“Who Cares? I Care!”
Considerazione sull’iniziativa

Abbiamo appena lasciato Prishtina, e i cinque pullman di “I care” sono sulla strada del ritorno. Nel sedile dietro di me è seduto Gabriele un ragazzo ormai veterano di queste azioni. Il suo sguardo è fisso sulle campagne che stiamo attraversando. Sembra quasi che stia pensando a quello che stiamo lasciando alle spalle. Il ns. viaggio a Prishtina ha avuto un valore o è stato semplicemente una gita turistica? Questo tentativo di interpretare la nonviolenza attraverso anche a delle “pseudo-interposizioni", di pensare che in un cft. in atto possano esserci dei diritti di ingerenza esterna da parte di gruppi nv è da considerarsi nella ricerca e nell’orizzonte delle azioni nv o sono protagonismi di persone egocentriche o che comunque credono che loro possano salvare il mondo? Questa marcia è andata incontro al dramma degli albanesi e alla paura dei serbi o è servita per affermare la ns esigenza di essere protagonisti?
Gandhi quando parlava delle sue azioni nv le chiamava sperimentazioni. Usava questo termine perché la strada della nv è antica come le montagne, ma la conosciamo poco. Abbiamo bisogno di far ricerca, di scoprirla nella sua pienezza. Quindi bisogna considerare le azioni come sperimentazioni sulla ricerca della nv. Ecco che in questa visione l’azione di pace di Prishtina (per il 50° anniversario della carta dei diritti umani) è stata un esperienza ottima. Stiamo ritornando a casa con un grande “bagaglio” pieno di elementi di ricerca verso i tipi di azione per un interposizione nv efficace. È ancora una sperimentazione giovane, ma i passi che stiamo facendo sono importanti e acquisiranno il suo pieno valore forse dalle prossime generazioni.
Dobbiamo essere consci che i ns. pensieri di interposizione nv efficace vivono in un mondo che ha ancora una dimensione da “far west”. Quindi noi siamo carichi di tutta l’utopia e i sogni che fanno maturare l’umanità, ma che ora hanno il limite delle ns debolezze, ingenuità, inesperienze… di una storia ancora troppo giovane. Possiamo immaginarci di avere appunto le stesse difficoltà vulnerabilità che queste idee incontrerebbero nel far west. Nel far west sarebbe assolutamente inutile pensare a una qualsiasi efficacia. L’utilità trova la sua motivazione nella prospettiva futura. Noi siamo decisi a vivere nel far west con questi sogni perché la ns azione di sperimentazione utopica può aiutare ad aprire la strada alle generazioni future. Saranno loro a raccogliere i frutti dei ns sogni e a lavorarci vedendo dei risultati concreti.
Invece difficilmente possiamo dire che la ns azione abbia inciso o inciderà sul cft serbo-albanese. È questo forse il fatto triste dei ns tipi di azioni, comunque non siamo partiti da Bari con questo intento. Il sogno rimane, ma dobbiamo anche riconoscere i ns limiti, le ns debolezze.
Noi siamo andati a Prishtina per chiedere scusa alla gente del ns ritardo, perché il cft non è soltanto un loro problema ma è anche un ns problema. Sarebbe comunque troppo poco fermarsi al livello (pur giusto e doveroso) della denuncia. Anche se ci riconosciamo impotenti e poveri di mezzi e di idee (bhe! Forse presuntuosamente di quelle ne abbiamo di più e anche di migliori della diplomazia ufficiale) abbiamo il dovere di entrare nel conflitto e di tentare di aiutare e indirizzare la crisi verso una soluzione nv.
L’incontro con la gente c’è stato e sicuramente la ns. presenza avrà provocato dei sentimenti chi di disprezzo, chi di approvazione, chi di indifferenza, chi di preoccupazione, chi di sostegno, chi di fastidio. Ma tutto questo darà dei frutti? L’incontro l’abbiamo cercato attraverso la visita (divisi in delegazioni) di tutte le realtà presenti a Pristhina, il simposio all’università albanese, la marcia silenziosa a “fisarmonica” e anche dai ns semplici spostamenti nella città.
Quando ci spostavamo in gruppo venivamo osservati dai passanti e questo fatto dava già di per sé l’aria pesante del tipo di clima che il cft ha creato.
Possiamo quindi riassumere l’azione di “I care” con una parola: incontro. La ns “visita lampo” può assumere un valore di sostegno, di solidarietà politica, nella misura in cui e stata percepita come incontro e ascolto.
In questo senso un primo “potere dei segni” (nella realtà kossovara di quella politica nv che vorremmo vedere che sviluppassero le diplomazie della comunità internazionale) è sicuramente il progetto della “Giovanni XXIII”: operazione colomba.
I ragazzi della “Giovanni XXIII” vivono in due villaggi distrutti dalla guerra. Con la loro presenza cercano di essere una garanzia per il ritorno dei profughi albanesi nelle case distrutte e una rassicurazione per le paure dei serbi; lavorano per essere un ponte tra le due comunità e favorire così il processo di riconciliazione.
È chiaro che se, insieme ai 2000 osservatori dell’osce, ci fosse un progetto dell’Onu che prevedesse un gruppo dell’operazione colomba o simile, in ogni villaggio coinvolto dalla guerra, forse il conflitto avrebbe meno facilità di vivere. Ma i “se ci fosse” fanno parte di un’altra storia noi viviamo ancora nel far west e siamo chiamati (come diceva don Tonino) a costruire il potere dei segni per favorire il Divenire della nuova Storia.

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