Un’Alternativa di Pace per l’Europa di Domani

di Paolo Bergamaschi,
Consigliere per gli Affari Esteri del Gruppo Verde presso il Parlamento Europeo

Discorso tenuto all'Assemblea Nazionale di RETE LILLIPUT
Marina di Massa 23 – 25 maggio 2003

Era il maggio del 1995 quando durante un dibattito sul futuro dell'Unione il Parlamento Europeo adottava a sorpresa un emendamento di Alexander Langer sulla creazione di un Corpo Civile di Pace Europeo come primo passo per contribuire alla prevenzione dei conflitti. La guerra e la pulizia etnica in Bosnia, allora, stavano mostrando gli aspetti più efferati così come emergevano tragicamente i nodi di una scriteriata politica estera europea nei Balcani.
L'idea poggiava sulla constatazione che l'esclusivo approccio militare non è in grado di risolvere le crisi e soprattutto non fornisce i mezzi per lo sviluppo e la conclusione di un vero processo di pace in caso di conflitto violento. Ad un peace-keeping militare va sempre affiancato o dato seguito un peace-keeping civile, si asseriva, alla gestione militare di una crisi deve essere affiancata quella civile.
Questa proposta è stata successivamente ripresa nel 1999 dal Parlamento di Strasburgo sottoforma di una raccomandazione al Consiglio cercando di mettere insieme e valorizzare le esperienze di molte organizzazioni non governative in vari angoli del mondo. Queste ONG, forti di competenze specifiche e azioni prolungate sul campo, avrebbero dovuto costituire il nucleo iniziale di un Corpo Civile di Pace Europeo inteso come struttura non molto ampia ma flessibile specializzata nell'attuazione di misure pratiche per la realizzazione della pace quali l'arbitrato e il ristabilimento di un clima di fiducia fra le parti belligeranti, la distribuzione di aiuti umanitari, il disarmo, la smobilitazione ed il reintegro degli ex-combattenti, la riabilitazione, la ricostruzione e il monitoraggio della situazione dei diritti umani.

La Politica Europea di Sicurezza e Difesa

La successiva crisi in Kosovo ha fatto scivolare di nuovo in secondo piano questa proposta provocando fra i paesi europei, in seguito ai malcelati dissensi con il governo americano, la necessità di definire e mettere in piedi con urgenza una politica europea di sicurezza e difesa (PESD). Si è così cercato di trovare un accordo con la NATO per l'uso delle sue strutture e delle sue capacità operative (bloccato prima dalla Turchia, membro dell'alleanza atlantica, poi dalla Grecia e solo recentemente accettato dalle parti), si è accelerato il progetto di un modello europeo di aereo da trasporto di truppe e di mezzi, si è rafforzata l'idea di una rete satellitare europea ed è partita la costituzione di una Forza di Reazione Rapida di 60.000 uomini in provenienza dai diversi paesi membri. Il fatto, poi, che il segretario in scadenza della NATO, lo spagnolo Solana, diventasse il primo Alto Rappresentante della Politica Estera dell’Unione Europea dirottava ancor di più l’Europa verso una preoccupante dimensione militare.
Contro questa deriva si è levata forte la voce dei paesi neutrali, in particolare Svezia e Finlandia, i cui governi sono stati sottoposti alla pressione insistente delle rispettive opinioni pubbliche timorose che questo passo comportasse l'abbandono di uno status profondamente radicato nella loro storia e cultura. Contemporaneamente nell'Europarlamento una consistente parte delle sinistre (Verdi, Gruppo della Sinistra Unitaria e parte del Gruppo Socialista) hanno cominciato a bersagliare le presidenze di turno dell'Unione Europea affinchè si definisse in tempi rapidi anche una vera politica di gestione civile delle crisi che controbilanciasse l'approccio militare salvaguardando la tradizione, l'immagine ed il profilo di pace dell'Unione stessa.

