SULL’ABUSO DEI MITI NAZIONALI
NEL PROCESSO DI DISINTEGRAZIONE DELL’EX-JUGOSLAVIA
di Prof. Vatroslav Vekaric
Relazione all’Università degli Studi di Firenze
Seminario
“Miti storiografici antichi attivi nella dialettica politica contemporanea”
Firenze, 14 Maggio 1998

Belgrado, Aprile 1998

Mi è stato suggerito di parlare sui miti storiografici antichi, attivi nella dialettica politica contemporanea dei paesi della fascia adriatica orientale. Come uno che conosce la storia, non come esperto, ma come analitico delle relazioni contemporanee, propongo invece di dire alcune parole su un tema vicinissimo a quello proposto: sul ruolo che i miti nazionali dei popoli, che costituivano l’ex-Jugoslavia, hanno avuto nel processo di disintegrazione di questo paese; dunque, dei miti usati o abusati nella lotta politica alla ricerca della legittimazione di ciò che è accaduto nell’ ex-Jugoslavia in questi ultimi anni.
Porrò l’accento sull’ abuso di questi miti, dove - come si può vedere - la nozione di mito è intesa come qualcosa che, in parte, non corrisponde ai fatti storici scientificamente determinati, ma soprattutto come elemento dello stato delle conoscenze collettive di questi popoli dall’ antichità fino ai giorni nostri. Come dice Roberto Calasso, il mito è una forma di conoscenza, costituita da racconti diversi, spesso in conflitto tra loro, al contrario del moderno sapere analitico.

“I Balcani - diceva Churchill - producono più storia di quanta ne consumino”. Il vecchio saggio intendeva che in quella regione possono prodursi molte crisi capaci di conseguenze per l’ intero continente europeo: è sufficiente pensare alla prima guerra mondiale.
Churchill aveva senz’altro ragione. La crisi jugoslava ne è la prova.
Ancora oggi, storici ed esperti non sono d’accordo sulle radici elementari del complesso dei problemi noti come: “la crisi jugoslava”. Ci sono tante interpretazioni e punti di vista che non convergono.
E’ alquanto diffusa l’ opinione che, per via della disintegrazione della Jugoslavia, la guerra sia stata inevitabile e che, in genere, le guerre nei Balcani siano storicamente inevitabili e che si devono ripetere ad intervalli più o meno fissi. Un’ analisi più attenta, però, rivelerebbe uno scopo assai preciso in questa affermazione, che è quello di sgravare di responsabilità tutti quei circoli politici, culturali, intellettuali, informativi dell’ ex-Jugoslavia che hanno portato alla guerra. Per loro, ancora oggi, torna utile la tesi sulla natura maledetta dei Balcani e dei loro abitanti, tutto quanto accade oggi viene rappresentato come un inevitabile ripetersi della storia e viene usato come ausilio a numerose analogie storiche. Si sostiene, inoltre, che questi conflitti si ripeteranno finché non sarà definitivamente risolta una determinata “questione nazionale”, naturalmente nel senso in cui essa viene intesa dagli autori degli obiettivi nazionali.
Mentre sul territorio dell’ ex-Jugoslavia esiste un forte bisogno politico di motivare queste tesi, in determinati circoli politici e intellettuali d’ Europa, esse vengono accettate come spiegazione e scusante per l' insuccesso dell' azione della comunità internazionale e per la mancata azione di prevenzione del conflitto nell' ex Jugoslavia, che ha fatto inorridire l' intero mondo civile, non solo per la sua ferocia e brutalità, ma anche per i pretesti intellettuali addotti. Infatti è più facile da spiegare il ritardo della reazione, tirando in ballo l' ineluttabilità del conflitto tra i popoli e gli Stati balcanici, il che logicamente porta a indecisione e ad assenza di volontà di influire su questo conflitto, o di impedirlo.
