Pagina 30 Il prete bagnante Tutto questo è accaduto a causa di Pauwels. Senza il suo articolo non sarei mai andato a Deligny e nulla sarebbe successo. Volevo andarci per guardare le ragazze e a dire la verità probabilmente sarei passato inosservato: non sono mica il ras io, ma per essere un comprimario, sono scuro di carnagione (è il mio fegato) e ho tutti gli attributi. Nei pressi del bosco il tempo era bello; non mi azzardavo però a fare il bagno, mi ha fatto paura Pauwels, con la storia dell'acqua al cloro, e poi c'erano le ragazze da guardare, ma devo essere capitato male quel giorno: niente altro che racchie. Allora mi sono disteso sulla schiena, ho chiuso gli occhi cercando di abbronzarmi per benino. A un certo punto, nel momento in cui dovevo mettermi sulla pancia per non assomigliare a una tenda da spiaggia, ecco che arriva un tipo che mi ruzzola addosso. Stava leggendo mentre camminava. Leggeva un breviario. Ebbene sì, era un curato. Allora si lavano anche loro? mi domando, ma poi ricordo che soltanto alle donne è vietato, dal Codice del Seminarista, darsi una ripulita. Rotto il ghiaccio, stavo per farlo fuori, poi mi ravvedo. Curato, gli chiedo, mi conceda un'intervista, per la Rue. Sì, figlio mio, dichiara il curato. Non posso rifiutare questo a una pecorella smarrita. Cerco di fargli comprendere che sono un uomo e pertanto più somigliante a un ariete che a una pecora, ma... va a quel paese, niente più erezione. Niente più virilità. Più niente. Bene, penso, è per colpa del curato; ricomincerà una volta che se ne sarà andato. Va bè, fa lo stesso, inizio. Curato, gli domando, lei è marxista? No, figlio mio, risponde il curato. Chi è Marx? Un povero peccatore, curato. Allora preghiamo per lui, bimbo mio. Si mette a pregare. E io, come un cretino, stavo per lasciarmi influenzare e incominciavo a giungere le mani, ma un reggiseno scatta proprio sotto il mio naso e sento che ritorno alla normalità; questo mi rimette in carreggiata. Curato, continuo, lei frequenta i b...? No, figlio mio, dice lui. Che cosa sono? Lei non lo... sa? No, figliolo, dichiara lui, io leggo il breviario. Ma, la carne? Oh! rivela il curato, quella non è così importante. Lei è forse esistenzialista, curato? continuo. Ha vinto il premio Pléiade? Lei è anarco-masochista, socialdemocratico, avvocato, membro dell'Assemblea costituente, israelita, grande proprietario fondiario oppure trafficante di oggetti di culto? No, figlio mio, ribadisce, io prego e leggo il Pellegrino; qualche volta Testimonianza cristiana, anche se è una voce un po' licenziosa. Non mi scoraggio. È laureato in filosofia? È un campione di corsa campestre o di pelota basca? Adora Picasso? Fa conferenze sul sentimento religioso in Rimbaud? È tra quelli che credono, come Kierkegaard, che tutto dipende dal punto di vista da cui si guarda? Ha pubblicato un'edizione critica delle Centoventi giornate di Sodoma? No, figlio mio, dice il curato. Vado a Deligny e vivo nella pace del Signore. Ridipingo la mia chiesetta ogni due anni e confesso i miei parrocchiani. Ma non arriverà mai a niente, specie di pazzo! gli dico (mi stavo inalberando). E allora? Continuerà per tanto tempo a questo modo? Lei conduce una vita ridicola! Nessun legame mondano, nessun violino di Cremona o tromba di Gerico? Nessun vizio nascosto? Niente messe nere? Niente satanismo? No, niente di tutto ciò. Oh! curato, gli ripeto, lei esagera. Glielo giuro davanti a Dio, mi confida il curato. Ma alla fine, curato, se non fa niente di tutto ciò, si rende conto che lei è un curato che non esiste? Ohibò, figlio mio, aggiunge quello. Crede in Dio? Questo non si discute. Neppure questo (cercavo di aiutarlo). Io ci credo, replica il prete. Lei non esiste, curato, lei non esiste. Non è possibile. E vero, figlio mio. Senza dubbio lei ha ragione. Aveva l'aria oppressa. L'ho visto impallidire e la sua pelle è diventata trasparente. Cosa le succede, curato? Non dovevo turbarla! Lei ha ancora tempo per poter scrivere un libro di versi! Troppo tardi, mormora lui. La sua voce mi giungeva ormai da molto lontano. Sia quel che sia, io credo in Dio e questo è tutto. Ma non esiste un curato come lei (anch'io ormai bisbigliavo). È diventato sempre più trasparente e poi è evaporato sul posto. Io meschino, ero imbarazzato. Niente più curato. Ho tenuto il breviario, per ricordo. Ne leggo un po' tutte le sere. All'interno ho trovato il suo indirizzo. Ogni tanto vado da lui, nel piccolo presbiterio dove viveva. Ci ho fatto l'abitudine. La sua perpetua si è consolata, ora mi vuole bene e poi qualche volta confesso qualche ragazza, quelle giovani... Bevo il vino della messa... In fondo non è poi così male fare il curato. Reverendo Boris Vian Membro della S.N.C.G. Pagina 