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Simone Weil: l'oppressione e il gioco del potere di cui tutti sono vittime, all'intellettuale rimane la lotta per mantenere aperto uno spiraglio di cambiamento
di Vittorio Giacopini

  Nelle Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, questo libro bellissimo scritto nel 1934 a soli 25 anni, Simone Weil aveva provato a trovare uno sbocco politico all’insegnamento filosofico di Alain, radicalizzando le premesse asettiche di un razionalismo ascetico, orgogliosamente aggressivo e intransigente. Da Alain, questa giovane professoressa di liceo aveva ereditato una fiducia illimitata nella libertà creatrice della volontà e una convinzione quasi fanatica nella centralità assoluta del pensiero. Questo straordinario mix teorico tra il cartesianesimo puro del suo maestro e il materialismo rivoluzionario della tradizione marxista, individuava in un rapporto integrale tra il “pensiero e l’azione” l’immagine chiave di quella “libertà completa” che doveva definire un assetto sociale integralmente rinnovato, emancipato dai ricatti del potere, svincolato dalla “presa cieca delle passioni” e perfettamente coerente con se stesso. L’ideale di questa libertà perfetta descrive un mondo permeato dal potere assoluto della ragione, dove “l’uomo avrebbe.. costantemente la propria sorte in mano” in quanto potrebbe realizzare l’opportunità inaudita di “forgiare ad ogni istante le condizioni della propria esistenza mediante un atto del pensiero”:

Quanto alla libertà completa – scriverà – se ne può trovare un modello astratto in un problema di aritmetica o di geometria bene risolto; perché in un problema tutti gli elementi della soluzione sono dati e l’uomo può attendersi aiuto solo dal suo giudizio… Non è possibile concepire nulla di più grande per l’uomo di una sorte che lo metta direttamente alle prese con la necessità nuda, senza che egli possa attendersi nulla se non da se stesso, e tale che la sua vita sia una perpetua creazione di se stesso da parte di se stesso.

Già alla fine dello stesso anno, l’ingresso in fabbrica segna per Simone Weil una brusca presa di distanza da questo “ideale” tanto ambizioso. Apre una fase completamente diversa, suggerisce una nuova, paurosa, consapevolezza. “E’ la realtà, non più l’immaginazione”: l’allieva di Alain, la razionalista, con sua grande sorpresa scopre nella monotona ripetitività del lavoro operaio la regola inespressa di un apprendistato forzato alla docilità,“una docilità rassegnata da bestia da soma”.La “schiavitù” di un ritmo vitale atrofizzato, scandito dal funzionamento cieco delle macchine, dalla casualità arbitraria degli “ordini” di lavoro e dalla circolarità inesorabile di un tempo morto circoscritto nei confini rigidi della giornata lavorativa (“In questo spazio si gira in tondo.. si lavora solo perché si ha bisogno di mangiare. Ma si mangia per poter continuare a lavorare. E di nuovo si lavora per mangiare”), costringono quasi immediatamente alla più grave delle rinunce e determinano una sconfitta individuale inconfessabile. La prima vittima del lavoro operaio è la possibilità stessa del pensiero; il suo risultato più clamoroso un abbrutimento quasi senza parole, la “tentazione” micidiale di un’abulia involontaria, di una paralizzante forma di “semisonnolenza”. La fatica, il dolore e la sofferenza fisica sono solo gli aspetti esteriori di una resa interiore molto più profonda: 

Per me, personalmente, ecco cosa ha voluto dire lavorare in fabbrica: ha voluto dire che tutte le ragioni esterne (una volta avevo creduto trattarsi di ragioni interiori) sulle quali si fondavano, per me, la coscienza della mia dignità e il rispetto di me stessa sono state radicalmente spezzate in due o tre settimane sotto i colpi di una costruzione brutale e quotidiana…Non sono fiera di confessarlo… Mettendosi dinanzi alla macchina, bisogna uccidere la propria anima per 8 ore al giorno, i propri pensieri, i sentimenti, tutto… Questa situazione fa sì che il pensiero si accartocci, si ritragga, come la carne si contrae davanti a un bisturi. Non si può essere coscienti.

Nel breve autoritratto morale che avrebbe consegnato in una lettera all’allieva Albertine Thevenon, Simone Weil aveva esplicitato l’intenzione di “vedere tutta la propria vita davanti a sé e prendere la risoluzione ferma e costante di farne qualcosa, di orientarla da cima a fondo”. “Io sono così”, aveva aggiunto. Per questa “professoressa girovaga fra la classe operaia”, la decisione di farsi operaia e di entrare in fabbrica, rispondeva all’esigenza di rispettare una scelta morale impegnativa ed era forse l’unico modo di realizzare un ambizioso tentativo di conoscenza e autoderminazione personale. Solo l’esperienza – pensava - non l’immaginazione, le avrebbe consentito di comprendere veramente “le condizioni reali che determinano la servitù o la libertà operaia” e di riscoprire a partire da questa scelta esistenziale, le possibilità di una politica reale, effettivamente cosciente e informata, irriducibile alle astrazioni dell’ideologia e a quella “lugubre buffonata” che i “grandi bolscevichi” e i sacerdoti della rivoluzione avevano imbalsamato in un dogma vuoto e ridotto a una petizione di principio. 

