuto vedere le interviste fatte a Milosevic dove lui sosteneva di essere a favore dell'accordo e che quell'accordo prevedeva anche l' università, in seguito, attraverso dei bizantinismi sulla questione della lingua e altre cose del genere, si è detto che l'accordo non prevedeva l' università e si è rimandato tutto il discorso. Sostanzialmente, l' accordo, dopo un anno e mezzo, era ancora inapplicato ed c’è voluta la lotta non violenta degli studenti di Pristina, con la botte che hanno ricevuto dalla polizia serba.
In Jugoslavia ci sono anche montenegrini e, all' interno del Montenegro, c’è un grosso movimento per far disertare, per non far partecipare i montenegrini a questa operazione.
E quindi solo nel momento in cui sono stati inseguiti dalla polizia che picchiava gli studenti, che facevano quella bellissima manifestazione con delle dichiarazioni molto belle di impegno non violento, solo in quel momento è stato ritirato quell' accordo di mercato privilegiato e si è cominciato a prendere una certa distanza. Al momento della seconda firma, però - anche lì ero presente a Pristina anche se non facevo parte del gruppo di mediazione di Sant' Egidio, ma facevo parte di un gruppo che faceva il monitoraggio delle elezioni che avvenivano in quei giorni lì nel Kosovo - nello stesso giorno, appena firmato il nuovo accordo tra la comunità di Sant' Egidio e il governo Serbo, subito è stato inserito nel governo (Sesceli), che noi sappiamo è tutto fuorché un grosso democratico, che ha dichiarato che i nostri amici serbi del circolo di Belgrado delle donne in nero sono dei nemici interni e quindi se c'erano dei bombardamenti della NATO in Serbia, loro sapevano chi colpire. In quel momento ci siamo sentiti molto vicini ai nostri amici della Serbia, che hanno combattuto e combattono contro questa politica sciovinista ed è stata in quella stessa occasione che si è presa la decisione di ridurre le soluzioni, prese dal gruppo di contatto, per cercare di portare avanti, ancora, una certa politica dei commerci.
Ho qui con me un articolo di Kossumi, che ci ha molto colpito e che abbiamo tradotto e pubblicato in italiano. Egli era allora Presidente, ora Vice-presidente, credo che lo sia tutt' ora, del partito parlamentare, che, dopo gli accordi, diceva: ”anche gli accordi possono portare alla guerra”; ciò vuol dire che se gli accordi vengono monitorati effettivamente e viene portata avanti una politica diversa monitorando gli accordi, se questo fosse avvenuto, forse, è naturalmente un punto interrogativo, ma noi sociologi siamo abituati a lavorare con le ipotesi su cui cerchiamo degli elementi di conferma, probabilmente questa sfiducia che c'è attualmente sulla lotta non violenta tra gli albanesi del Kosovo, questo ricorso, quest' innamoramento per forme di lotta armata, probabilmente non si sarebbero sviluppate nel modo in cui si sono sviluppate. Naturalmente, dobbiamo aggiungere che, se non ci fossero state le azioni criminali, quello stesso giorno è entrato Sesceli al governo e c'è stato l' attacco a Decian e anche lì è stato detto che era una risposta al terrorismo albanese. Noi eravamo lì, sappiamo che il primo poliziotto ucciso, è stato ucciso alle 5 e mezza del pomeriggio, gli attacchi alla popolazione e alle case private di Decian e di quelle zone lì sono cominciati alle 10 e mezzo della mattina, quindi chiaramente non è una risposta al terrorismo, ma è un attacco vero e proprio; d' altra parte quando si parla di terrorismo, non possiamo parlare di terrorismo solo albanese, ricordiamoci che tra la polizia serba ci sono i gruppi di Arkan, che tra l 'altro sono ricercati per tutti i crimini che hanno commesso, anche in altri paesi, ma non si possono incriminare, questo ci è stato detto, perché indossano le uniformi e fanno parte della polizia serba e quindi non sono individuabili. Queste cose vanno dette.
Se, quando si parla di terrorismo, non si parla del terrorismo serbo, di questo terrorismo all' interno della polizia, che ha commesso i crimini maggiori, a Dreniza e in altri luoghi, facciamo un' operazione sbagliata.
Allora, la conclusione qual è ? Che la prevenzione dei conflitti e dei conflitti armati è una cosa estremamente importante che i nostri governi devono cominciare a capire, a finanziare e ad appoggiare; possono, anzi devono, utilizzare le organizzazioni non governative che lavorano in questo campo, ma, nello stesso momento in cui lo fanno, ci deve essere una simbiosi, una comprensione da parte dei governi che se si porta avanti una politica di prevenzione, si deve portare avanti una politica di prevenzione e non di mercato. Tra l' altro, il mercato è un mercato cieco, perché io vorrei vedere dove sono andati a finire i soldi della Telecom o della Fiat o dell'accordo di Treccia, qualcuno sostiene, qui c'è un amico serbo di cui non farò il nome, se lo vorrà lo dirà lui, che ha detto che l' Italia con questi accordi, assieme alla Grecia, va contro le sanzioni di “secondo livello”, che sono quelle che mantengono il blocco al finanziamento attraverso la banca internazionale, attraverso il Fondo Monetario Internazionale. Di fatto, è il commento del nostro amico, con tutti i soldi che gli avete dato, Milosevic se ne può fregare degli accordi di questo livello. Qualcun’ altro sostiene addirittura che i soldi per l' azione in Kosovo sono venuti da questi finanziamenti.
Quindi voi capite che responsabilità ci prendiamo noi, come paese e come popolazione, nel portare avanti nell' appoggiare questo tipo di politica e qui chiudo. E’ sicuramente cieca questa politica, senza la prevenzione dei conflitti, senza un valido monitoraggio di queste cose, senza una politica di incentivi validi, una politica che, anche in certi momenti, possa ricorrere alle sanzioni, purchè siano monitorate, nel senso degli accordi, da persone preparate a far questo tipo di monitoraggio.
Tutto ciò rischia di portare in primo piano gli interessi economici e all' ultimo la pace e la giustizia sociale. Per questo credo che tutte le persone interessate a questi problemi si devono ribellare. Io vi ringrazio e scusate la lunghezza del discorso”.