Le dirigenze delle oligarchie nazionali, specialmente quelle della Serbia, hanno valutato che: la caduta dei regimi totalitari dell’ Est costituisse il momento propizio per la spartizione territoriale. Il ravvivamento della "questione nazionale", delle pretese territoriali e degli attriti interetnici, non è stato, tuttavia, il risultato d' irriducibili e inevitabili contrasti immanenti e storici, bensì è stato, in primo luogo, la conseguenza della tendenza ad una nuova ripartizione territoriale, nel momento in cui erano aboliti gli antagonismi fra Est e Ovest e la divisione dell' Europa. Questa è stata, tra l' altro, la via più facile per evitare profondi mutamenti sociali: alla popolazione, mediante una massiccia propaganda, è stata imposta la tesi sulla necessità di risolvere per prima la "questione nazionale" (serba, croata, slovena ecc.), mentre la democrazia e le riforme dovevano attendere l' adempimento di questo compito "nazionale". La soluzione della "questione nazionale", in questa situazione, ha assunto la forma di guerra per i confini dei nuovi Stati in via di formazione: "nella misura in cui le repubbliche/nazioni venivano restringendo l' identità del loro modo di essere in via di formazione (trasportate dal forte processo d' omogeneizzazione nazionale, come nel caso dela Serbia e della Croazia), esse perdevano la capacità integrativa e cadevano in conflitto sia con le etnicità presenti nel loro seno, che con le altre repubbliche.
L' identità nazionale più basilare è data dall' omogeneità etnica, e gli Stati in formazione hanno visto la via della propria integrazione proprio in quest' identità. La guerra, dunque, è scoppiata a causa dello spostamento dei confini e del cambiamento della struttura etno-demografica, e ha avuto una funzione importante nel consolidamento del potere delle oligarchie, venute a capo delle proprie repubbliche, nelle elezioni tenute dopo il crollo del comunismo.
In tutto questo, il ruolo dei miti dei popoli ex-jugoslavi e stato importantissimo, innanzi tutto come modo d' omogeneizzazione etnica, di strumentalizzazione dell' opinione pubblica, nella rinascita dei sentimenti nazionalistici, che hanno dovuto giustificare le politiche scelte.
Prima di entrare nell' analisi di questo abuso, abuso che, secondo molti pareri, è stato, non solo la conseguenza, ma anche una delle cause della guerra e delle brutalità già menzionate, vorrei brevemente offrire un' immagine semplificata della storia dei popoli della fascia adriatica orientale, per far capire più facilmente i processi successivi.
La caratteristica preponderante di quella che fu la Jugoslavia è il suo pluralismo etnico, culturale e geografico.
In primo luogo, è bene considerare che, nell 'area balcanica, sono presenti numerose etnie che, pur di piccole dimensioni, hanno però precisi caratteri di ordine storico, culturale e religioso che le differenziano nettamente. In tutto, solo considerando i territori dell' ex Jugoslavia, i gruppi etnici presenti sono ben 24 per una popolazione complessiva che, nel 1991, l’ anno della disintegrazione, non arrivava neanche a 25 milioni.
Un' altra forte spaccatura è di ordine religioso (sono infatti presenti ortodossi, cattolici e musulmani).
Ulteriori motivi di divisione derivano dalle diverse dominazioni straniere che hanno segnato fino alla fine del XIX secolo la storia delle repubbliche che andranno a formare l' attuale Jugoslavia: semplificando, abbiamo infatti da un lato l' Impero Ottomano, dall' altro quello Austro-Ungarico.
Nel sesto secolo dopo Cristo, quando gli slavi si insediarono nei Balcani, vi trovarono già una frontiera antica di due secoli: quella fra l' impero d' Oriente e d' Occidente.
Si trattò di una cesura non solo amministrativa, ma anche culturale e religiosa, dato che separava le due grandi sfere di influenza, esistenti nell' Europa contemporanea, i cui centri erano Roma e Bisanzio. I popoli slavi, che si insediarono ad occidente di quella linea, i Croati e gli Sloveni, accettarono il cristianesimo nella sua variante romana, inserendosi nella cultura dell' Europa occidentale. I Serbi, i Montenegrini, i Macedoni, i Bulgari, insediati ad oriente, furono attratti invece nella cerchia culturale di Costantinopoli e della chiesa ortodossa. Da ciò - affermano certi storici - non esistevano solo due modi diversi di pregare e di scrivere, di celebrare i momenti fondamentali della vita, ma anche esistevano due modi diversi di pensare e di essere.