Come Orwell, però, anche Simone Weil ha sempre presente il carattere parziale e provvisorio di questa scelta di metodo radicale e nella Condizione operaia la decisione morale di mettersi nei panni degli oppressi viene costantemente rivendicata e al tempo stesso relativizzata, passata al vaglio di un’autocritica ferma e inesorabile. Affiorano esitazioni e perplessità. La vita in fabbrica: non è un destino, per lei, ma il risultato di una decisione volontaria. Non si sente una martire, ha sempre il timore di apparire un’infiltrata, troppo spesso si sente un’intrusa. Per questo non si concede nessuno sconto, tira la corda, lavora come una pazza. Accetta qualsiasi umiliazione e comincia ad ammalarsi. In nessun momento cerca di trincerarsi dietro la distanza di sicurezza di una cultura superiore, di un’altra storia. Nel suo metodo di ricerca, prevalgono il pudore e la discrezione. Avrà sempre paura di sembrare invadente, inopportuna. Nella corrispondenza con un “direttore di fabbrica”- Victor Bernard -due anni più tardi, declinerà pacatamente l’invito a visitare le “abitazioni operaie” per evitare di trasformarsi in una sociologa-turista e per non offendere una dignità già messa a dura prova da un modo di vita intollerabile. “Non posso credere – scriverà – che una visita di questo genere non rischi di offendere gente, che quando è offesa, deve tacere e persino sorridere… gli operai sono effettivamente offesi da cose di questo genere”. Ma non solo. Quando è ancora impegnata dietro alle macchine, Simone dichiara esplicitamente che la sua scelta è un tentativo di descrivere una situazione profonda di infelicità, di esplorare i lati oscuri della condizione umana, qualcosa come il grado zero del mondo del lavoro. Il suo metodo – subire le cose in prima persona, viverci dentro – le sembrerà al tempo stesso l’unica opzione possibile e una soluzione precaria, inaffidabile. Poteva descrivere unicamente reazioni intime, raccontare le “proprie impressioni”. Nelcarattere eminentemente personale di questo stile di lavoro troverà un motivo essenziale di autenticità e un limite comunicativo, il rischio di un soggettivismo esasperato:

è difficile essere creduti quando si descrivono solo le proprie impressioni. Eppure non si può descrivere diversamente l’infelicità di una condizione umana. … Quel che rende felice o infelice è l’insieme dei sentimenti connessi alle circostanze di una vita, ma quei sentimenti non sono arbitrari.. possono esser mutati solo dalla radicale trasformazione delle circostanze stesse… Se taluno venuto dal di fuori si sottomette volontariamente all’infelicità, per un tempo limitato ma lungo quanto basti ad esserne penetrato e se racconta le sue esperienze, si potrà facilmente contestare il valore della sua testimonianza. Si dirà che ha provato qualcosa di diverso da quelli che sono là permanentemente.

Sarà proprio il carattere estremo di un’oppressione schiacciante e indiscutibile a salvarla da questo rischio di estraneità. Nonostante la natura volontaria e provvisoria della sua scelta di “testimonianza” e la possibilità sempre aperta di tirarsi indietro, si troverà immediatamente risucchiata in una spirale di abbrutimento inevitabile. Pochi giorni di fabbrica bastano a imprimere una svolta, ad atrofizzare una coscienza. Nel Diario di Fabbrica, Simone appunta le riflessioni forzatee la “bizzarra reazione” di chi si ritrova catapultato in un mondo ristretto, dove i pensieri si paralizzano e la mente tende ad arrestarsi nell’abulia stupefatta di un grande silenzio. Divagazioni durante il viaggio in autobus per tornare al lavoro: questa scoperta di essere diventata quasi una schiava, la percezione assurda di non essere niente, di non “avere diritti”:

Uscendo dal dentista… e salendo nel W, bizzarra reazione. Come, io, la schiava, posso dunque salire in questo autobus, farne uso per i miei dodici soldi come qualsiasi altra persona? Che favore straordinario! Se mi facessero scendere dicendo che certi mezzi di locomozione così comodi non sono fatti per me, che devo andare a piedi, credo che mi parrebbe una cosa naturalissima. La schiavitù mi ha fatto perdere completamente il senso di avere dei diritti. Mi paiono un dono di momenti nei quali non devo sopportare nulla dalla brutalità degli uomini.

La “condizione operaia” le sembrerà sempre un’assurdità, una grottesca disciplina di servitù volontaria, segnata da una complicità misteriosa, inevitabile. La paura di non produrre abbastanza o di sbagliare, l’incubo dell’orologio marcatempo, i “visi contratti dall’angoscia” di chi attraversa la città per recarsi al lavoro, a Billancourt, la monotonia di una “costrizione” senza scampo. Non un istante di libertà, fantasia, improvvisazione: “non far mai nulla che possa essere d’iniziativa. Ogni gesto è semplicemente l’esecuzione di un ordine”. Ordini, autoritarismo, passività, questa docilità indotta: gli operai sono costretti a piegarsi liberamente a un regime di vita che li paralizza e che gli spegne:

Si è un oggetto in preda alla volontà altrui. Siccome non è naturale per un uomo diventare una cosa e siccome non c’è costrizione tangibile, non c’è frusta, non ci sono catene, bisogna piegarsi da soli a questa passività. Come sarebbe bello lasciare l’anima dove si mette il cartellino di presenza e riprenderla all’uscita. Ma non si può. L’anima la si porta con sé in officina. Bisogna farla tacere per tutta la giornata…

