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La libertà al crocevia tra Grazia e realtà  
di Simone Weil

 

Sono ormai numerosi i tentativi anche in Italia di raccontare la vicenda esistenziale e intellettuale di questa donna, nata a Parigi nel 1909, e morta ad Ashford (Inghilterra) il 24 Agosto del 1943. Interpretazioni spesso disparate portano alla luce ora un aspetto ora l’altro, ma dimostrando al tempo stesso che qualcosa sfugge, che l’intimo segreto di Simone ancora una volta rimane inviolato.

Geniale studente di filosofia, cresciuta (a tratti faticosamente) sulle orme del fratello André a sua volta precocissimo matematico, in seguito insegnante, legatasi quasi immediatamente alle sventure della classe operaia francese dall’inizio degli anni trenta, profetica anticipatrice dei mali che covavano dentro la Germania di quegli anni e che all’inizio molti –anche fra le intelligenze più nobili- non seppero interpretare nella loro vera identità…  E ancora, provata duramente dalla malattia (la forte emicrania fedele compagna della sua breve avventura), lascia l’insegnamento; sente che la com-passione per gli oppressi non può fare a meno della condivisione, della partecipazione alle stesse loro sofferenze… E allora eccola lavorare in fabbrica e lasciarsi consumare dalla fatica che piano piano consuma le fibre… Eccola lavorare nei campi per la raccolta dell’uva, e la sera tuffarsi in serrate discussioni con gli amici nel tentativo di venire a capo delle ragioni dell’oppressione sociale, e dove si dia invece la possibilità della libertà. Eccola alla testa di manifestazioni sindacali (ancora poco più che ventenne), e allo stesso tempo lucidamente critica nei confronti dello sclerotizzarsi di movimenti e partiti sorti in difesa di precisi ideali e via via smarritisi nella ricerca della propria identità autoreferenziale. Lei, ebrea, costretta a fuggire dalla Francia all’alba degli anni quaranta (e solo per le insistenti implorazioni dei genitori) verso l’America, ma fermamente convinta a rientrare per riprendere in prima linea la propria responsabile battaglia contro l’avvento del nazi-fascismo. Da qui l’approdo a Londra e la frustrazione di non riuscire ad entrare nei luoghi dove vivo era il dibattito circa le strategie da opporre al nemico. Ma è il corpo che stavolta la tradisce (lei stessa l’aveva troppe volte tradito), e le fa incontrare la morte… Tutto questo in soli trentaquattro anni di vita!

Dentro la cornice di questa storia, come un filo rosso, la ricerca costante, assidua e quasi testarda della Verità. Spinta dal desiderio che non può tradire (lo scrive lei stessa, dopo un periodo di profonda angoscia, ancora adolescente; lo scrive lei stessa che ad un certo punto, quasi misteriosamente, le venne la certezza assoluta che se noi cerchiamo assiduamente la Verità e la sappiamo desiderare con la parte più profonda di noi, Essa non si negherà, ma si lascerà trovare), come il prigioniero della caverna di Platone Simone tentò di risalire il cono d’ombra in cui siamo costretti dalla nostra condizione, per giungere alla visione della Luce.

Questo è in breve il riassunto della sua vita. Dentro questo percorso, estremamente coerente e insieme terribilmente articolato, cerchiamo di portare alla luce alcuni elementi significativi soprattutto in rapporto al tema della fede e dunque dell’esistenza.

 

 

Cercare come attendere…

Abbiamo detto di come dietro ogni passo della vita di Simone stia forse la ricerca incessante della Verità, il desiderio di poterla incontrare. Simone scelse di non ricevere il battesimo anche quando ad un certo punto ebbe una profondissima intuizione che Gesù Cristo rappresentasse la chiave di volta dell’Universo (non stiamo ora a ricostruire le ragioni di questa scelta). E tuttavia ha scritto pagine straordinarie sul profilo della fede, su come vada interpretata la natura della fede.

La fede non è ansimante sforzo di pervenire a Dio, ma l’attesa certa che Lui scenderà fino a noi, se sapremo rivolgere a Lui il nostro sguardo e se lo sapremo desiderare come il Bene. In questo senso non si tratta di compiere uno sforzo (come per colui che a forza di saltare in alto è convinto che prima o poi raggiungerà il cielo), ma di imparare l’arte dello sguardo e dell’attenzione; la capacità di vedere… Simone scrive che spesso noi ci comportiamo come i bambini fra i banchi di scuola: nel momento in cui l’insegnante chiede loro un di più di attenzione, essi contraggono la fronte e lo sguardo…; ma se dopo due minuti si chiederà che cosa è stato detto loro, essi non lo sapranno ripetere, perché la loro attenzione si è volta allo sforzo da compiere, non già all’oggetto che veniva loro presentato. La fede per Simone non può essere uno sforzo muscolare, il nostro darci da fare in mille modi per riuscire in qualche modo a prenderci almeno un angolino di Dio… La fede è l’atto assolutamente delicato in cui acconsentiamo al suo scendere fino a noi. E’ un atto di consenso “come di una sposa che dice sì”. E’ Lui che viene, a noi sta il lasciarci trovare.

