"TuttoLibri", "La Stampa"
08/08/'09

L'inteligenza era la sua virtù
di Gabriella Caramore

«Non potrei desiderare di essere nata in un’epoca migliore di questa, in cui tutto è perduto ...». Di qui si potrebbe partire, da questo profondo aderire alla complessità di un tempo lacerato e feroce, per riprendere in considerazione i pensieri febbrili - ma fecondi anche per il nostro tempo, in cui anche per noi molto sembra perduto - che accompagnarono la vita di Simone Weil. Una vita breve, racchiusa nell’arco di trentaquattro anni appena (1909-1943), ma consumata tutta in un ardente desiderio di conoscere, di «aprire gli occhi sulla realtà, vedere la luce, ascoltare il vero silenzio».

Vissuta nei momenti cruciali per la Francia (e per l’Europa) del Novecento - la prima guerra mondiale, la crisi del primo dopoguerra, le tensioni nel movimento operaio, l’ascesa del nazismo, l’inizio della seconda guerra mondiale -, delusa nel suo sogno di dar vita a un corpo di infermiere volontarie di prima linea, al fronte, in grado di mostrare con evidenza come alla brutalità hitleriana si dovesse contrapporre un esempio di «impressionante vitalità morale», alla fine si lasciò, praticamente, morire di denutrizione. Si spense nel sanatorio di Ashford, nel Kent, la sera del 24 agosto 1943, lasciandoci però, oltre alla traccia tersa e lucente, anche se annodata e talvolta contraddittoria della sua esistenza, folgoranti intuizioni sulle tragedie che hanno attraversato il suo tempo. Una recente raccolta dei suoi scritti, Pagine scelte (Marietti), curata da Giancarlo Gaeta - interprete irrinunciabile della Weil - ci offre molte opportunità per accogliere «l’onda lunga delle tremende questioni irrisolte, e nel frattempo aggravatesi, che da quelle pagine giunge fino a noi». Se dovessi dire, brevemente, che cosa rimane di più vivo - a un secolo dalla nascita - di questa donna dai tratti bellissimi nell’infanzia, irrigiditi poi dalla smisurata fatica che si era imposta nella sua esistenza, direi in primo luogo il suo inesausto esercizio di «intelligenza» delle cose del mondo, nella convinzione che solo da un rinnovamento radicale, assoluto del pensiero potrebbe nascere un nuovo «equilibrio» tra l’uomo e le cose, solo da un inestinguibile desiderio di verità, che proceda però come un «bastone da cieco» a esplorare tentoni un terreno insicuro. In secondo luogo, il suo modo di vivere la dimensione religiosa. Il fuoco intorno a cui ruota la sua accesa passione dell’umano è certamente la fede nella croce di Cristo, punto di luce nelle tenebre che oscurano la terra. Un giorno, in un miserevole paesino del Portogallo, durante una cerimonia in cui le mogli dei pescatori facevano in processione il giro delle barche con i ceri accesi, cantando «melodie di una tristezza straziante», ebbe la rivelazione che «il cristianesimo è per eccellenza la religione degli schiavi», e che lei stessa, anche se in maniera inconsapevole, vi aveva da sempre aderito. Simone si sente, da sempre, «appartenere» a Cristo. Ma il suo «appartenere» non la condurrà né a entrare nella chiesa cattolica; né a considerare la fede cristiana privilegiata rispetto ad altri sistemi di credenze; né a vivere una religione in maniera disincarnata o separata dal resto della comune umanità. È questo, mi sembra, che rende il suo cristianesimo capace di suscitare un’attenzione ancora viva. La «libertà totale», che l’esercizio dell’intelligenza esige, le impedisce di varcare la soglia di una comunità dove si è obbligati a parlare un unico linguaggio, dove la «cattolicità» è esercitata più «di diritto» che non «di fatto», dove «l’attaccamento alla chiesa» rischia di offuscare lo sguardo rivolto verso Dio e le sue creature, dove troppe condanne ed esclusioni sono state e sono praticate nei confronti di altre verità, altre bellezze, altre giustizie. Dalla fede deve conseguire non una evasione dal mondo, e neppure un vivere nella separatezza, ma una adesione totale alla terrestrità delle creature: «Non il soprannaturale, ma questo mondo è l’oggetto della mia ricerca». La strada di una immensa compassione la porta a compiere - e questo è il terzo lascito della sua eredità - analisi lucidissime degli elementi di tragedia che caratterizzano il suo tempo, anticipando il lento giudizio della storia: la stretta analogia tra il totalitarismo nazista e quello sovietico; i drammi che nasceranno non solo dal colonialismo, ma anche dal suo superamento, quando i paesi un tempo sfruttati verranno lasciati soli nella miseria e nel degrado; la crisi economica come generatrice di «un sistema di sentimenti incoerenti» che ruotano intorno a un’idea di potenza, a un sogno che finirà per schiacciare chi vi aderisce. È sempre pensando alla creatura umana come finalità, e non come soggetto di rivendicazione, che arriva a mettere in discussione il concetto di «diritti umani», sostituendolo con quello di «obbligo» verso l’umanità. Certo, ci furono anche, in Simone, sviste e abbagli clamorosi. Il più urtante per noi è quello della totale incomprensione, per non dire il fastidio e il rifiuto, dell’ebraismo. Ne aveva paura, come da bambina aveva paura dell’impero romano di cui leggeva nei libri di storia. Seppe vedervi solo l’elemento

della «forza», senza quello della compassione, della misericordia, del rispetto per l’altro, e dell’amore. Non è il luogo qui per parlarne distesamente. Basta forse dire che, in questo, condivideva, dopo tutto, i pregiudizi cristiani (e cattolici) nei confronti dell’Antico Testamento, oltre alla assoluta insensibilità per l’ebraicità di Gesù di Nazareth, a cui, forse, è da aggiungere l’inconsapevole disprezzo che rivolgeva verso se stessa, ebrea per nascita. Mi piace, però, credere a quello che disse di lei una volta suo fratello, il grande matematico André Weil, e cioè che, se la vita gliene avesse dato il tempo, si sarebbe ricreduta su questo, come si era ricreduta su tante altre cose. Nata, come Antigone, «non per condividere l’odio, mal’amore.

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