Una politica integrata di prevenzione dei conflitti

In seguito a questo a metà del 2001 la Commissione Europea ha pubblicato un documento sulla prevenzione dei conflitti elaborando il concetto di un approccio integrato alle aree di crisi in cui fare confluire in modo coerente le politiche comunitarie di sviluppo e cooperazione, gli accordi economici e commerciali, il controllo del commercio di armi e i programmi di sostegno alla democrazia, allo stato di diritto, alla società civile e ai mezzi di informazione indipendenti. In questo documento ci si interroga sugli effetti delle sovvenzioni agricole comunitarie sui paesi in crisi, sul rifiuto ad aprire i mercati europei a buona parte dei prodotti più sensibili (compreso riso, zucchero e banane), sulla disponibilità ad effettuare transazioni commerciali con paesi che non rispettano nè gli standard ambientali nè i diritti umani. Parallelamente alle azioni di prevenzione a lungo termine, secondo la Commissione, l'UE dovrebbe migliorare la propria capacità di reazione rapida a fronte di situazioni che in un dato paese minacciano di deteriorarsi irreparabilmente. Nel documento viene introdotto inoltre il concetto di stabilità strutturale individuando i fattori di rischio e gli indicatori secondo i quali far scattare questi meccanismi di rapido intervento.

Il richiamo del Parlamento Europeo

Nell'ultima plenaria del 2001 il Parlamento Europeo ha preso in esame le proposte della Commissione e pur apprezzandone i contenuti ha ribadito la necessità di istituire un Corpo Civile Europeo di Pace come indispensabile strumento di intervento dell'Unione nelle aree di crisi in linea con quanto affermato nelle sue precedenti risoluzioni. Nel testo si pone inoltre l'accento sull'esigenza di rafforzare la cooperazione e sviluppare la massima sinergia di azione con le Nazioni Unite, l'OSCE e le loro diverse agenzie.
Nonostante gli sforzi prodotti dall'Europarlamento è evidente che si è prodotto un dialogo fra sordi con il Consiglio e la Commissione Europea nella veste di quelli che non vogliono, non possono o non riescono a dar seguito alle proposte parlamentari.
Eppure basterebbe guardarsi attorno per rendersi conto dell'immenso lavoro svolto dalle ONG nei Balcani e di come queste abbiano spesso supplito alle insufficienze progettuali delle istituzioni internazionali, di come ad un processo di ricostruzione fisico sia spesso mancata la chiarezza e la decisione necessaria per la ricostruzione civile dei paesi coinvolti, di come la riconciliazione fra le parti ed il ristabilimento di condizioni minime di convivenza sia rimasto un progetto sulla carta.

La voce dei pacifisti è ancora debole

E' giunto probabilmente il momento di fare un bilancio ed un'analisi comparata dei processi di pace in corso e dei conflitti che ancora covano sotto la cenere delle macerie con particolare riferimento ai Balcani e al Caucaso. L'esaltazione e l'ostentazione da parte dei governi dei paesi dell'Unione Europea delle ormai troppo frequenti missioni internazionali di pace dei rispettivi eserciti maschera in realtà una carenza di idee di fondo che impedisce una visione equilibrata e globale dei fattori di rischio e degli strumenti più efficaci ed appropriati di intervento. E spesso le missioni umanitarie diventano il cavallo di Troia per giustificare l’utilizzo del militare a scapito del civile.