Prof. A. Donno:
“Grazie professor L’ Abate.
L’intervento del professor L’Abate pone già alcune questioni centrali del conflitto del Kosovo: il problema della sua soluzione in maniera placida, ma ha sollevato alcuni temi veramente interessanti. Direi, quindi, di dare inizio al dibattito, con brevi interventi, qui al microfono, in modo che si possa operare la traduzione simultanea.
In attesa che si preparino gli interventi, avrei alcune cose di ordine generale da chiedere al professor L’Abate, sperando di non porre domande banali visto che è uno specialista della materia.
Innanzitutto avrei in generale alcune perplessità sulla positività delle organizzazioni non governative, è vero che negli ultimi anni il numero e l'importanza anche e l'intensità dell' intervento delle organizzazioni non governative è aumentata in maniera esponenziale addirittura. Credo che in qualche caso si debba dubitare dell' aiuto effettivo che queste organizzazioni non governative possano dare alla diplomazia tradizionale, essendo io un sostenitore inguaribile della diplomazia internazionale, che, credo, abbia ancora compiti fondamentali nella soluzione dei conflitti. In qualche caso e senza entrare negli esempi concreti, credo anche che le organizzazioni non governative possono rappresentare addirittura un intralcio rispetto alla diplomazia internazionale complicando notevolmente il terreno del dibattito del confronto e della mediazione. Come terza ipotesi si potrebbe verificare il caso di un utilizzo strumentale di alcune di queste organizzazioni non governative da parte di uno dei contendenti del conflitto.
Infine, per quanto riguarda le sanzioni, il professor L’Abate proponeva delle “sanzioni positive” in alternativa alle sanzioni che potremmo definire “negative”. Avrei qualche dubbio anche su queste il caso dell 'Iraq è il caso classico di sanzioni positive:”io ti do una cosa, se tu me ne dai un'altra, oppure ritiro le sanzioni se tu consenti agli ispettori di ispezionare interamente i siti”. Non mi pare che fino ad oggi questo tipo di sanzione positiva fondata sul do ut des abbia funzionato.
Queste dunque sono alcune questioni di carattere generale che pongo al professor L’Abate che può rispondere subito, ma forse credo che sia meglio che il professore risponda anche dopo altri interventi”.


Prof. A. L’Abate:
“Spero che alle domande non risponda solo io, spero che ci sia un dibattito. Abbiamo previsto questo seminario con poche relazioni e un grosso dibattito, proprio perché vogliamo che sia un momento collettivo di partecipazione. Il ruolo dei relatori è solo quello di rompere il ghiaccio e di aprire il dibattito., spero di esserci riuscito assieme a ciò che ha detto anche il presidente di questa sessione, il professore Donno”.

Prof. P. Fumarola:
“Proverò a dire qualcosa sulle ONG e sull’ Intervento di A. L’Abate, ma prima di tutto voglio dare un ben venuto personale a tutti ed un ringraziamento d’ essere presenti. Il Professor Oberg, che sarebbe dovuto essere qui, purtroppo per una nostra debolezza organizzativa e per una serie di disguidi è assente. Con alcuni degli ospiti presenti ci siamo conosciuti ieri sera, altri li conoscevo da tempo.
L’ intervento di L’Abate mi ha sollecitato alcune domande rispetto al ruolo delle ONG. Finora la grande maggioranza delle organizzazioni non governative sono state delle vere e proprie imprese commerciali e questa è una prima questione: come trasformare il ruolo di queste ONG?
Abbiamo un’ esperienza nazionale esemplare in questo senso. Le imprese ONG funzionano come piccole e medie imprese private, appoggiate dal governo. Hanno e perseguono degli interessi molto precisi, che spesso si identificano con quelli dei governi, non tutte, ma l’ esperienza su questo territorio salentino lo può mostrare, e non starò qui ad elencare gli scandali che si sono verificati nel settore della cooperazione internazionale italiana.
Il mio interesse verso gli albanesi ed i kosovari è stato mosso da una domanda precisa: che ruolo possono avere le università? Noi, per esempio, come universitari in questo convegno, possiamo svolgere una funzione, relativamente autonoma rispetto alla “politica”, alla diplomazia, ecc. in vista di un’ apertura minima, di dialogo tra le parti e, su un piano più allargato, che è quello di una pretesa di analisi scientifica?
Mi spiego meglio: sono stato in Francia, a Parigi, ed ho partecipato ad una riunione del comitato Kosovo, che fa capo alla rivista Esprit . Una rivista molto prestigiosa sul piano internazionale: ero incredulo del fatto che il comitato Kosovo parigino (il comitato Kosovo è quello che gestisce un’ insieme di associazioni di ONG, di non violenti, di radicali, di pacifisti, ecc.) fosse orientato, senza alcun dubbio, nella sua maggioranza, verso i bombardamenti della NATO ed erano perfettamente convinti della bontà dell' idea di incriminare Milosevic come criminale di guerra. Credo che un’ impostazione come questa non agevoli un dialogo; una prospettiva come questa orienta verso il piano giuridico e simbolico il confronto, non su quello politico, cioè della madiazione.
Ho recentemente avuto l’ occasione di curare e di fare una breve riflessione su un saggio abolizionista del diritto penale scritto da Vincenzo Guagliardo, un prigioniero politico italiano delle Brigate Rosse, da oltre venti anni rinchiuso in carcere. Metabolizzare questo saggio mi ha alquanto trasformato, ho perso ogni residuo di mentalità giustizialista, nel senso corrente, più o meno identificabile con il penalismo. Mi ha molto interessato, per esempio, Hulsman, un teorico olandese, e piccoli gruppi accademici, forse minoritari, ma un po' ovunque presenti. Credo, insomma, che l' abolizione del diritto penale sia una buona cosa a livello generale, che il passaggio al civilismo, a sanzioni di ordine civile, sia una prospettiva molto più seria, forse di una civiltà a venire, ma molto più adeguata alla gestione dei conflitti in generale, senza risolverli con la penalizzazione carceraria. Capisco anche che l' incriminazione di Milosevic diventi una bandiera di propaganda, ma sicuramente, se fosse venuta l' On. Bonino ne avremmo anche discusso, sono convinto che oltre un po’ di propaganda non si va. Anzi credo che la richiesta di incriminazione di Milosevic si presenti come un’ interferenza nella ricerca di una soluzione politica, molto più violenta di quanto io stesso possa immaginare.
Sono uno di quelli che pensano che questa propaganda rinforzi all’ interno il regime di Milosevic, gli permetta di isolare e distruggere l’ opposizione interna, di far crescere e consolidare lo sciovinismo serbo, di “purgare” le università, d’ incriminare, imprigionare, intimidire, com’è accaduto in questi giorni, a ragazzi liceali per aver dipinto su qualche muro di Belgrado un braccio a pugno chiuso.
In conclusione voglio chiedervi, al dì là delle mie convinzioni in merito a bombardamenti ed incriminazioni, che cosa pensate voi che possano e debbano fare le università, il ruolo della cultura e l' impegno degli universitari di Belgrado, degli universitari di Pristina, sarebbe interessante discuterne in questa sede... .
Voglio intendere, l’ operare delle istituzioni universitarie come fonte di elaborazione culturale, di analisi, di proposte e prospettive verso soluzioni politiche. Naturalmente ciò implica un certo grado di autonomia dal “politico” in senso stretto, cioè dai dispositivi dei partiti e dagli orientamenti governativi. Quest’ autonomia è forse più rintracciabile negli ambienti universitari, che nella maggioranza delle ONG, anzi , credo che siano gli ambienti universitari di questo tipo dove si può pensare anche un modo per lavorare alla loro trasformazione come agenzie, soggetti, elementi attivi della prevenzione dei conflitti armati. Naturalmente deve cambiare anche la “natura” di una cultura che non vuole solo una conoscenza contemplativa ed osservativa, ma vuole essere una cultura e una ricerca attiva e d’ intervento. Quale può essere secondo voi un progetto, un programma di lavoro per gli ambienti universitari, in funzione della prevenzione e della trasformazione delle ONG?”.

Prof. J. Marichez (Università di Parigi):
“Mi chiedo se effettivamente il concetto di non violenza delle organizzazioni non governative non sia un concetto molto idilliaco di gente che vive in un paese in pace e, quindi, se questo concetto di non violenza sia solo un concetto etico, un concetto dunque basato sull' etica e non effettivamente sull' azione”.