E questo è ancora più difficile, nonostante l’apparenza… Perché significa imparare l’arte di una certa passività, l’arte del riconoscere all’Altro il primato nell’iniziativa; significa in qualche modo riconoscere che è Lui ad essere Dio, e non io, e questo è la fede. Riconoscere che noi non siamo tutto, che il principio è Altro da noi. In uno dei suoi pensieri più penetranti (come lo sono molti, terribilmente veri nel mettere a nudo i nostri meccanismi) ella scrive che il difficile per noi non è morire (per una nobile causa anzi questo diventa un atto del tutto eroico), il difficile è nel lasciarci uccidere. Ora, al di là della crudezza dell’immagine, ciò che rimane è questa provocazione necessaria a pensare la fede come consegna, come riconoscimento, come affare che non può essere solo mio (una forma ulteriore, per quanto sottile e ben camuffata, dell’autorealizzazione). Intuizione che la salvezza sta nell’in-contro reale, radicale, quotidiano, che è insieme la fatica di uscire fuori di sé e la grazia di sapersi raggiunti dalla bellezza delle cose che si fanno incontro per chi volge loro lo sguardo…

 

Soprannaturale è l’atto di riconoscere che l’altro esiste come me

Il tema della fede come attesa ci ha già condotto sul margine in cui la riflessione circa la nostra identità passa necessariamente altro-ve, precisamente nel riconoscimento della nostra non assolutezza, della nostra gravità e soprattutto di una differenza profonda che attraversa e struttura la realtà, quella fra me e l’altro da me. Dentro il solco di questa differenza si dispiega lo sguardo. Il pittore, scrive sempre Simone, non rappresenta mai il luogo in cui egli stesso si trova, bensì precisamente lo spazio circostante a quel punto. Quel punto ci è dato di sapere solo indirettamente, a partire dal riconoscimento degli altri luoghi che nella tela sono raffigurati. O ancora, la potenza di una torcia accesa nella notte non la deduciamo fissando la lampadina, ma precisamente dalla quantità di oggetti che essa riesce ad illuminare (anche se quest’ultimo esempio viene citato da Simone in rapporto ad un’altra questione, ovvero il rapporto fra le cose del cielo e quelle carnali, della terra). A dire dell’umiltà, che in questo senso (e forse propriamente) è solo un altro nome della fede.

Lo sguardo è il desiderio che non cerca sé…

La dinamica della fede così prospettata (e noi non possiamo che essere sommari qui nel tentare di rendere la maggiore complessità del pensiero della Weil) appare affascinante, ma è altrettanto vero che essa non prospetta una strada in discesa.

L’atto soprannaturale per eccellenza è riconoscere la differenza che attraversa la realtà, in quanto essa non è mai la produzione dell’io in espansione, ma possiede al contrario tutta la propria dignità e consistenza. Riconoscere questo è essere capaci di inabitare il vuoto che si apre davanti a noi, se appunto avremo riconosciuto che a noi non è dato “colmare tutto”. E’ qui in gioco un’ascesi per niente scontata, e che si contrappone invece al rischio mortale dell’idolatria. Prendiamo a prestito la descrizione di questo importante aspetto che ne fa il filosofo italiano Roberto Esposito nel suo Categorie dell’impolitico ( Il Mulino – Bologna 1999):

Questa è l’alternativa in cui cade, o meglio da cui nasce, il soggetto: mangiare o essere mangiato: a meno di non inserire nel ventaglio delle proprie potenzialità una variabile, come dire, obliqua, che spezzi questa dialettica speculare: lo sguardo, inteso come intenzione (anche estetica:”Si vuol mangiare tutti gli altri oggetti del desiderio. Il bello è ciò che si desidera senza volerlo mangiare.  Desideriamo che esso sia” [ il testo citato è della Weil, ndr] non appetitiva nei confronti dell’altro. Lo sguardo accetta, consolida e protegge, l’esistenza dell’altro. Da qui la sua contrapposizione secca alla modalità appropriativa del mangiare:”Il grande dolore dell’uomo, che comincia dall’infanzia e prosegue fino alla morte, è che guardare e mangiare sono due operazioni differenti”[idem, ndr]. L’uomo deve decidere per una delle due, con la consapevolezza della conseguenza che tale scelta determina riguardo al ‘peso’ della propria soggettività: se il mangiare senza guardare accresce il soggetto, il guardare senza mangiare lo riduce di quel tanto che conserva dell’esistenza dell’altro. Guardare l’altro significa incontrare il suo sguardo, commisurare a quella altrui la propria prospettiva. Destituirla di centralità (il centro è il luogo del soggetto). (…) Perché questo è il rischio di assumere una qualsiasi prospettiva: considerarla l’unica in base alla quale cancellare tutte le altre, intendere l’intero universo in funzione di quella: e dunque annullarlo in quanto tale. (op. cit. 202).