Questa divisione fu ribadita dallo scisma del 1054, che segnò la definitiva separazione tra la Chiesa di Roma e quella di Costantinopoli. La separazione fra i fedeli di Roma (polacchi, cechi, slovacchi, croati e sloveni) e quelli di Bisanzio (russi, bulgari e serbi) fu ulteriormente accentuata dall' uso di alfabeti diversi (latino per i cattolici, cirillico per gli ortodossi).
Su questa bipolarità fondamentale, nel XIV e XV secolo si innestò anche la cultura islamica, che i turchi portarono nei Balcani nel corso della loro avanzata verso l' Europa centrale.
Si trattò di una esperienza traumatica per gli slavi meridionali, soprattutto per i Serbi, vinti dalle forze ottomane nella battaglia del Kosovo, il giorno di S. Vito, il 28 giugno 1389. La nobiltà serba venne sterminata, la Serbia (che si era liberata dal rapporto di subordinazione nei confronti di Bisanzio già nel XIII secolo, aveva raggiunto la sua massima espansione tra il 1331-55 con il re Stefano IX Dusan, portatore del progetto imperiale della grande Serbia; il progetto lo condusse ad estendere i suoi domini fino ad includere la Macedonia, l' Albania e l' Epiro) diventò vassalla dei Turchi nel 1396 e venne assoggettata completamente all' Impero Ottomano nel 1459.
Quella sconfitta, nel secolo successivo, portò i serbi sotto il dominio turco, spingendo coloro che potevano sottrarsi alla schiavitù a cercar scampo fuori dalla propria patria. Cominciò così una diaspora che disperse consistenti nuclei di serbi un po' dappertutto nell' area danubiano-adriatica.
In Bosnia, invece, si verificò un fenomento di osmosi: una parte consistente della popolazione si convertì infatti all' Islam, complicando ancora la struttura etnico-religiosa di quella terra, dove vivevano da secoli anche comunità serbo-ortodosse e croate, cioè cattoliche. I Turchi, in verità, erano assai tolleranti in fatto di religione, permettevano ai cristiani di praticare la propria, pur relegandoli entro la loro società in una posizione subordinata. Ciò permise alla chiesa serbo-ortodossa di sopravvivere come unica istituzione autonoma serba, rafforzando ancora l' identificazione fra coscienza nazionale e appartenenza religiosa.
Come molti Stati dell' Europa occidentale, anche lo Stato croato fu fondato sulle rovine dell' Impero Romano Occidentale. Giungendo fino ai territori dove vi abitano oggi, già nel IX secolo, i croati organizzarono e costruirono il potere politico formandolo in principati. Questi principati, sotto il re Tomislav, nel X secolo (925), si unirono in uno Stato croato. Con la stipulazione della Pacta Conventa nel 1102. (il contratto basato sulla unione personale tra feudali ungheresi e croati), al trono croato successe la dinastia ungherese degli Arpadovic. La Croazia rimase a far parte dell' Ungheria medievale e piu' tardi, (dal 1527), fece parte della monarchia degli Asburgo. Così rimase fino al 1918.
Ecco l' immagine semplificata della storia dei popoli ex-jugoslavi che deve aiutarci a capire come i miti, eredi di questo passato, sono stati usati nei tempi attuali.
E’ probabile che mai, nella storia dei Serbi e dei Croati, non sia stato esposto tanto sulle illusioni, sulla loro grandezza nazionale, com' è stato detto durante e dopo la disintegrazione della Jugoslavia.