Prof. A. Donno:
“Grazie professor Marichez. Ci sono altri interventi ? Il professoe Kadri Metaj, dell’ Università di Pristina.”

Prof. K. Metaj:
“Con il professor L’Abate abbiamo già parlato di un progetto da fare assieme e mi chiedo che cosa intenda per rivoluzione non violenta, perché può sembrare contraddittorio come concetto”.

Prof. A. Donno:
“Grazie professor Metaj. La parola al professor Fatmir Sejdieu dell ‘ Università di Pristina, segretario dell’ LDK e membro del Gruppo di negoziazione”.

Prof. F. Sejdieu:
“Il rappresentante del parlamento del Kosovo ha parlato del terrorismo, che effettivamente è un' azione che disturba i non violenti. Se abbiamo capito bene esiste anche un gruppo di terroristi all'interno del corpo di polizia che non vengono nè identificati, nè controllati. Lei pensa che sia realmente così ? O invece crede che ci sia un legame tra i diversi conflitti che si sono verificati in Serbia, in Bosnia ? Effettivamente ci sono dei criminali ricercati, che hanno agito durante il conflitto in Bosnia e che adesso si trovano in Kossovo”.

Prof. A. Donno:
“Grazie professor Sejdieu, il professor Marek Zelazkiewicz dell’ Università di Berkley negli Stati Uniti e del gruppo Peace Workers, prego”.

Prof. M. Zelazkiewicz:
“E' stato un piacere ascoltare il professor L’Abate nella relazione introduttiva. Vorrei adesso porre tre domande. Innanzi tutto le prime due: riguardano le potenzialità dell' ONG in funzione della prevenzione di conflitti violenti. Il mio primo commento è il seguente: che ritengo che vi sia una forte potenzialità per una prevenzione precoce da parte di una società assistenziale nella costruzione di molte ONG e associazioni, che possano realmente operare in termini democratici secondo relazioni democratiche; il secondo è che questa prevenzione precoce, può essere realizzata incrementando le regole della democrazia all'interno di organizzazioni e di istituzioni preesistenti, incluse le università. Noi, che lavoriamo nelle università sappiamo quanto siano burocratizzate e fossilizzate. Così una maggiore democrazia, all' interno di una società, può aiutare quindi in tal senso la prevenzione dei conflitti. Ritengo che la prevenzione, da parte delle organizzazioni non governative, sia forse molto meno veritiera, tuttavia vorrei parlarne. Pensa lei, professor L’Abate, e tutti voi presenti oggi, che una prevenzione diretta possa essere attuata creando un vero e proprio corpo di pace non governativo ? Un corpo di pace non dovrebbe essere nelle mani delle forze armate, dei soldati, come è invece in questo caso; una prevenzione governativa potrebbe portare ad una soluzione migliore attraverso un’ azione più tempestiva, attuando risultati più immediati.
Come può si realizzare ciò ? Bene si chiederà un emendamento alla giustizia internazionale, per consentire a questo corpo non governativo di pace di attuarsi, richiedere ai paesi che hanno firmato la dichiarazione universale dei diritti dell' uomo di firmare anche questo emendamento a sostegno dell' istituzione di un corpo non governativo di pace. Questi sono i miei due obiettivi di speranza: una prevenzione precoce e tempestiva ed una azione diretta.
Il terzo punto pone, invece, proprio un dubbio sul caso del Kosovo. A mio avviso esiste uno squilibrio enorme, una sperequazione di poteri, tra gli oppressori e gli oppressi; possiamo infatti suggerire agli oppressi di mantenere un atteggiamento di pace, di protestare in modo non violento, di andare in sciopero in maniera pacifica, ma quando queste persone vengono licenziate dopo lo sciopero e non hanno il denaro per comprare il cibo per i propri bambini, cosa dovrebbero rispondere i pacifisti ? E’ solo la prima domanda... : “Si potrebbero mandare gli aiuti umanitari !”, potrebbero rispondere. Ma cosa succede se la casa in cui vivi viene bombardata dall' artiglieria, se persone armate irrompono e minacciano la tua famiglia ? Che tipo di suggerimenti non violenti potremmo dare a queste popolazioni ? Non ho trovato risposte, ho trascorso due mesi in Jugoslavia, prevalentemente a Pristina e, come operatore di pace, mi sono state poste queste domande. Personalmente mi sono posto queste domande, la mia risposta è stata di tipo emozionale: che cosa farei io in questa situazione estrema di squilibrio ? La mia risposta sarebbe il silenzio, me ne starei zitto senza dare più suggerimenti. Se qualcuno entrasse nella mia casa per uccidere mia figlia, per uccidere mia moglie, veramente non so se risponderei: “Io sono per la pace, per la non violenza, fate quello che volete a me, a mia moglie e ai miei bambini”. Ecco perché abbiamo bisogno di porci dei limiti, di porre dei limiti anche alle nostre speranze, alle nostre aspettative ed essere realistici il più possibile.
E’ partendo da questo realismo che vorrei trarre delle conclusioni che sono un po’ diverse da quelle del professor L’Abate e vorrei sapere quali critiche potrà fare il mio caro amico. Professore, lei non ritiene che questo squilibrio tra l'oppressore e l'oppresso abbia cancellato le potenzialità di una soluzione non violenta del conflitto ? Per essere più preciso: lei non crede che l 'oppressore si sia posto come obiettivo, che non può trovare soluzione nella non violenza, che l’ oppressore si sia posto come obiettivo lo sterminio parziale della popolazione natia del Kosovo, vale a dire degli albanesi Kosovari. In tal caso, se mai fossimo d'accordo su questa diagnosi, se ne potrebbe discutere, ma se noi siamo d'accordo con questa diagnosi, forse l'unica cosa che possiamo fare è offrire la nostra vita e quindi dire bene ci interponiamo tra l'oppressore e gli oppressi; se volete sterminare queste popolazioni kosovare albanesi passate prima su di noi. E vi devo dire che la nostra amica e interprete, Annalisa Klark, sostiene questo tipo di azione. Vi sono delle persone che sono pronte ad agire in questo senso: “la situazione è tragica, è estrema e noi dobbiamo veramente interporre le nostre vite”. Senz' altro lei può parlarvene assai meglio di me.
Professor L’Abate : “Quali sono i limiti che dobbiamo porre alle nostre speranze, alle aspettative di una soluzione non violenta, se effettivamente esiste un estremo squilibrio di potere tra gli oppressori e gli oppressi ? Grazie”.

Prof. A. Donno:
“Grazie professore, le questioni che ha posto dono veramente cruciali e non ci si può sottrarre dal rispondere.
Interviene il professor Dusan Janjic, Direttore del Forum for Ethnic Relation di Belgrado, prego”.