Nelle Riflessioni, prendendo le distanze dalla certezze di emancipazione della “dialettica” rivoluzionaria, aveva visto nella “buona volontà illuminata degli uomini che agiscono in quanto individui” l’unico, possibile “principio.. del progresso sociale” e individuato in questa condizione la sola forma per trasformare la “politica” in “qualcosa di analogo a un lavoro, invece di essere, come è stato finora, o un gioco o una branca della magia”. L’esperienza della vita in fabbrica le impone velocemente un’immagine molto diversa, irrimediabilmente distante da questo grande ideale di autodeterminazione. L’oppressione ottiene subito il suo risultato più clamoroso: la “buona volontà illuminata” scade in un mito irrecuperabile. Gli operai, scriverà con una secchezza sconsolante, sono sistematicamente ridotti al rango di “cose non autorizzate a prendere coscienza”. Cartesiana delusa che vede ancora nella realtà funzionale delle macchine un modello di precisione automatica e un successo dell’ingegnosità umana, di questa nostra capacità di creare strumenti elaborati, utensili di sofisticata utilità e ambigua bellezza, la Weil scopre nell’organizzazione del lavoro, nel taylorismo fanatico della nuova industria, il marchio indelebile di un sogno arcaico di sopraffazione. La monotonia, il vuoto, l’umiliazione, l’esasperante altalena tra il caso e la necessità che scandiscono i tempi della vita in fabbrica non sono che l’espressione di una costante sociale che si ripete sempre: l’arroganza del potere, la prevaricazione della forza, lo scandalo di una situazione bloccata in cui “l’uomo è … tormentato dall’uomo”. Quell’inversione paradossale che in termini marxisti viene bloccata nella categoria fredda della reificazione (“le cose fanno la parte degli uomini e gli uomini quella delle cose: questa è la radice del male”), non nasce soltanto dalle storture oggettive di un “modo di produzione” generale, ma affonda le sue radici nell’asimmetria di una società tagliata in due tra chi comanda e chi è comandato, nello scandalo eterno del potere. Padroni, direttori di fabbrica, capisquadra, capireparto, cani di guardia della borghesia e funzionari del capitalismo: sono i soggetti attivi di un’oppressione che si estende subito in uno stile di vita senza vie di fuga, gli inconsapevoli autori di un gioco al massacro. Mentre si ritrova confinata nella “classe di quelli che non contano – in nessuna situazione – agli occhi di nessuno… e che non conteranno mai”, Simone Weil può denunciare senza mezzi termini il tratto più intollerabile di una condizione di oppressione costante, irrimediabile: nell’officina si vive in una subordinazione completa e umiliante, sempre agli ordini dei capi.

L’accento continua a battere sulla vergogna del potere. Gli operai come cose “non autorizzate” a pensare, il tormento “dell’uomo sull’uomo”, questa continua dipendenza dalla “volontà altrui ”: sono i termini più chiari per istruire una requisitoria inesorabile. Quasi sempre, Simone Weil è considerata una specie di martire, una fanatica autolesionista destinata a bruciarsi nell’esaltazione dell’autosoacrificio, in nome di un’immedesimazione integrale con le vittime dell’oppressione e della Storia. Questa visione eroica e apologetica non le rende ragione. Il suo esempio di comunione vissuta con gli oppressi non cancella l’estrema indipendenza di un giudizio che resta vigile, una capacità critica mai assopita. Intellettuali e oppressi: non si tratta soltanto di espiare un senso di colpa. La sua immersione nella condizione operaia diventa uno strumento conoscitivo per modificare, riprendere in forma concreta e sviluppare le premesse di una teoria politica radicale, rigorosa fino alle conseguenze più estreme. Mentre sconfessa almeno in parte gli assunti razionalistici delle Riflessioni, La Condizione operaia ne recupera nel modo più netto il nucleo autentico nella denuncia senza remissioni dello scandalo centrale che definisce l’intera vita sociale e rende troppo spesso insopportabile la nostra esistenza in mezzo agli altri. L’idolatria dell’autorità, l’idiozia della gerarchia, la stessa esistenza del potere. Per tanti versi paragonabile alle ragionate invettive marxiane dei Manoscritti del ’44 o dei Grundrisse, La Condizione operaia rivela subito la sua natura di elaborazione critica della politica (e contro la politica): non è un’inchiesta, un trattato di sociologia applicata o un manuale di economia politica. Le umiliazioni, la monotonia, il sottile, infido processo di atrofizzazione del pensiero che investono i lavoratori sono agli occhi della Weil il precipitato di uno scandalo sociale molto più ampio e paralizzante. La “condizione operaia” rappresenta forse soltanto l’esempio più eclatante di una stortura generale, di un “ordine assurdo” che riguarda tutti:

La “rivolta delle forze produttive” tanto ingenuamente invocata da Trockij come un fattore della storia, è una pura finzione…dall’epoca dell’Iliade fino ai giorni nostri, le esigenze insensate della lotta per il potere tolgono anche la disponibilità a pensare al benessere… Dal momento che la società è divisa in uomini che ordinano e uomini che eseguono, tutta la vita sociale è governata dalla lotta per il potere, e la lotta per la sussistenza interviene solo come un fattore della prima, anche se indispensabile. La concezione marxista, secondo la quale l’esistenza sociale è determinata dai rapporti tra l’uomo e la natura stabiliti dalla produzione, resta certo l’unica base solida per ogni studio storico: solo che questi rapporti devono essere considerati in primo luogo in funzione del problema del potere, mentre i mezzi di sussistenza costituiscono semplicemente un dato di questo problema. Quest’ordine sembra assurdo, ma non fa che riflettere l’assurdità essenziale che è nel cuore stesso della vita sociale.

