Ipotesi per un punto di vista unitario condivisibile
le conclusioni di Alberto L’Abate alla Tavola Rotonda dei Berretti Bianchi: Pisa, 15 novembre 2009
a cura di Gianmarco Pisa (Operatori di Pace Campania)

Le conclusioni affidate ad Alberto L’Abate, presidente dell’Associazione di Rete IPRI (Istituto di Ricerca per la Pace Italiano) rete CCP (Corpi Civili di Pace), hanno tratto sinteticamente le fila del discorso avviato nei panel tematici e nella discussione in plenaria della Tavola Rotonda, relativamente all’organizzazione dei percorsi della facilitazione costruttiva e della trasformazione positiva dei conflitti, sulla base delle cinque domande/spunti di riflessioni intorno ai quali era stato istruito il dibattito medesimo. Il problema della “molla” che induce a partire per le zone del conflitto e del post-conflitto (senza entrare nel merito della pur fondamentale distinzione tra azione “nel conflitto” e “nel post-conflitto” e del dibattito tra le diverse metodologie di azione da parte delle varie realtà sociali della trasformazione) è anche il problema della “motivazione” e del “presupposto”, su cui potrebbe esercitarsi una lunga e complessa riflessione. In ogni caso, si concorda sul fatto che ad essere fondamentale e decisiva ai fini della presa in carico di un’azione legittima non è tanto la “chiamata esplicita” avanzata da una o, meglio, entrambe le parti del conflitto, quanto piuttosto l’esistenza di una “domanda legittima leggibile”, vale a dire di una condizione di bisogno condivisa da tutte le parti del conflitto rispetto alla quali si possa costruire una ipotesi di relazione equi-vicina o per lo meno integralmente non-partigiana. Non è dunque necessario che l’interfaccia istituzionale sia compiutamente democratica o che le controparti accedano ad un livello di ammissibilità democratica corrispondente al nostro standard: si sa che la pace va fatta “tra” i nemici e “con” i nemici e che non è possibile lavorare “nel” conflitto senza sporcarsi le mani o coi paraocchi del nostro modello di “democrazia liberale”. Ciò che va realizzato, è lo sforzo per una soluzione quanto più possibile unitaria e positiva e quanto più conseguentemente capace di relazionarsi in modo pari con tutti, sapendo “distinguere le persone dai problemi” ed “i bisogni dalle rivendicazioni”. Si tratta dunque, nella formazione e nel farsi dell’azione, di evitare la minaccia, sempre incombente nell’azione della parte terza (internazionale), del “colonialismo solidale”: la strada può essere quella di “adottare un conflitto”, liberarsi cioè dalla presunzione di poter conoscere e intervenire in tutti i conflitti, ma prepararsi specificamente all’azione in una determinata tipologia di conflitto o in un determinato contesto di conflitto, ciò che può indubbiamente aiutare sia nel senso dell’aderenza sia nel senso della specializzazione. D’altro canto, è bene ricordare che lo scopo dell’azione civile di pace non è la risoluzione del conflitto, piuttosto la mitigazione della violenza, che possa liberare spazi per la capacitazione, la relazione, il dialogo, la fiducia e la riconciliazione. Il lavoro di “presidio permanente di pace” (ambasciata di pace) va esattamente in questa direzione. Infine, i rapporti con i territori e con le comunità, senza scindere i due elementi, dal momento che testimoniano della vigenza e della intensità del conflitto tanto i luoghi (fisici e mentali) in quanto segnati dall’esercizio della violenza e della sopraffazione (pensiamo alle realtà del Mezzogiorno d’Italia attraversate dal conflitto di mafia), quanto le comunità, sovente lacerate e divise al loro stesso interno. Il lavoro di relazione, peraltro, va sviluppato in tutti i sensi e tutte le direzioni: non solo con le vittime (sebbene si debba “abitare” il conflitto “dalla parte degli ultimi”, lavorando con particolare intensità nei confronti di chi ha più bisogno o ha subito in maniera più lacerante le conseguenze del conflitto) ma con tutti, al fine di promuovere autentici sforzi di dialogo, di fiducia e di riconciliazione. D’altro canto, nei moderni conflitti etno-politici , le parti stesse non sono fisse e il rovesciamento della dialettica tra vittime e carnefici, aggrediti ed aggressori, è assai frequente. Una chiave può essere quella della cosiddetta “maieutica reciproca” (Danilo Dolci), il processo di co- facilitazione e di equi- vicinanza, che abbia come propria stella polare la relazione, il dialogo, il confronto, l’ascolto, l’empatia e, in definitiva, l’integrazione, la non partigianeria e la nonviolenza.


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