Prof. D. Janjic:
“Vorrei aggiungere qualcosa a ciò che ha appena detto il mio amico professor L’Abate e poi vorrei chiedergli qualcosa sul futuro, perché forse ci sono ancora speranze per azioni non violente nel futuro.
Innanzitutto, se devo fare qualche commento, il professor L’Abate ci ha parlato delle attività delle ONG, che cercano di trovare soluzioni non violente, ma delle azioni non violente, da parte delle ONG, sono state fatte prima ancora della violenza, prima della guerra civile. A questo vorrei aggiungere che tra le ONG, che hanno lavorato sul campo e cercato di trovare una soluzione non violenta, dobbiamo tracciare delle distinzioni: alcune, come il Forum per le relazioni etniche, hanno svolto attività di mediazione tra i politici, tra le istituzioni; altre hanno lavorato a contatto con la popolazione cercando di promuovere iniziative della società civile; altre ancora hanno cercato di trovare delle soluzioni di accordo tra Stato e cittadini Anche questo è di importanza cruciale, è essenziale tracciare queste distinzioni. Perché ? Perchè in Kosovo non abbiamo una società civile in senso europeo, nel senso italiano, in effetti in Kosovo abbiamo, per così dire, una società divisa, esistono due società parallele: una è albanese e l' altra è serba, questa è la realtà. Quando cinque o sei anni fa mi sono trovato a Washington e ho cercato, come adesso sta facendo il professor L’Abate, di promuovere questa idea di “soluzione del conflitto” per la Bosnia, un tipo molto furbo mi disse: “Sì, ciò è molto bello, ma prova a cambiare una sola parola, prova a dire invece di soluzione dei conflitti, gestione dei conflitti “.Da parte mia ho replicato: “Non è la stessa cosa, la gestione del conflitto comprende le guerre locali”, e lui: “E’ vero, questa è la posizione degli americani”. Ciò che voglio indicare è che: a questo punto in Kosovo abbiamo una situazione che riflette la posizione americana, la pax americana. Gli europei forse diranno che abbiamo cessato il fuoco.
Quindi la mia prima domanda al professor L’Abate è: “Che cosa è possibile fare in una situazione di pax americana nel quadro generale della gestione dei conflitti ?”.
Ora come ora mi sembra strano parlare di prevenzione del conflitto, abbiamo avuto in Kosovo una guerra civile. Dobbiamo pensare alla possibilità di ammorbidire l’ atmosfera e di adottare misure di intervento nella società civile per giungere e applicare soluzioni politiche. Penso che l' idea del mio amico Marek, sui corpi di pace, sia un' idea veramente interessante e da discutere.
Qui giungo alla mia seconda ed ultima domanda, che porgo al professor L’Abate ed agli italiani presenti. Cercate di pensare a dei nuovi strumenti, ciò richiede una breve una spiegazione: il problema del Kosovo non è solo un problema interno al Kossovo, alla Serbia o alla Jugoslavia, è un problema di interesse regionale, è collegato come minimo ad altre due questioni nazionali, i serbi e gli albanesi. Come voi sapete gli albanesi vivono in Kosovo, in Montenegro, in Macedonia e in Albania; non facciamo mistificazioni, dopo l' unificazione della Germania, in Europa l 'etniticità è stato il primo principio secondo il quale si sono organizzate e immobilizzate le popolazioni. Questa è la realtà. Lo stesso è accaduto nella ex-Jugoslavia, lo stesso principio sta circolando tra gli albanesi, i serbi, i croati., per questo dobbiamo pensare al futuro della intera regione. Dobbiamo pensare ad iniziative regionali e subregionali che sostengano l' etnicità e che trovino un equilibrio tra etnicità e cooperazione. E' possibile, dunque, che le iniziative della società civile e delle ONG, diano inizio ad alcune campagne per creare delle strutture di monitoraggio subregionale?
Non credo che sia possibile risolvere il problema dei rifugiati, degli immigrati, senza una forte cooperazione da parte delle popolazioni dell’ Albania, Macedonia, Serbia, Kosovo e Montenegro, compresa l’ Italia e altri paesi. So benissimo che ora non è possibile mettere assieme i governi: il governo di Tirana per esempio non esiste, esiste solo sulla carta, il governo del Kosovo è un governo in costruzione, il governo della Macedonia sta affrontando delle divisioni fortissime, il governo della Serbia non è legittimo ed è anche in crisi. Forse si può fare qualcosa dal punto di vista delle ONG. Questa è la mia domanda: “Lei crede che sia possibile ?” .
Grazie, avevo promesso di essere breve, ma oggi non è la mia giornata”.

Prof. A. Donno:
“Grazie professor Janjic, mi aveva chiesto la parola il professor Predrag Simic dell' Università di Belgrado”.

Prof. P. Simic:
“Avrei dei dubbi sul possibile ruolo delle ONG in Kosovo. Ho anche dei dubbi sulle ONG, della organizzazione politica, in presenza di circostanze come quelle attuali.
Ho partecipato a molti progetti internazionali , a partire dalla commissione Canny, la Bettelsman ecc., e penso che quei progetti, praticamente assorbono la gran parte del konw-how (abilità) delle ONG: come prevenire, come trattare. Vorrei fortemente sostenere la tesi del professore L’Abate, che il conflitto non va preso con sorpresa, con questo intendo che molti aspetti delle relazioni serbo-albenesi vengono discussi in questi progetti. Ma il problema è che la crisi in Kosovo non è sui diritti umani, o per lo meno, non solo sui diritti umani..La crisi del Kosovo è una crisi del territorio, della nazione e dello Stato Uno dei temi chiave, discusso in tutti questi progetti dei quali ho sempre discusso, la questione nodale é: perchè gli albanesi kosovari, che sono un quinto della popolazione della Serbia, che sono ben organizzati politicamente, perché non usano il loro potere politico, il loro potere di voto per entrare nella politica dello Stato, per trovare alleati tra le forze democratiche, per diventare parte del corpo democratico e civile della società dell’ intera Serbia e così portare ad un cambiamento dell’ equilibrio politico in Serbia. Direi che matematicamente e politicamente potrebbe accadere, ma gli albanesi kosovari sono assenti dalla scena politica della Serbia e questa assenza conduce direttamente alla situazione politica che esiste in Serbia da molto tempo.
Conosco molte risposte che mi hanno dato i miei amici del Kosovo, a cominciare dalle più buffe, come quella che non vogliono intervenire negli affari interni di uno stato confinante, alle motivazioni più serie, poichè pensano che se entrassero nel parlamento serbo mobiliterebbero il parlamento stesso a dividersi su base etnica. Non credo che ciò avverrebbe. Per esempio se il governo serbo dovesse fare una bozza di legge sulla questione dei mezzi d’informazione o su altri affari vi immaginate davvero che la divisione sarebbe etnica e non politica ? Non credo ! L’opposizione contro questo tipo di legge sarebbe senz’altro multietnica e credo che porterebbe a una unificazione delle forze di opposizione, delle forze democratiche e penso che favorirebbe, anche, una crescita in senso multietnico della società civile. In effetti la Serbia, ve lo devo ricordare, è lo Stato più multiculturale, più multietnico, più multireligioso dei Balcani, molto più della Bosnia, più di 1/3 della popolazione della Serbia non è serbo. Quindi per riassumere questa discussione è giunta a una sua conclusione a settembre, quando la Federazione internazionale francese dei diritti dell’uomo ha organizzato una conferenza con i capi dei partiti politici serbi che è fallita; la conclusione che se ne è tratta è che ciò che l’opposizione serba offre agli albanesi non è ciò che i partiti politici in Kosovo vogliono. Ciò che vogliono questi partiti politici è l’indipendenza, ma questa indipendenza non può essere data nè dall’opposizione, nè dalla società civile serba, può essere data solo dal governo. Queste sono state le conclusioni formali di quella discussione tenutasi a Parigi.
Arrivo alla mia tesi di base: al momento ho un dubbio, non solo sul ruolo delle ONG in Kosovo. Tutto ciò che vi ho riferito accadeva ancor prima che iniziasse la violenza, non è il sangue che ha inibito la discussione, quindi ho i miei dubbi non solo sul ruolo delle ONG in Egitto. Credo che Monsignor Vincenzo Paglia abbia fatto un lavoro straordinario, ma ne conosciamo l’esito finale; ho dubbi anche sul ruolo delle organizzazioni politiche e in questo senso sono abbastanza vicino alla questione posta da Dusan Janjic, che adesso non abbiamo una situazione che possa essere gestita dalle ONG (S. Egidio), abbiamo una situazione di gestione del conflitto, gestione della crisi, di imposizione della pace, forse lo dico con rammarico, ma sono abbastanza scettico sul ruolo delle ONG in questa situazione.
Ora vorrei sentire la sua risposta, anzi sarei molto felice se lei riuscisse a persuadermi che sbaglio, che il mio pessimismo è sbagliato”.