Senza ironia, nella Condizione operaia Simone Weil verificherà in prima persona la sconcertante verità di un’altra condizione fondamentale di questa “assurdità essenziale” che attraversa l’intera storia del genere umano: l’insensatezza della “lotta per il potere” si manifesta in forma anche più esasperata e più grottesca nella radicale vanità di un conflitto inesauribile attorno a un obbiettivo futile e illusorio. Mentre investe il “cuore stesso della vita sociale” e altera completamente il nostro modo di stare con gli altri, il desiderio di potere si rivela come un’illusione patetica, un’aspirazione inattingibile. Questo processo delirante, che nelle Riflessioni Simone Weil aveva ancora potuto esprimere con una formula astratta e molto hobbesiana (“non c’è mai potere ma solamente corsa al potere… senza termine, senza limite, senza misura…”) diventa nella Condizione operaia una sarcastica fenomenologia dell’arrivismo cieco e della meschinità prepotente di comportamenti vuoti e presuntuosi. I padroni, i capireparto, i capisquadra, una sequela imprevedibile di ordini arbitrari e casuali: come in un dramma di Racine, la gerarchia interna alla fabbrica sirivela una farsa “di corte”, una commedia mascherata da dramma e blandamente spacciata per tragedia. “ Agli eroi di Racine non resta che il potere puro, senza alcuna capacità reale”; i mediocri protagonisti del piccolo, assurdo,minuzioso ordine della vita di fabbrica hanno lo stesso destino irrilevante. Comandare diventa una forma gratuita di autoaffermazione, si rivela velocemente un gioco di prepotenza fine a se stessa e di sciocca arroganza. Capireparto e capisquadra: ex-operai trasformatisi nei più zelanti “cani da guardia” della borghesia: gli incontri della Weil con questi discutibili titolari di un’autorità parziale e abbastanza patetica mettono benissimo inluce la pretestuosità di un sistema gerarchico finalizzato più che all’incremento materiale della produzione a un’ideale di controllo assoluto sulla vita, i gesti e le mosse dei lavoratori. Il potere gira a vuoto, non ha una presa “reale” sulle cose:l’imperativo che dà senso alla funzione, e alla stessa esistenza, di questi volenterosi servi dei padroni non è garantire livelli produttivi più elevati ma umiliare l’orgoglio dei lavoratori, estirpare le ultime radici di una dignità già messa a dura prova da un metodo di lavoro soffocante. A Boris Souvarine, dopo pochi giorni di esperienza in fabbrica alla Alsthom,la Weil racconterà l’invadenza ricattatoria di un caporeparto che minacciava di licenziarla se non raddoppiava la produzione. Il commento della Weil punta direttamente al cuore del problema, senza farsi invischiare dal ricatto di una logica contabile pretestuosa: “Capisci, ci fanno una grazia permettendoci di ammazzarci sul lavoro; e bisogna ringraziare”.

  Dare ordini a caso, tenere il fiato sul collo dei lavoratori, angariarli in modo stupido, non spiegare niente, non rendere mai conto di nulla. Il modello fordista di organizzazione del lavoro, ormai adottato anche nelle più avanzate catene produttive dell’industria francese, tradisce al di là della sua presunta scientificità la stessa origine meschina, il medesimo, vuoto, sogno di potere. La biografia dello stesso Taylor rivela agli occhi della Weil il peccato originale di un autoritarismo fine a se stesso malamente mascherato da un vocabolario scientifico poco convincente. Fumo negli occhi, specchietti per allodole:

Taylor… era un caposquadra del tipo di quelli … che si credono nati per fare i cani da guardia dei padroni. Le sue ricerche non le iniziò né per curiosità né per bisogno di logica. È stata la sua esperienza di caposquadra e di cane da guardia che lo ha orientato in tutti i suoi studi… Taylor non cercava un sistema per rendere più razionale il lavoro, bensì un controllo sugli operai; e se, nel medesimo tempo, ha trovato anche mezzi di semplificazione del lavoro, si è trattato di cose completamente diverse.

   Una farsa di palazzo; una commedia. In officina, le figure del potere sono espressioni di un rituale fin troppo banale e stolide incarnazioni di un sistematico processo di autoinganno. Angeli, troni, cherubini e dominazioni; la gerarchia di fabbrica è una corte angelica decaduta e triste: “Il direttore è come il re di Francia. Delega le parti poco gradevoli della sua autorità ai subordinati e serba per sé le parti della grazia e della benevolenza”; il caposquadra svolge compiti misteriosi, “soprattutto scartoffie mi sembra. Non sorveglia quasi mai il lavoro…”; infine il caporeparto:“al caporeparto non piace che le operaie momentaneamente senza lavoro facciano gruppo per chiacchierare. Certo ha paura che così possa formarsi qualche cattiva tendenza”. Paternalismo, soffocante invadenza dei capi, sciocche parate di autoritarismo: nella fabbrica la Weil intuisce la riproduzione in vitro di un meccanismo più generale di burocratizzazione della vita sociale e del mondo comune, e molte delle sue critiche più forti ribadiscono quella critica di qualsiasi forma di potere che già le avevano fatto meritare i sarcastici rimbrotti del vecchio Trockij che, rimproverandole una serie di “pregiudizi piccolo-borghesi per lo più reazionari”, aveva finito per accusarla di “esaltazione anarchica”.