I miti etno-nazionalistici hanno ottenuto un ruolo importante nella propaganda degli obiettivi politici delle elite nazionalistiche, ma anche nella propaganda bellica. In Serbia si può affermare che questa lingua dei miti etno-nazionalistici è stata, pressoché, l’ unico elemento dell' ideologia nazionalistica miloseviciana. A prima vista si tratta di una lingua dove non esiste niente di politico e di ideologico, un qualcosa che appare naturale, accettabile e banale, qualcosa che sia incontestabile, come ciò che si dice sul mito serbo del Kosovo: la Gerusalemme serba, la culla della spiritualità e civiltà serba; o la tesi sulla Serbia: che esiste là dove è possibile trovare le tombe dei Serbi; o, ancora, la fraseologia sui traditori, sugli scismi, sul bizantino illustre e sull' Europa in putrefazione, sull' identità serba, sui confini ecc. Esiste anche un mito sulla similitudine fra Ebrei e Serbi o Craoti, perché tutti sono stati perseguitati nel corso della storia.
Nel linguaggio di propaganda etnocentristica, sia serbo che croato, si parla dei tempi in cui i croati ed i serbi erano centri e focolai della cultura europea, quando ancora gli europei erano dei barbari. Da ciò proviene la famosa storia che, presso la corte del re medievale serbo Nemanja, si mangiava con forchette e cucchiai d' oro, quando, invece, nelle corti europee si mangiava ancora con le mani. In Croazia circola addirittura la storiella che la Croazia sia stata europea prima dell' Europa stessa, nel senso del livello raggiunto per civiltà e cultura.
La rinascita di tutti questi miti proviene da una frustrazione profonda, che porta a riferirsi, nei confronti dell’ Europa, come ad un paese decadente, degenerato, antispirituale, malato, quando non è paragonata ad una donna dalla morale equivoca.
Per queste ragioni si pensa che i serbi o i croati possano offrire nuove alternative Europa, salvaguardandone l’ autenticità.
Questo approccio appare ambiguo, poichè è nello stesso tempo antieuropeo e pro-europeo. Si tratta, ovviamente, di un linguaggio e di una psicologia che hanno radici fasciste, miranti all' omogeneizzazione nazionale.
Nella guerra d’ argomenti etnocentristi, che coinvolge tutte le popolazioni implicate nel processo di disintegrazione della Jugoslavia, abbiamo potuto trovare differenti e nuove interpretazioni della storia, a secondo delle origini di appartenenza delle stesse popolazioni. Si riscontra una certa confusione che assomiglia alla crisi d' identità etnica, che i vari popoli, alla ricerca di prove per una revisione delle loro origini etniche, si stanno vivendo.
Cosi troviamo che la nuova, ufficiale mitologia croata ha insistito nell’ introdurre (e persuadere in questo la popolazione) l’ idea che i croati non appartengono agli slavi. Tra l’ altro, è stata lanciata la teoria sulle origini iraniane del popolo croato, riferendosi al fatto che il nome Croati (Hrvati) è d' origine iraniana e che i croati, in origine, sono venuti nei Balcani dalla Persia e non, come altri slavi del sud, di Scythia, dalle montagne degli Urali in Ucraina o da territori della Polonia di oggi. A questo aggiungiamo che, in Croazia, la nuova teoria di Samuel Huntington, sulla divisione culturale del mondo, è stata accettata con grande entusiasmo allo scopo di convincere, se stessi e gli altri, che proprio sul fiume di Drina (nel cuore dell' ex-Jugoslavia) passa la frontiera fra le due civilizzazioni, Occidentale ed Orientale, dove i Croati costituiscono l’ ultimo ostacolo all' aggressività orientale (simbolizzata nella loro interpretazione dai Serbi).