GIORNO 12/11/ 98. ORE 10:00

Prof. A. Donno :
“Grazie professor Simic. La parola al professor Pajazit Nushi, Presidente del Consiglio dei Diritti Umani di Pristina e docente di psicologia dell’Università di Pristina. Prego”.

Prof. P. Nushi:
“Innanzitutto vorrei ringraziare gli organizzatori di questo incontro che ci hanno dato la possibilità di scambiare idee e opinioni. Sugli interventi del professor L’Abate e del professor Simic e proprio sul dialogo essenziale tra le due parti, vorrei fare un commento breve collegato alla risoluzione 119 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. In Kosovo sono già stati avviati alcuni processi che rendono più difficile l’inizio e il proseguimento di un dialogo. Uno di quei processi è proprio il problema della identificazione, della verità, sulla pertinenza etnica del Kosovo. Così per esempio con una decisione del governo serbo la scorsa settimana è stato proibito ai rappresentanti del tribunale dell’ Aia di venire a constatare alcuni dei crimini contro l’umanità perpetrati contro gli albanesi del Kosovo. Inoltre due settimane fa è stata approvata una legge contro l’informazione libera, questi due atti sono indice degli sforzi che si fanno per nascondere ciò che veramente accade in Kosovo. Ciò che è accaduto in Kosovo è terribile. Vorrei soltanto menzionare alcuni degli ultimi fatti: il 2 novembre scorso in un paese chiamato Yuri sono stati spostati gli scheletri di persone uccise dalla polizia serba in un altro luogo sconosciuto, questo è un fare eccentrico rispetto a ciò che accade nel mondo attuale. Le stesse organizzazioni internazionali che si occupano del Kosovo non sono in grado di dare alcuna risposta ai parenti delle persone i cui cadaveri sono stati nascosti. A questo posso ancora aggiungere che la violenza usata contro le donne kosovare ha dimensioni molto più grandi rispetto a ciò che si è sentito fin’ora. Inoltre, siccome mi trovo in questa Università, vorrei mettere in evidenza che i pregiudizi, in Kosovo, sia da una parte e che dall’altra sono già ad un livello molto alto, per questo ritengo che un avvicinamento delle due parti sia quasi impossibile, d’ altra parte, a causa di tutto ciò che è successo in Kosovo, la sicurezza dei cittadini albanesi viene oggi completamente ignorata. Un ritorno di quasi 400 mila cittadini albanesi del Kosovo nelle loro case è molto difficile o quasi impossibile, proprio a causa dell’atteggiamento che la polizia serba ha contro quelli che ritornano nelle loro case.
Infine c’è un altro processo, quello della cattura di persone prese in ostaggio in Kosovo che continua. Per questi motivi ed in queste condizioni è impossibile attuare il dialogo tra le due parti”.

PROF. A. DONNO:
“Grazie Professor Nuschi. Altri interventi ? Bene, il professor L’Abate ha preso un intero blocco di appunti, non vorrei trovarmi nei suoi panni a dover rispondere esaurientemente a tutte le domande.
Comunque cominciamo e buona fortuna”.