La centralità del potere come presenza inaggirabile e massima espressione dell’irrealtà organizzata e dell’illusione. Nonostante scarti concettuali e differenze, le ipotesi teoriche delle Cause e l’analisi sul campo della Condizione operaia convergono nella scoperta di questa sorta di legge segreta di qualsiasi forma di vita sociale. Il potere è un sogno bugiardo e al tempo stesso il principale ostacolo alla definizione di un rapporto tra gli uomini decente, emancipato, più giusto e umano. La radicale divisione della società tra “uomini che ordinano e uomini che eseguono” è nello stesso momento una clamorosa manifestazione di autoinganno e la radice di un’oppressione effettiva, intollerabile. Ci sono illusioni che fanno male, condizionano tutto, generano disastri. “Il vizio più grave d’irrealtà – scriverà un giorno Elsa Morante, pensando, credo, proprio alla Weil – sta dalla parte del dominante”. Questo non toglie che il fantasma vuoto di un potere impossibile continui a paralizzare una vita sociale atrofizzata. Ai dominati resta da pagare lo scotto supplementare di un’oppressione vuota cristallizzata nei gesti obbligati di una subordinazione rituale, concretissima per quanto generata da un desiderio impraticabile. Mentre constata l’esaurimento di quella dialettica servo-padrone che aveva fatto da modello implicito alla stessa teoria rivoluzionaria, Simone Weil continua a individuare nel potere la causa specifica di quella opacità che impedisce agli uomini di ritrovarsi su un piano di reciprocità e di instaurare rapporti liberi, uguali e indipendenti. Nell’inganno dei dominatori si riproduce l’iniquità di una separazione radicale e arcaica del genere umano. Le bugie che i capi continuano stancamente a raccontarsi danno vita a un sottoprodotto della realtà, profondamente illusorio ma inflessibile: tutti – i dominati e i dominatori – ritrovano tra le loro azioni e “questo universo” che ci è assegnato in sorte l’intralcio di una catena di “rapporti di oppressione e di servitù” che “ interpongono in modo permanente lo schermo impenetrabile dell’arbitrio umano” all’uguaglianza profonda degli uomini. Il potere in fondo non esiste, ma “soltanto l’uomo può asservire l’uomo”:

Nella misura in cui la sorte di un uomo dipende da altri uomini, la sua vita sfugge non solo alle sue mani, ma anche alla sua intelligenza… bisogna applicarsi a supplicare o minacciare; e l’anima cade negli abissi senza fondo del desiderio e della paura, perché non vi sono limiti alle soddisfazioni e alle sofferenze che un uomo può ricevere dagli altri uomini. Questa dipendenza avvilente non riguarda soltanto gli oppressi, ma oppressi e potenti allo stesso titolo, sebbene in modi differenti. Perché l’uomo potente vive solo dei suoi schiavi, l’esistenza di un mondo inflessibile gli sfugge quasi del tutto; i suoi ordini gli sembrano contenere in se stessi un’efficacia misteriosa… Poiché il comandare è l’unico metodo di azione che concepisce, quando gli accade, com’è inevitabile, di comandare invano, passa di colpo dal sentimento di una potenza assoluta al sentimento di un’impotenza radicale.

Proprio il potere, questa illusione di tutte le illusioni, resta il fattore decisivo che impedisce agli uomini di comunicare e rende impossibile qualsiasi speranza di collaborazione tra le classi, tra chi comanda e chi è comandato. L’apparente impostazione riformistica, e la domanda ingenua - è possibile una produttiva cooperazione tra le classi? - che sono sempre stati rinfacciati a Simone Weil è in realtà un test teorico essenziale per valutare la fondamentale follia che regola i rapporti sociali e occulta in modo sistematico la gravissima dipendenzache sottopone ciascun individuo al “gioco stesso della vita sociale, che da solo determina le gerarchie sociali”, e alla pressione della “collettività”. Capaci di agire e di pensare unicamente in termini di comando, per i capi diventa impossibile“porsi dal punto di vista di chi obbedisce”, mentre per chi concepisce “i rapporti umani solo sul piano dell’uguaglianza” queste vuote pretese di docile subordinazione e di obbedienza bloccano sul nascere la possibilità stessa di “un rapporto umano” con i ridicoli ma insopportabili detentori di un potere fatuo ma invadente. Con sarcasmo, Simone Weil ribalta un vecchio luogo comune psicologico per denunciare la molla irrazionale che determina i comportamenti violenti e autoritari di chi detiene un’autorità fine a se stessa, senza ragione né autorevolezza: l’invidia e una patetica meschinità. Per chi sa solamente comandare:

è penoso vedere degli inferiori acquistare dei diritti, anche limitati, che stabiliscano fra loro e i superiori, sotto certi riguardi, una certa eguaglianza.

    Tutto torna alla fine, e non torna niente. Il filosofo scende nella caverna; l’intellettuale entra in fabbrica, si rimette in gioco. Quest’esperienza conduce alla scoperta di un’atmosfera di “irrealtà” diffusa. Dominati e dominatori; intellettuali e oppressi. Mentre rivendica la serietà di una scelta di vita provvisoria condotta senza la riserva di una distanza in grado di proteggerla – lavorare in fabbrica non è “una specie di giuoco, simile a un esploratore che si reca a vivere in mezzo a lontane popolazione, senza però dimenticare mai che è straniero in mezzo ad esse” -Simone Weil giunge alla conclusione che siamo tutti sulla stessa barca e che l’oppressione investe la vita di ciascuno, “sebbene in modi differenti” e pagando prezzi più o meno salati. Ancora una volta, l’esperienza condiziona la teoria, costringe a ripensare daccapo i suoi presupposti di emancipazione. La doppia paralisi determinata dall’illusione del potere e dall’evidenza imbarazzante di un oppressione che riguarda tutti, rende improvvisamente evanescenti le parole del nostro lessico sociale. “Il nostro universo politico è popolato esclusivamente da miti e da mostri… si possono prendere quasi tutti i termini, tutte le espressioni del nostro vocabolario politico ed aprirlo; al loro interno si ritroverà il vuoto”. Cosa consente in questa palude del pensiero e della volontà di mettere mano alla storia, modificarne il corso, ribaltare rapporti sociali irrigiditi e forme di vita pigre e intollerabili? La constatazione dell’impossibilità di qualsiasi “collaborazione” utile tra le classi, spinge la Weil a rileggere in forma radicale il tema stesso della rivoluzione e a ripensare senza pregiudizi il motivo classico della “lotta di classe”. Quando l’amore, la comprensione o la reciprocità si rivelano inutili e impotenti tanto vale porsi il problema di un possibile uso sensato del conflitto e reimpostare nel modo più spregiudicato il grande dilemma lasciato aperto dall’esplosione rivoluzionaria del ‘17: la possibilità ancora inesplorata di una “guerra senza odio” (come l’avrebbe definita Victor Serge), la praticabilità di un conflitto capace di spostare in avanti la storia e rendere più abitabile una società ristretta, un mondo stravolto e soffocato. Ma sia nelle Cause che nella Condizione operaia, il motivo della rivoluzione si rivela agli occhi della Weil un labirinto quasi senza uscita, e le certezze dei teorici militanti, degli intellettuali impegnati o dei politici suonano ingannevoli o quanto meno ipocrite. 