L’idolatria e la fede abitano versanti opposti. La prima preoccupata di salvaguardare l’io espandendolo entro lo spazio della realtà (misconoscendola), la seconda certa che solo il riconoscimento consente di riconoscersi davvero. (A noi non interessa in questa sede discutere se la via proposta da Simone rappresenti all’opposto del soggettivismo moderno una perdita del soggetto in nome di una necessità universale per la quale l’unica virtù possibile è quella dell’obbedienza come rinuncia a sé. Ma certamente può essere interessante passare al vaglio di questi pensieri le modalità a volta davvero troppo umane in cui si traduce la nostra fede, nei gruppi, nei movimenti, nelle comunità ecc… Per quanto sia decisamente vero e anche bello pensare che la parola di Dio e il nostro rapporto con Lui passino per le nostre parole, per i nostri gesti, poiché innanzitutto la Parola stessa ha preso per sé un corpo di carne, questo non toglie l’impressione che le nostre forme di espressione divengano a volte col tempo autoreferenziali, autogiustificantesi; che finiscano col legittimarsi da sole –per non dire di quando si vogliono addirittura come esclusive –cioè escludenti!- La bontà di uno stile andrebbe a volte valutato sulla sua capacità di dire di Altro ).

Un’ultima conseguenza di questo discorso appartiene alla sfera della carità. Diversi sono i pensieri in cui Simone si sofferma su questo tema, e non solo per raccomandare la necessità della carità (sulla quale almeno istintivamente ci ritroviamo tutti), ma per mettere a fuoco uno stile della carità.

In particolare segnaliamo soprattutto due elementi:

•                la carità non è altrimenti rispetto a quella stessa capacità di attenzione di cui dicevamo sopra; in particolare è quell’atto di attenzione capace di riconoscere l’assoluta dignità dell’altro, la sua umanità, il suo primato. Simone cita il samaritano della parabola: nel corpo inerme del malcapitato trovato ai margini della strada, lo sguardo del samaritano coglie invece tutta la densità e lo spessore di un uomo (Simone direbbe: un uomo come me). E’ da lì che viene il gesto della carità, e in questo esso altro non è che un atto di giustizia, ovvero il rendere di nuovo all’altro secondo quanto gli è dovuto, poiché la sua stessa dignità lo richiede.

•                Se il gesto della carità corrisponde secondo giustizia (giustezza) alla dignità dell’altro, allora il motivo della carità non può essere altro che l’altro stesso. Non è perché amiamo Dio che soccorriamo il fratello, almeno non nel senso che quell’uomo ha bisogno di un’assicurazione esterna perché gli sia reso un atto d’amore. Noi dobbiamo soccorrere il fratello poiché egli ha già in sé tutto il valore necessario, e questo va recuperato con un atto d’amore.   Così come - scrive Simone con la consueta lucidità che non lascia mezzi termini- nessuno di noi mangia per Dio, ma perché ha fame, altrettanto noi non dobbiamo dar da mangiare all’altro per Dio o perché apparteniamo a un determinato movimento, ma perché l’altro ha fame. Altrimenti anche la carità rischia di diventare una ideologia…

 

Il crocevia della libertà e l’emozione della Grazia

Per concludere: questi sono alcuni dei fili che percorrono la vita e il pensiero di questa donna del Novecento che nella particolarità della propria prospettiva ha saputo incarnare qualcosa di assoluto (il paragone potrebbe essere fatto con un testo di poesia, con un frammento lirico: la vita di Simone non fu un poema o un romanzo o un libro di metafisica, bensì un pugno di versi abbastanza solitari e difficilmente riducibili).

La sua è forse una testimonianza della difficile arte della libertà, che solo apparentemente trova il proprio inveramento nella dimensione del potere. La libertà invece è sempre apertura, messa in gioco, offerta, sguardo che sonda la profondità dell’universo alla ricerca di un volto altro che scopre infine ultimamente esso stesso, e prima di tutto, in cammino verso di lei.

Riprendendo un motivo assai precedente, Simone comprende la creazione da parte di Dio non già come un produrre, ma come un ritrarsi (decreazione o discrezione). L’atto originario di Dio è ritrarsi per poter far posto alla creazione; è una contrazione volontaria della sua infinità per chiamare all’esistenza l’altro che sorge. E’ un atto d’amore! Fu questo atto, questo stile, questo il sogno che Simone Weil andò inseguendo per trentaquattro anni.     

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