PROF. A. L’ABATE:
“Intanto mi complimento perchè ho l’ impressione che la nostra conferenza sia cominciata bene, nel senso che è molto vivace con molti interventi, anche differenziati, e quindi mi auguro che si possa continuare a discutere con questo clima anche sapendo che dietro ci sono delle situazioni tragiche, su cui praticamente stiamo lavorando, e che qualche volta accade che passi la voglia di dialogare, o di parlare in modo sereno, e vengono fuori altri problemi, comunque mi auguro che si riesca a mantenere questo livello del dialogo che secondo me è iniziato molto validamente.
Non credo di riuscire a rispondere a tutte le domande che sono state fatte, anche perchè credo che alcune non siano state fatte a me stesso, ma a tutti noi, quindi dovremmo rispondere anche nei prossimi giorni con l’aiuto di tutti i presenti.
Prendendo alcuni temi: il problema e il ruolo delle ONG... è chiaro che ci sono ONG e ONG; molte sono quelle di cui parlava Piero del commercio, del mercato e sono delle ONG solo di nome, che di fatto usano i soldi degli Stati e che praticamente qualche volta esprimono delle posizioni che sono ancora peggio delle posizioni ufficiali degli Stati, perchè sono condizionate dai problemi economici. Quindi noi non ci rivolgiamo sicuramente a loro, non sono nostre interlocutrici. C’è però un insieme di ONG che si stanno sviluppando negli ultimi tempi, che stanno cercando di specializzarsi proprio su questi problemi, un esempio è quello di Janjic del Forum per le Relazioni Etniche di Belgrado, un altro è il Balkan Peace Team con cui noi collaboriamo, o altre nate apposta per la prevenzione dei conflitti a livello europeo, e così via, o per il dialogo ci sono diciamo una serie di ONG o international alert . Si sta cercando di creare tutta una rete di ONG per prevenire i conflitti. Ci sono una serie di ONG che si stanno sviluppando negli ultimi anni che hanno preso come oggetto specifico, appunto, la prevenzione dei conflitti, l’intervento, la mediazione, anche Oberg, che non è venuto oggi, ma fa parte della Transnational Foundation for Peace and Future Research che lavora per lo Stato svedese, per le Nazioni Unite, per varie organizzazioni, ma che è un organismo indipendente come altre organizzazioni del genere. Quindi diciamo che queste organizzazioni non hanno preso come loro interesse specifico l’attività umanitaria, come spesso accade per le altre, ma quello della mediazione. Queste organizzazioni vanno secondo me sviluppate, devono integrarsi maggiormente, perchè qualche volta lavorano isolatamente, di fatti cercano di dar vita a un organismo mondiale ed europeo per la prevenzione dei conflitti che metta insieme le varie ONG che si occupano di questo. C’è da fare un grosso lavoro di coordinamento e di potenziamento di questo tipo di attività che attualmente agli Stati non interessano molto, hanno problemi di fondi, di personale, hanno tutti quei problemi che si possono immaginare. Ci sono alcune organizzazioni invece che fanno intervento umanitario e che accanto all’intervento umanitario hanno sviluppato una forma di diplomazia dal basso. Io ho lavorato, per esempio, con i medici senza frontiere francesi, li ho trovati nel Kosovo, ma abbiamo lavorato anche per il problema della Somalia e così via. Accanto al lavoro umanitario, stanno studiando e sviluppando anche i temi del dialogo, della mediazione e così via, e quindi mi sembrano delle organizzazioni abbastanza serie; ci sono altre invece del tutto simili a quelle di cui parla Pietro Fumarola. Quindi bisogna guardare bene, non credo che si possa generalizzare quando si parla delle ONG, dobbiamo studiare bene quali sono i loro obbiettivi e come lavorano e soprattutto che livello di indipendenza hanno. Per esempio noi abbiamo collaborato, in esperienze passate, con organizzazioni tipo Equilibre francese, ed è stato un disastro terribile perchè in realtà non erano indipendenti, ma sottofondo di posizioni politiche di un governo, una nazione e così via. E quindi sostanzialmente da questo bisogna stare molto attenti.
Non parlo delle ONG in generale, ma di quelle che si stanno sviluppando e che hanno fatto anche delle attività egregie, per esempio la comunità di St. Egidio, per il Mozambico, sicuramente ha svolto un ruolo molto importante però era appoggiata dal Vaticano, dalla diplomazia vaticana e anche dal governo italiano. Il loro è stato un lavoro di mediazione fatto con l’appoggio sia del governo che del Vaticano, quindi hanno potuto svolgere un ruolo che molte altre ONG non possono svolgere. Comunque, direi, stiamo attenti a quelle organizzazioni che nascono come funghi appena ci sono i drammi, appena c’è la possibilità di prendere soldi, ecc... . Ne sappiamo qualcosa anche in Italia, perchè tutto a un tratto il Kosovo è diventato di moda si usa appunto la nostra Campagna Kosovo per raccogliere fondi che vanno ad organizzazioni con cui abbiamo cercato di collaborare, ma che poi hanno preferito lavorare singolarmente. Sono questi quindi i problemi che a noi si sono aperti.
Un altro dei temi affrontati è il discorso sulla rivoluzione non violenta, se nel concetto di rivoluzione non violenta ci sia contraddizione..., ricordo quando gli amici comunisti mi prendevano in giro: “tu sei un rivoluzionario non violento”, a questo rispondevo:” credo che sia più coerente essere rivoluzionari non violenti che riformisti violenti come siete voi, che credete cioè nella violenza, ma fate una politica di tipo riformista”. Il non violento non è nè riformista nè trasformista, diciamo che sinceramente crede nella necessità di modificare le nostre strutture, di modificare la nostra società, però lo crede attraverso un lavoro dal basso, quello che ci ha insegnato Capitini, padre Balducci, Don Milani, ecc..., lavoro dal basso di creazione di gruppi alternativi per l’attivazione della società civile dal basso per arrivare a modificare quella cultura della guerra, della violenza che ancora è presente nei nostri Stati, nei nostri governi. Quindi è un lavoro a lungo raggio. Ci sono stati degli esempi molto interessanti e di questo tipo nelle Filippine, in Russia, nella stessa rivoluzione dei paesi dell’Est, che ci mostrano che la non violenza non è pura utopia, come diceva Marichez, che, mi auguro, ci faccia comprendere, nel pomeriggio, come si possa, partendo dalle impostazioni di Gene Sharp, con cui anch’io ho collaborato, arrivare a concepire la non violenza in modo completamente diverso da quella che concepiamo attualmente.
La non violenza non come posizione etica, ma come posizione che ha tutti i diritti di essere considerata da una prospettiva scientifica e da quella del livello della politica. Ho scritto un libro “Consenso, conflitto e mutamento sociale”, per cercare di dimostrare che bisognava uscire dalla concezione della non violenza come puro strumento etico, ma che andava presa seriamente e studiata dal punto di vista scientifico. Il lavoro che faccio normalmente all’Università - insegno Metodologia della ricerca - con i miei allievi, con tutto il seminario di ricerche per la pace, sulla pace ecc, è di usare la ricerca per cercare di superare e aprire strade al superamento dei pregiudizi razziali, di opposizioni chiuse alla comprensione reciproca, alla risoluzione dei conflitti, e qui arrivo al dubbio di Janjic, che ritengo molto giusto, cioè alla distinzione tra risoluzione e controllo dei conflitti. La cosa mi ha molto colpito, perché alcuni anni fa abbiamo organizzato una conferenza sui corpi non armati delle Nazioni Unite ed abbiamo invitato tutti i maggiori esperti italiani di questi argomenti. Uno di questi esperti delle Nazioni Unite ha fatto una dichiarazione che mi ha molto colpito, ha detto : “ In realtà gli Stati non pensano a prevenire il conflitto ma hanno scelto la politica del controllo del conflitto”, l’esempio specifico di cui lui parlava era quello del Medio Oriente, vuol dire che il conflitto del Medio Oriente ( cioè Palestina, Siria e così via ) non deve scendere molto in basso, se no non si possono più vendere le nostre armi; allora, la Russia da una parte e l’America dall’altra dovevano vendere le armi, quindi il conflitto si doveva mantenere ad un certo livello, però bisognava anche mantenerne il controllo in modo da evitare che il conflitto diventasse talmente grande da portare alla Terza guerra mondiale, quindi rischiare un conflitto esterno. Il controllo del conflitto si ha non nella soluzione del conflitto, ma nel tenere il conflitto ad un basso livello, cioè quello di cui parlava Janjic. E’ certo che questa politica è una politica micidiale, una politica sicuramente non di pace, ma di guerra in cui c’è dentro tutto: c’è la guerra a bassa intensità, c’è la politica che si è fatta in America, in Sud America ed anche nel nostro paese, in cui si cerca di mantenere il conflitto di bassa intensità per non far esplodere i conflitti e tenerli a un livello basso per tenerli sotto controllo. Con Galtung, rifiutando il concetto di controllo del conflitto, rifiutando anche il concetto di risoluzione del conflitto, perché questo vuole che tutti i conflitti siano negativi, riteniamo che il conflitto, di per sé, non sia negativo, il problema è come il conflitto si sviluppa e quindi ciò di cui si parla è l’umanizzazione del conflitto, trasformare il conflitto in confronto, quindi non l’eliminazione o la risoluzione di tutti i conflitti, molti conflitti non si possono risolvere. Galtung stesso dice, parlando di esperienze personali, che qualche volta in una coppia la risoluzione del conflitto attraverso la separazione non funziona, certo, non sempre, tutti i conflitti si possono risolvere positivamente, ma si può parlare di trasformazione del conflitto, è questo un altro dei punti sottolineati e su cui volevo accennare qual’cosa.
L’altro punto è quello sollevato da Marek Zelazkiewicz sul problema dello squilibrio di poteri, questo l’ho scritto anche nel mio libro che è stato tradotto in serbo, albanese, inglese. Affronto questo problema dello squilibrio di poteri che c’è nei conflitti squilibrati, tipo quello che chiaramente esiste tra serbi e albanesi nel Kosovo Ci sono solo due modi possibili attraverso i quali si può entrare nel conflitto in modo valido: come prima cosa bisogna riequilibrare il conflitto.
Questa è l’indicazione che abbiamo tratto dai seminari e dagli studi che abbiamo fatto sul problema dei conflitti squilibrati. La riequilibrazione dei conflitti avviene in due modi semplici: prima cercando di agevolare l’ unione del gruppo che subisce, in modo tale che possa elaborare una sua strategia, ad esempio la divisione interna degli albanesi tra la linea dura e la linea molle, sicuramente è qualcosa che fa piacere a Milosevic e che sicuramente non va a vantaggio degli albanesi stessi. Quindi o gli albanesi riescono a elaborare una linea strategica comune che veda di superare opposizioni, e veda di superare anche ciò che Zevia ha chiamato terrorismo. Personalmente non uso il termine terrorismo nel parlare dell’UCK, però riconosco che ci siano delle frange dei gruppi dell’UCK che sfuggono al controllo e usano forme terroristiche, su questo punto credo ci sia poco da dire, ci sono sicuramente. Quindi quando parlo di terrorismo degli albanesi non parlo dell’UCK in generale, ma parlo di queste frange. Sicuramente la prima cosa da fare è elaborare una strategia comune che non veda perciò gli albanesi impegnati in una lotta l’uno contro l’altro. C’è un articolo che è apparso giorni fa, che ho trovato su internet, che mi ha fatto rabbrividire, di uno dei gruppi dell’UCK il cui capo è stato ucciso da un altro di un altro gruppo dell’UCK, perché il primo non era in linea con le direttive, è chiaro che quando si arriva a conflitti interni di questo tipo l’unica cosa che si può dire è che noi abbiamo già fatto vincere il nostro nemico. Questo dunque è il primo punto: è un problema interno albanese, ma è anche un problema a livello internazionale.
Noi distinguiamo tra riformismo e rivoluzione non violenta, questo è l’ultimo argomento che volevo affrontare. Di ciò ne ho parlato anche a Pristina, nelle varie conferenze che ho fatto, parlando con gli studenti o facendo altri incontri.
La non violenza ha due gambe, questo ce l’ha insegnato Ghandi: il progetto costruttivo da una parte e l’azione diretta dall’altra. Queste due gambe sono riuscite a far vincere le lotte non violente quando hanno lavorato insieme, quando si sono divise, quando da una parte si è portato solo il progetto costruttivo e dall’altra solo l’azione diretta, ecco che praticamente c’è stato solo un fallimento.
Purtroppo quello che ho trovato lì nel Kosovo è che: da una parte c’è un progetto costruttivo molto interessante portato avanti da Rugova e da tutta la linea dell’LDK che personalmete cerco di valorizzare, pensate che i serbi temevano quasi di più questo tipo di azione dell’azione diretta, che riuscivano a controllare maggiormente. Dall’altra parte, però, l’altra arma, l’azione diretta è servita alle opposizioni belgradesi, qui c’è Stasa che come donna in nero ha partecipato a queste lotte dell’opposizione di Belgrado contro la falsificazione dei dati elettorali. L’ azione diretta è servita alle opposizioni per far vedere che le elezioni erano falsificate, per riuscire a far riconoscere ciò e far rifare le elezioni.
Tutto ciò è stato importante, perché dovrebbe far capire, e questo lo dico agli amici albanesi col cuore: state attenti a identificare il blocco dei serbi, cioè praticamente evitate queste visioni di blocco che vi impediscono di capire quali possono essere i vostri reali alleati dall’altra parte, che vi pongono su posizioni nazionaliste così chiuse che non lasciano possibilità assolutamente ad aprire un minimo di dialogo. Attenzione quindi a queste chiusure, perché queste chiusure non portano a niente e non serviranno a molto.
L’altro punto, e qui chiudo, per riequilibrare un conflitto è l’intervento della terza parte: la terza forza. Nessuno crede che i conflitti si possano risolvere esclusivamente tra due attori: quando il conflitto è arrivato a un certo livello l’importanza del ruolo della terza forza è fondamentale. Però da questo punto di vista devo dire, avendo lavorato in Italia, ma avendo anche partecipato alle riunioni del Parlamento Europeo ( il Gruppo Verde mi aveva invitato varie volte con Alex Langer, che era mio amico, ed è stato anche in parte mio allievo quando preparava la tesi), che la coscienza dei nostri paesi sui problemi del Kosovo è quasi nulla. Sembra che il loro compito sia solo quello di cercare di fregare l’altro. Al Ministero degli Esteri, quando siamo andati, ci hanno detto: siamo i primi in Slovenia, siamo i primi in Croazia, vogliamo essere i primi in Jugoslavia. Cosa voleva dire questo: siamo i primi nel commercio con la Slovenia, con la Croazia, vogliamo esserlo anche con la Jugoslavia. Io mi sono vergognato sinceramente quando, negli stessi giorni in cui avveniva in Croazia quello che è avvenuto, il nostro primo ministro andava in Croazia a firmare questi accordi: mi sono vergognato come italiano. Ma ancor di più mi vergogno quando si fa la politica estera del nostro paese basandosi su questo ragionamento: se no i Tedeschi ci fregano! Sembra che tutto il problema sia quello della concorrenza tra paesi diversi.
Ultima cosa, e scusate se ne ho lasciato altre, è il discorso di Janjic, che è fondamentale. Gli Stati hanno fatto il loro tempo. Galtug, che è mio amico, dice: “se tutte le nazioni volessero il loro Stato, siccome praticamente solo un centesimo, non so quanto, di nazioni hanno Stati, il nostro futuro sarà un futuro di guerra”. E quindi, praticamente, visto che gli Stati hanno fatto il loro tempo bisogna cominciare a lavorare su livelli superiori, a livello di zone, di accordi di zone, di confederazioni, d’altra parte mi ricordo ancora quello che Mirie (Rushani) qui traduceva per noi, quello che uno psicologo, che credo sia bosniaco, ma che insegnava all’università serba, Caran, quando gli si poneva questo problema qui diceva: “ Ma vede gli albanesi sono i primi a essere interessati a un discorso di questo genere, perchè sono divisi tra Macedonia, Albania, Montenegro e Kosovo. Quindi o si riesce a trovare forme confederali che vadano al di sopra del singolo Stato e che coinvolgano più paesi, oppure gli albanesi non troveranno mai una reale soluzione al loro problema”. In questo senso credo che questa sia una considerazione da tener presente. Domani ci sarà qui il direttore di Limes che aveva lanciato l’idea della Euroslavia, su questa idea noi abbiamo fatto molte interviste anche nella zona e il nome è risultato sbagliatissimo, perchè il nome Euroslavia pone al centro gli slavi e gli albanesi non sono slavi. Però l’idea di cercare la soluzione all’interno di accordi più vasti tra paesi diversi, sicuramente è un’idea su cui dobbiamo lavorare molto, credo che questo sia un impegno per tutti noi e voi. Io ho finito, grazie.
Passo la parola alla signora Etta Ragusa è la coordinatrice della nostra Campagna Kossovo”.