   Dobbiamo lottare ma non sappiamo come. È l’ultimo circolo vizioso di un pensiero intransigente ma realistico senza alcun cinismo. Nel modo più limpido, Simone Weil rifiuta qualsiasi rassegnazione e il disfattismo. La vita sociale è intollerabile: “finché ci sarà una gerarchia sociale stabile, qualunque ne possa essere la forma, coloro che stanno in basso dovranno lottare per non perdere tutti i diritti degli esseri umani”. Resta il fatto che tutte le espressioni “militari” di questo conflitto inevitabile sono destinate a mostrarsi suicide e controproducenti. La “guerra rivoluzionaria – aveva osservato estremizzando uno spunto di Rosa Luxemburg – è la tomba della rivoluzione”. Le conseguenze sono inevitabili: l’impulso più onesto e autentico che legittima l’accelerazione rivoluzionaria (“ciò che noi chiederemmo alla rivoluzione è l’abolizione dell’oppressione sociale”) rischia di arenarsi in una secca, si irrigidisce nel terrore, genera un nuovo dispotismo e in ultima analisi non porta davvero da nessuna parte. Parole e realtà si confutano a vicenda, l’orizzonte politico si svuota: “la parola rivoluzione è una parola per la quale si uccide, per la quale si muore, per la quale si mandano le masse popolari alla morte ma che non ha alcun contenuto”. La teoria politica di Simone Weil è anche un tentativo di precisazione terminologica, una battaglia quasi illuministica contro miti bugiardi e parole “vuote”. Il suo pacifismo non è una fuga dal mondo o dalla storia ma rappresenta uno sforzo testardo per arginare la militarizzazione sistematica dell’agire pubblico, il nazionalismo bieco e ogni genere di fanatismo ideologico e di idolatria. Negli anni Trenta, la politica diventa una messa nera, un laboratorio di miti omicidi. Come Carlo Levi, Simone Weil si scaglia contro un linguaggio intriso di “incanti” e “religioni spente”. “Si mettano le maiuscole a parole vuote di significato e… gli uomini verseranno fiumi di sangue”. Rivoluzione, Terra, Patria, Onore, Destino, Sangue, Forza. Tutte le espressioni principali di questo vocabolario politico sono destinate e rivelarsi formule magiche oscene e screditate. Resta l’esigenza di una lotta improrogabile, questo bisogno di superare il dominio e l’oppressione. Ma anche l’unica forma di conflitto ancora dotata di un residuo margine di senso rischia di sfumare nel risentimento e il ricatto del Mito tende a infiltrarsi ovunque, senza scampo.Niente è davvero al riparo dalla menzogna e dall’irrazionale. “Entità immaginare”, “assoluti”, “miti e mostri” condizionano persino il conflitto eterno e inevitabile tra chi comanda e chi è comandato e rendono dubbia anche la sacrosanta battaglia contro l’oppressione: 

Quella che ai giorni nostri viene definita, con un termine che richiederebbe precisazioni, la lotta di classe,è, tra tutti i conflitti che contrappongono i gruppi umani, il più fondato, il più serio, si potrebbe forse dire l’unico serio; ma solo nella misura in cui non intervengano anche qui entità immaginarie che impediscano ogni azione orientata… e comportino il pericolo di odi inespiabili, di distruzioni folli, di massacri insensati. Ciò che è legittimo, vitale, essenziale, è la lotta eterna di coloro che obbediscono controcoloro che comandano… Questa lotta è eterna perché coloro che comandano tendono sempre, che lo sappiano o no, a calpestare la dignità umana sotto di loro.

Nella Condizione operaia, quest’ipoteca che viene a gravare anche sull’unica seria forma di conflitto umano viene esplorata direttamente: partendo dal basso, analizzando nelle sue radici una pulsione politica ambivalente, originata da un sentimento di dignità ancora intatto ma pericolosamente sul punto di trasformarsi in una grammatica della vendetta vuota e del risentimento. Gli scioperi del ’36, l’occupazione delle fabbriche, gli ultimi soprassalti di vitalità del movimento operaio prima della guerra: Simone Weil scorge in questo tentativo quasi disperato di riprendere in mano la propria sorte un motivo extra-ecomico e pre-politico di importanza incommensurabile. Nell’agire, il movimento operaio ritrova qualcosa che anni di disciplina e di obbedienza sembravano aver offuscato e isterilito: “una gioia pura, una gioia integra”. Sentirsi a casa in fabbrica, dentro le mura di una prigione quotidiana: nessuna “rivendicazione” specifica è più importante di questa straordinaria affermazione di orgoglio, dignità, consapevolezza:

Osare finalmente rialzarsi. Stare in piedi. Prendere anche noi la parola. Sentirsi uomini, per qualche giorno. Indipendentemente dalle rivendicazioni, questo sciopero è in sé una gioia… Si cessa finalmente d’aver bisogno di lottare ogni minuto per conservare di fronte a se stessi la propria dignità… Gioia di vedere i capi, costretti a divenire cordiali e a tenderci la mano, rinunciare completamente a dare ordini… Gioia di vivere, fra queste macchine mute, al ritmo della vita umana.