Terrorismo e crisi irachena

La minaccia del terrorismo e la guerra in Iraq hanno accelerato in modo drammatico anche in Europa il processo di militarizzazione del concetto di sicurezza. Ad un approccio olistico e multifattoriale si è contrapposta nella popolazione la concezione che solo una risposta armata può metterci al sicuro da brutte sorprese. Le ristrettezze di bilancio e la stagnazione economica hanno consentito fino ad oggi di resistere al forte richiamo di aumentare le spese militari ma fino a quando questo sarà possibile?
Dal primo gennaio di quest’anno, intanto, in Bosnia è partita la prima missione di polizia internazionale sotto la bandiera dell’Unione Europea e il 31 marzo è cominciata la prima operazione militare dell’Unione in Macedonia, l’operazione di peace-keeping “Concordia” che ha sostituito “Allied Harmony” della NATO. Con la risoluzione 1484 del 30 maggio 2003, inoltre, il Consiglio di Sicurezza, delle Nazioni Unite ha per la prima volta affidato all’Unione Europea una missione di peace-keeping (chiamata in codice “Artemis”) fuori dai confini del continente autorizzando il dispiegamento fino al primo settembre di quest’anno di una forza multinazionale di emergenza nella regione di Bunia in Congo. Si discute ancora di altre possibili missioni in Transdnistria e di sostituire la SFOR in Bosnia. Entro la fine di quest’anno, poi, dovrebbe diventare operativa la Forza di Reazione Rapida con il compito di condurre le cosiddette missioni di Petersberg (missioni umanitarie e di salvataggio, peace-keeping e peace-enforcing). Sta inoltre per cadere il veto all’utilizzo di fondi europei per la ricerca militare e nel progetto di costituzione europea in corso di discussione alla Convenzione sul Futuro dell’Europa si propone l’istituzione di un’Agenzia per gli Armamenti e la Ricerca Strategica che a mio avviso porterà ad aumentare la pressione dell’industria bellica continentale. Altre iniziative sono in corso, come quella di Belgio, Francia, Germania e Lussemburgo del 29 aprile, ma per adesso non sembrano ottenere la risposta unanime di tutti i 15 paesi membri.
A proposito di Convenzione, si sta giocando in questi giorni il futuro del nostro continente. Il movimento per la pace non può chiamarsi fuori da questo processo. Alcuni paletti chiari vanno fissati in questo difficile percorso con le seguenti proposte da includere nella costituzione europea:
1) l’inserimento di un articolo analogo all’art.11 della nostra costituzione con una dichiarazione di principio per il ripudio della guerra come mezzo per risolvere le controversie internazionali;
2) un’Unione Europea che agisce in un ambito multilaterale a sostegno delle Nazioni Unite e degli altri organismi internazionali;
3) un’Unione Europea promotrice di pace e disarmo globale che si batte contro la proliferazione incontrollata delle armi convenzionali, il commercio e l’uso di armi con carattere indiscriminato ed eccessivo e delle armi di distruzione di massa;
4) la creazione di una Agenzia Europea di Difesa (invece di quella degli armamenti) che sviluppi in modo equilibrato anche gli aspetti civili e la difesa nonviolenta;
5) in questo contesto va rilanciata anche la proposta di istituire un Corpo Civile di Pace Europeo che non si occupi solo di aspetti umanitari come si propone oggi ma che contempli anche e soprattutto il peace-keeping civile.

L’Unione Europea è indiscutibilmente il più grande progetto di pace della storia contemporanea e tale deve rimanere. Non può pensare di copiare o imitare la politica muscolare degli Stati Uniti. E’ senza dubbio necessario integrare e razionalizzare le spese militari dei paesi membri per evitare gli sprechi e le inefficienze attuali ma occorre rafforzare innanzitutto la dimensione civile della gestione delle crisi evitando di prendere parte ad una corsa al riarmo ormai fine a se stessa che nemmeno la guerra al terrorismo è in grado di giustificare. Se oggi il peace-keeping europeo è molto gettonato a livello internazionale è perchè ai mezzi militari l’UE è in grado di affiancare un expertise di nation-building e aiuti umanitari, di ricostruzione e riabilitazione che altri soggetti non hanno. E poi una politica di difesa comune è diretta conseguenza di una politica estera e di sicurezza comune. Oggi purtroppo siamo al paradosso in cui si fanno significativi passi in avanti per la prima senza che nulla venga fatto per rendere efficace la seconda. Come è possibile sviluppare mezzi militari europei se la politica estera europea continuerà ad essere vittima di inguaribili paralisi e veti incrociati? Separare la difesa dalle relazioni esterne sarebbe un errore gravissimo funzionale soltanto alle lobby militari e all’industria bellica.
Un’Europa sulla scena mondiale come potenza civile senza essere potenza militare è la vera sfida che ci troviamo ad affrontare, la scommessa che dobbiamo vincere. Spetta però anche ad un movimento pacifista maturo e forte della propria progettualità far sentire la propria voce e far crescere la cultura nonviolenta anche nelle istituzioni.

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