Sig.ra Etta Ragusa:
“Mi ricollego al fatto che il professor L’Abate aveva detto prima “così qualcuno mi può aiutare a dare delle risposte” e vorrei semplicemente puntualizzare una cosa, un aspetto già affrontato dal professor L’Abate. Come Campagna Kosovo noi siamo nati nel 1993 e non siamo nè un’associazione nè un comitato, nè un organismo non governativo, ma l’espressione della buona volontà di gente che si è mobilitata dalla base credendo nella non violenza per porci un obbiettivo a brevissima scadenza. Gli obiettivi si sono ampliati man mano che la campagna Kosovo è andata avanti. Il primo obiettivo che ci siamo posti era quello di informare, non perchè noi avevamo un progetto etico e nemmeno perchè ne avevamo uno politico da attuare, ma perchè quello che qui è stato definito o almeno sul quale è stata posta la domanda se la non violenza sia etica, o se invece sia solo un’ ideale, un’ utopia, o se invece sia qualcosa di concreto, là era già in atto, era già concretizzata da due milioni di albanesi. Essi in un contesto esplosivo, con una guerra in atto, come quella nei Balcani, invece di approfittare dell’occasione e di reagire anche loro in quel caos totale che era la ex-Jugoslavia, da bellicosi e da figli di bellicosi e come popolo estremamente forte, che credeva e aveva perpetuato il codice consuetudinario della vendetta e del sangue, questi, che non erano imbelli e nemmeno dei vigliacchi, hanno deciso per la non violenza. Sono stati anni in cui questa opzione non era opzione di popolo, ma forse era l’idea solo di qualcuno, perchè il resto praticava la violenza corrente, in confronto alla repressione di cui erano fatti oggetto. Quando è emerso il leader, quando hanno riconosciuto un leader e hanno creduto in lui: Ibrahim Rugova, si sono mobilitati e hanno resistito in modo non violento secondo un progetto valido, come ha detto il professor L’Abate, ma al quale forse mancava con altrettanta consistenza l’altra gamba, hanno resistito dal 1989.
La stessa cosa si è realizzata in Pakistan con Basha Kaan, noi non ci siamo mobilitati per realizzare qualcosa che già c’era, non per realizzare un nostro progetto e come se passeggiando avessimo visto un fiore “guarda pure qui nasce l’orchidea”, perchè lo abbiamo fatto?! Lo abbiamo fatto semplicemente come singoli, come movimenti che hanno aderito a questa campagna nata quasi dal nulla semplicemente perchè ci siamo rifiutati di abdicare alla nostra coscienza per solidalizzare con un popolo che mostrava nella realtà concreta in un contesto di guerra e di morte e di grandissima violenza, che la non violenza è possibile”.