   Ma è una parentesi, un istante di gioia perfetta schiacciato tra un passato inflessibile e un futuro carico di insidie. La tensione spontanea all’agire, questa istanza di lotta e di presenza, viene subito riassorbita da un meccanismo di divisione “politica” del lavoro che riproduce anche nella lotta abitudini sedimentate e antichi riflessi condizionati: “gli operai scioperano, ma lasciano ai militanti la cura di studiare i particolari delle rivendicazioni. L’abitudine alla passività contrattata quotidianamente per anni e anni non si perde in pochi giorni”. Anche in termini più generali, Simone Weil tende a vedere oltre l’esplosione di questa “felicità presente” senza limiti, il peso di schemi teorici troppo rigidi e vincoli ideologici condizionanti. Autoinganno, dogmatismo e illusioni “rivoluzionarie” possono richiudere una partita appena aperta. La rivolta come affermazione di orgoglio e dignità; la rivoluzione come ripristino di un codice dell’obbedienza, restaurazione di un sistema di passività sterile e di subordinazione a nuovi padroni. Nel suo egualitarismo radicale, la Weil intuisce il rischio implicito nel meccanismo di delega che tende a conferire ai “militanti” tutta la responsabilità delle scelte di merito essenziali. Anche in fabbrica, può riprodursi il fantasma di quella trasformazione ininfluente che ha bloccato la rivoluzione russa nell’assetto di un “capitalismo di stato” senza sbocchi:

io mi auguro – scriverà nella Condizione – di tutto cuore la trasformazione più radicale possibile dell’attuale regime nel senso di una più grande eguaglianza nel rapporto di forze. Non credo affatto che possa condurre a ciò quel che ai giorni nostri viene chiamato rivoluzione. Tanto prima come dopo una rivoluzione sedicente operaia, gli operai continueranno ad obbedire passivamente, finché la produzione sarà fondata sull’obbedienza passiva. Che il direttore sia agli ordini di un amministratore delegato o agli ordini di un trust di stato sedicente socialista, la sola differenza consisterà in questo: che nel primo caso la fabbrica da una parte, la polizia, l’esercito, le prigioni ecc. dall’altra, saranno in mani diverse, e nel secondo caso, nelle medesime mani. L’ineguaglianza nei rapporti di forza non sarebbe quindi diminuita, bensì accentuata.

   Se il problema centrale è quello del potere (non il regime politico, non l’economia), la stessa rivoluzione diventa un’arma a doppio taglio che rinsalda una logica del dominio e amplifica l’oppressione di sempre, la rende definitivamente insuperabile. Una teoria povera e troppo schematica e limiti soggettivo-antropologici finiscono per determinare una situazione senza via d’uscita. Alle astrazioni della dialettica fa da pendant una mentalità ancora troppo segnata da abitudini, istinti autolesionisti, superficiali forme di rancore. La Weil l’aveva già osservato qualche anno prima, molto limpidamente: “non è il fatto di essere sfruttati che fa dei lavoratori una forza rivoluzionaria, altrimenti la rivoluzione sarebbe stata un fatto compiuto secoli fa”. Dall’interno dell’esperienza di fabbrica questa legge storico-politica trova una conferma di ordine più intimo e profondo. Analizzate nelle loro radici più immediate, le grandi ambizioni della rivoluzione tradiscono una motivazione privata molto più angusta, un bisogno di compensazione e di riscatto sociale che resta sempre invischiato in una dinamica del risentimento. Nei testi più tardi della Condizione operaia, Simone Weil recupera, stravolgendola, la vecchia invettiva marxiana contro “l’oppio del popolo” e riscopre fenomeni inestirpabili di falsa coscienza, autoinganno e menzogna, malafede.Le più mediocri tentazioni di imborghesimento e il sogno rivoluzionario si succedono lungo la stessa sequenza lineare: l’oppressione ha inferto una ferita, generato un vuoto:

Una grande inerzia morale, una grande forza fisica che rendano lo sforzo quasi insensibile permettono di sopportare questo vuoto. Altrimenti ci vogliono dei compensi. Uno di questi è l’ambizione di una condizione sociale diversa per sé e per i propri figli. Un altro sono i piaceri facili e violenti, che hanno la medesima natura: il sogno al posto dell’ambizione… E infine anche la rivoluzione è un compenso dello stesso genere: è l’ambizione trasferita nella collettività, la folle ambizione di un ascesa di tutti i lavoratori fuori dalla condizione di lavoratori… In quanto rivolta contro l’ingiustizia sociale l’idea rivoluzionaria è buona e sana. In quanto rivolta contro l’infelicità essenziale inerente alla condizione propria dei lavoratori è una menzogna. Perché nessuna rivoluzione potrà abolire quell’infelicità… Il nome di oppio del popolo che Marx dava alla religione ha potuto essere conveniente quando la religione tradiva se stessa ma si adatta essenzialmente alla rivoluzione. La speranza della rivoluzione è sempre uno stupefacente.