I Bosniaci, che è il nuovo nome dei musulmani di Bosnia (che sono considerati, nella ex-Jugoslavia, una nazione e non un gruppo religioso), ritrovano oggi le loro radici al di fuori della compagine slava, nonostante sia evidente che si tratti degli Slavi del Sud islamizzati durante l' occupazione turca. I Bosniaci di oggi insistono sulle radici illiriche, sulle differenze antropologiche con gli Slavi, rintracciabili nella religione specifica dei Bogomili, nelle tipiche pietre tombali (stecak). Lo stato attuale delle cose, cioè l' esistenza di una cultura e di una lingua comune a Serbi e Croati della Bosnia, spingeranno questi ad assimilarsi agli Slavi del Sud. Ma loro rifiutano di accettare l’ identità di Slavi del Sud (Croati o Serbi); storici serbi e croati contestano questa teoria, come le origini illiriche degli Albanesi, che non vengono contestate solo da parte dai Croati e dai Serbi, ma anche dei Macedoni.
I Macedoni, a loro volta, verranno contestati nella loro identità da tutti i vicini con tensioni assimilatrici: i Greci affermeranno che i Macedoni sono Greci; i Bulgari, che i Macedoni non esistono come entità etnica e che rappresentano una "specie" dei Bulgari. In Serbia, nei circoli nazionalistici, la Macedonia è considerata Serbia del Sud, negandone cosi identità ed esistenza ecc.
Troveremo tanti altri esempi su questa confusione dell' identità, su queste tensioni assimilatrici e su questa volontà di revisione della storia; così, per esempio, scopriremo la tesi che i Serbi della Croazia e della Bosnia non sono Serbi, ma Vallachi d' origine (tesi croata), che la popolazione di Dubrovnik (Ragusa) non è croata, ma serbo-cattolica (tesi Serba) e così via.
In questo contesto appare particolarmente interessante il mito serbo sul Kosovo. I motivi principali di questo mito sono: la sconfitta, il tradimento e la discordia tra i Serbi. Nel corso della storia dei Serbi, questo mito ha avuto una forte influenza nello stimolare il processo d' identità nazionale. Anche di questo mito si è ampiamente abusato durante la guerra in Jugoslavia. Un fatto storico: la sconfitta dei Serbi è stato strumentalizzato direttamente dal Slobodan Milosevic. Durante la celebrazione dei 600 anni trascorsi dalla battaglia del Kosovo, Milosevic si è, esplicitamente, riferito al "tradimento" del Kosovo, che a quel tempo contribuì ad umiliare ed a porre in uno stato di inferiorità i Serbi ed ha annunciato che le "lotte armate" servono per superare l’ attuale situazione e a recuperare la dignità dei Serbi. Quesato discorso di Milosevic, pronunciato a Gazimestan (nel Kosovo), viene considerato oggi come l' inizio della tragedia jugoslava.
Come spiegare questo delirio, questo imbroglio e sopruso dei miti? Tutti i popoli hanno i loro miti, ma sembra che sui Balcani occidentali abbondino, che siano sopra la media. Questi miti sono fondati su una finzione, ovviamente sbagliata, cioè: che una nazione esistente oggi, è sempre esistita ed è sempre stata abitata dalla stessa "specie" di popolazione; che i gruppi etnici di oggi, che appartengono alla stessa cultura dei propri antenati, hanno, come loro, la stessa coscienza nazionale; che la nazione attuale, in passato è stata più grande, più importante e che è stata danneggiata ed oppressa dai vicini.
Il denominatore comune a tutti questi miti è, da una parte, la negazione esplicita del carattere multiculturale e multietnico di tutte le società contemporanee, degli Stati neonati sul territorio dell' ex-Jugoslavia e, d' altra, alcun rispetto per gli studi della storiografia seria.
Speriamo che si tratti di una fase temporanea e che la stabilizzazione, tanto voluta, della fascia orientale dell' Adriatico si compia. Le paure spariranno soltanto quando cesserà la lotta per il territorio, che con il rapido sviluppo della tecnologia mondiale è superflua e fuori tempo.
Dunque, quando un vicino non avrà neanche per idea delle pretese sul territorio di un altro, allora si potranno creare i rapporti civili tra nazioni confinanti e saranno ad un livello europeo, dove funzionano tutti i principi positivi di coesistenza, tra i quali s' interpone la democrazia occidentale. Ma, dovrà passare molto tempo perché si ottenga questo livello.


Belgrado, Aprile 1998

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