PROF. A. DONNO:
“Grazie signora Ragusa. Altri interventi ? Penso che il professor L’Abate abbia risposto solo parzialmente alle moltissime domande, abbia eluso alcune questioni non per cattiva volontà, ma perchè saranno sicuramente affrontate nei giorni prossimi. Personalmente sono in disaccordo su un buon numero di punti ma prometto di discuterne più avanti”.

PROF. A. L’ABATE :
“Posso anche continuare, nel senso che non volevo tediare troppo. Ho preso quegli argomenti che mi sembravano più consoni... per esempio, non sono d’accordo sul discorso dell’ Iraq, anche perchè noi come gruppo eravamo intervenuti anche in Iraq. Sapevamo che lì c’erano delle possibilità di risolvere il problema in modo diverso, non si sono cercate, e mi ricordo ancora quando abbiamo incontrato Willy Brant a Bagdad che diceva: “ qui non è sicuramente Saddam Hussein, sono l’ America e l’ Inghilterra che hanno deciso comunque di fare la guerra”. E allora le soluzioni erano diverse: i russi avevano proposto, Mitterand aveva proposto, c’ erano varie possibilità, noi stessi avevamo fatto delle proposte, ma praticamente non si sono volute accettare e da questo punto di vista, secondo me, l’Europa ha avuto una carenza notevole proprio perchè non si è presentata con una posizione unica, non è la prima volta. Questo è il problema, un problema fondamentale dell’ Europa, anche su queste cose, è che non c’è una politica estera europea. Sono tante politiche estere diverse. Quindi l’Europa deve farsi le ossa, però purtroppo intanto ci sono i morti. Mentre l’ Europa invece di farsi le ossa come politica estera comune, rischia tante volte di pensare ai litigi interni per i mercati. Ecco, io mi auguro che si arrivi a una politica estera europea.
Un’ altra cosa che vorrei dire, visto il rapporto sempre che mi ha sollecitato lei, professore Donno, è il discorso delle ONG e dei corpi europei di pace. Qui il problema di fondo che c’era all’interno del nostro gruppo era il seguente : “puntiamo su un corpo europeo di pace fatto da ONG o puntiamo su un corpo europeo di pace organizzato dagli Stati, quindi dalla stessa Europa ?” . Queste due linee non erano in contrasto l’una con l’altra, ma è chiaro che quando si istituzionalizza qualche cosa si rischia sempre di perdere qualche cos’altra. Quindi la nostra era una soluzione intermedia di avviare un’ istituzionalizzazione però di vedere anche il collegamento tra questa istituzione dei corpi non armati di pace europei e i movimenti di base, le organizzazioni di base, che poi partecipano a questo tipo di attività, che hanno le persone più preparate. Abbiamo cercato, perciò, delle formule intermedie che permettessero un collegamento tra l’ istituzione e il mondo delle ONG. Anche qui, come abbiamo detto prima per gli Stati, c’è questa ricerca di soluzioni sovrastatuali, che sicuramente è una ricerca che non ci potrà vedere in secondo piano, c’è anche in questa ricerca di forme istituzionali che non siano istituzionali come qui in Italia. C’è Alberoni, un mio collega più anziano, che dice “c’è il movimento e l’istituzione, appena il movimento si trasforma in istituzione è morto, quindi si crea un altro movimento”. Cercare invece di dar vita a delle istituzioni che non siano morte in partenza, ma che siano sempre in collegamento con il mondo civile, con la società civile. D’altra parte devo dire, per citare di nuovo l’ Onorevole Toya, che l’ altro giorno al convegno a Milano, dove eravamo relatori insieme, su una nuova politica estera in Italia, ha detto che i passi principali che sono stati fatti dall’ Italia, per esempio attraverso una delle leggi, forse una tra le migliori del mondo nel campo del commercio delle armi, poi bisognava vedere se sarebbe stata applicata. Però, comunque, la legge è sicuramente buona. E’ stata possibile grazie al fatto che ci sono le ONG nella campagna sia contro le mine, sia contro il commercio delle armi, che la stimolavano dal basso. L’ onorevole Toya ce l’ha detto chiaramente, che in queste conferenze internazionali era sempre a stretto contatto con queste organizzazioni per capire se le proposte che venivano fatte erano sempre valide o meno. Quindi lei stessa ci ha sottolineato l’importanza del ruolo di queste ONG, anche per la politica estera italiana, questo mostra la necessità di trovare delle forme nuove in cui istituzione e movimento non siano separati, ma lavorino in sintonia e in simbiosi. Vi ringrazio”.

PROF. A. DONNO :
“Grazie, signori credo che questa prima sessione del convegno sia conclusa. Oggi pomeriggio alle 16.00 la seconda sessione su Il ruolo della lotta non violenta ed il suo potenziamento. Arrivederci e grazie”.

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