   Cambiare tutto e non cambiare niente, fantasticare di una rivoluzione che ripristina il vecchio e lo conferma. Il primato dell’economia caratteristico della posizione marxista apre la porta a una trasformazione troppo angusta. La tirannia della produzione, la monomania della società borghese – “la contabilità” - , la semplice abolizione delle ingiustizie in termini di reddito o di proprietà non toccano questo nodo di un’infelicità radicale, più profonda. Lo “sfruttamento” e “l’oppressione” sono “due problemi diversi” e l’azione rivoluzionaria rischia di rivelarsi un palliativo, di peggiorare un quadro stagnante. Dalla “gioia” dell’azione all’agonia di un nulla di fatto: “se domani ci impadroniremo delle fabbriche, non sapremo cosa farcene e saremo costretti ad organizzarle come sono attualmente”. Per Simone Weil, la lotta contro l’oppressione resta un imperativo obbligato e un’aspirazione imprescindibile ma senza garanzie, priva di un retroterra scientifico o di una teoria in grado di indirizzarla e di guidarla. La logica collettiva dell’azione rivoluzionaria è la parodia di una teologia della storia inaccettabile. Mentre soddisfa un “bisogno di avventura… che è ancora una reazione contro l’infelicità”, la palingenesi dell’emancipazione resta un inganno o uno “stupefacente”. Il mondo resta bloccato in un assetto quasi naturale: in fabbrica si continua ad obbedire, la società resta una piramide gerarchica, la subordinazione continua a rappresentare la regola di qualsiasi forma di ordine sociale e di vita in comune. Come si rompe questa catena? Per Simone Weil non ci sono risposte precostituite; il suo illuminismo disincantato si limita a rifiutare speranze ingenue e false promesse. La politica è sempre stata una “branca della magia”, una “lugubre buffonata” o una grande farsa perché si è sempre basata su questo nostro bisogno di consolazione che investe tutto ma poi non può niente. Del resto non c’è niente da fare, in senso stretto. Il mondo non si cambia in “massa” né da soli. La rivoluzione promette - e non può mantenere- un’emancipazione collettiva, valida per tutti nello stesso momento; la rivolta individuale vede più a fondo ma resta egualmente impotente e altrettanto vana. La sua sensibilità libertaria porta la Weil a cogliere nella rivolta una motivazione autentica per l’azione e una reazione onesta e sincera allo scandalo di una storia immobile, dominata da un’assurdità essenziale sedimentata “nel cuore stesso della vita sociale”. “La rivolta – scriverà più tardi – è inseparabile da ogni esistenza fisicamente e moralmente oppressa” mentre “l’orrore degli uomini contro l’oppressione” è l’unica “fonte di energia” capace di incidere sulla storia contro l’idolatria del potere e fuori dalla rassegnazione scontata per il potere, la gerarchia e il dominio. La verità è che la lotta di tutti e per tutti comincia nel chiuso della coscienza, guardano il mondo ma dentro di noi. Proclami rivoluzionari, lezioni imparate a memoria, dogmi lasciano in fondo il tempo che trovano.Solo nel gesto di una negazione nuda e intransigente, puoi ritrovare il senso di quello che sei o dovresti essere: la validità dellatua posizione di intellettuale, l’utilità di un’eredità e di una tradizione. Bisogna cominciare da lì, cambiare vita. Le tappe essenziali coincidono con quei momenti in cui pensiamo in termini di eguaglianza, passiamo ogni cosa al vaglio del giudizio, riusciamo finalmente a dire di “no”: 

Rimbaud si lamentava perché noi “non siamo al mondo” e perché “la vera vita è assente”; in quei momenti di gioia e di pienezza incomparabile, si sa a sprazzi che la vita vera è lì, si prova con tutto il proprio essere che il mondo esiste e che si è al mondo… Un tempo la cultura era considerata da molti come fine a se stessa… Al contrario il suo valore vero consisterebbe nel preparare alla vita reale, nell’armare l’uomo perché possa intrattenere con questo universo che ha avuto in sorte e con i suoi fratelli la cui condizione è identica alla sua, rapporti degni della grandezza umana.

   Ma sono “momenti”, “sprazzi”, illuminazioni. Dire di “no” è fondamentale ma non basta. Il gioco cieco della vita collettiva, questo predominio inflessibile della macchina sociale sulle scelte dei singoli e lo straordinario paradosso che fa dell’uomo “lo zimbello di collettività cieche a cui egli dà vita con i suoi simili tendono a neutralizzare anche la voce della protesta e la rivolta. E in ultima analisi finiamo per tornare da dove siamo partiti: più consapevoli di prima, ma indubbiamente feriti e indeboliti. Intellettuali e oppressi si ritrovano a condividere un destino ma non è detto che possano spezzarne la necessità o invertirne il corso. Si fa quel che si può; accade ciò che accade. Bisogna indignarsi; bisogna reagire. Ma non basta. Il giudizio è tutto e non è niente. Non modifica il “pensiero”, non innesca “un’azione” che trasforma. È inutile recriminare. In questo la Weil si è spinta davvero sino in fondo: in modi diversi, l’oppressione è una cosa che riguarda tutti:

Uno stato di cose così soffocante suscita certo qua e là una reazione individualista; l’arte, e soprattutto la letteratura ne portano le tracce; ma poiché, in virtù delle condizioni oggettive, questa reazione non può incidere né sull’ambito della teoria né su quello dell’azione, essa resta racchiusa nei giochi della vita interiore o in quelli dell’avventura e degli atti gratuiti, cioè non esce dal regno delle ombre; e tutto fa pensare che anche quest’ombra di reazione è destinata a scomparire quasi completamente.

Forse all’intellettuale resta questo compito decisivo ma poco visibile e gratificante: lottare con tutte le sue forze per mantenere aperto uno spiraglio, per proteggere “un’ombra di reazione”. Nonostante tutte le accuse di misticismo che le sono sempre state rivolte, Simone Weil ha continuato a credere fino alla fine nella possibilità di “cambiare vita” e a dare valore alle cose normali. Dio non ci può salvare, la Rivoluzione non apre le porte al Paradiso in Terra; Utopia resta una parola falsa: viviamo in un mondo dove l’uomo non deve attendersi miracoli se non da se stesso.

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