58 L'assassino Era una prigione come tante altre, una piccola baracca di paglia e di fango, dipinta di un color giallo zucca, con un camino senza pudore e un tetto di foglie di asparago. Il fatto accadde da qualche parte in tempi antichi; c'erano tanti ciottoli, conchiglie di ammannite, trilobiti, stalagmiti e salpingiti conseguenti all'epoca glaciale. Nella prigione si sentiva russare in giavanese, a scatti. Entrai. Un uomo giaceva su un tavolaccio, addormentato. Indossava delle mutandine blu e delle ginocchiere di lana. Sulla spalla destra c'era tatuato un monogramma, K.I. Oyoyoyoyo! gli gridai in un orecchio. Voi mi direte che avrei potuto gridargli qualcosa d'altro, ma in ogni caso quello dormiva e quindi non poteva sentire nulla. Comunque questo lo svegliò. Brroùh! fece, per schiarirsi la gola. Chi è quello scemo che ha aperto la porta? Io, dissi. Evidentemente questo non gli diceva un gran che, ma non sperate di saperne di più voi. Dal momento che lei confessa, giudicò l'uomo, direi che lei è colpevole. Ma anche lei lo è, replicai. Se non lo fosse non sarebbe in prigione. È molto difficile lottare contro la mia logica dialettica assolutamente diabolica. In quel momento, stupore totale, una cornacchia rossa e bianca entrò dall'abbaino e fece sette volte il giro della stanza. Uscì quasi subito e io continuo ancora a chiedermi, dieci anni dopo, se la sua apparizione avesse un senso. L'uomo, domato, mi guardò e scosse la testa. Mi chiamo Caino, affermò. So leggere, risposi. È vera la storia dell'occhio? Si figuri! Si tratta di un'invenzione di Yvan d'Audouard. Audouard è all'occhio? domandai. Quello scoppiò a ridere. Ma guarda! esclamò. Questa è bella! Arrossii modestamente. Penso che vorrà chiedermi perché ho eliminato Abele! continuò Caino. Dio mio!... Detto fra noi, la versione data dai giornali mi sembrava un po' equivoca. Sono tutti uguali, aggiunse Caino. Tutti bugiardi e compagnia bella. Uno racconta loro delle cose, non capiscono niente e, per di più, rileggono male quel che hanno scritto perché scrivono come dei maiali. A questo aggiunga l'intermediazione del redattore capo e dei tipografi e vedrà dove si va a finire. Veniamo ai fatti. La verità sulla faccenda. Abele? insinuò Caino. Era uno schifoso. Un che? replicai stupito. [...]
Pagina 68 La motivazione Odon du Mouillet, giudice di pace brevettato, si grattò delicatamente l'orecchio con la punta della sua stilografica a stantuffo, antica barbara abitudine assunta anni prima, quando era solito consumare i suoi pantaloni sui banchi di cours la Reine. Quanti divorzi stamattina? chiese al suo impiegato, Léonce Tiercelin, gran bell'uomo di cinquantaquattro anni. Solo diciannove, rispose Léonce. Bene, bene, bene, bene, bene, bene, ripeté il giudice soddisfatto. Avrebbe avuto a disposizione più tempo del solito per ultimare, limare, rifinire e far risplendere le frasi avvolgenti e persuasive che avrebbe usato per riportare sulla retta via coniugale le pecorelle smarrite che si presentavano a lui, per un'eventuale conciliazione. Tenendosi la fronte fra le mani, concentrato, rifletteva, mentre Léonce Tiercelin allestiva un po' la scenografia che sarebbe servita a impressionare i prossimi venuti. Léonce azionò dei piccoli verricelli idraulici inseriti nelle gambe del tavolo e della poltrona del giudice, sollevando tutto l'insieme di una trentina di centimetri; sistemò dei fiori artificiali in un vaso, sospese al soffitto, al posto del globo, una bilancia romana che simboleggiava la giustizia, e si avvolse in un bel drappo di cotone rosso vivo, a mo' di toga antica. Generalmente le persone si rivelavano sensibili a questo apparato, uscendo di lì o riappacificate o tramortite. Il giudice Odon du Mouillet aveva al suo attivo più riconciliazioni di quante ne avrebbero potuto ottenere cinque suoi colleghi messi insieme. Lui attribuiva il fatto al suo mellifluo eloquio, ma Léonce riteneva che una parte del merito fosse dovuto ai suoi personali preparativi. Quando il giudice ebbe sufficientemente cogitato, si diede una grattata da virtuoso alle natiche e proferì le seguenti parole indirizzate a Léonce: Guardie, fate entrare gli impetranti. Léonce, con passo maestoso, andò ad aprire. Jean Biquet e signora, nata Zizine Poivre, entrarono. Accomodatevi! iniziò Léonce con una voce da garage (cioè ampia, sonora e ben oliata). Jean Biquet si sedette a destra e Zizine Poivre a sinistra. Jean Biquet era biondo, floscio, neutro, pallido e dignitoso. Zizine Poivre bruna, ardente, sinuosa, mostrava tutti i segni di una natura focosa. Odon du Mouillet dapprima considerò con stupore quella coppia stranamente assortita, poi, rammentandosi i termini della richiesta, aggrottò le sopracciglia. Infatti era Zizine Poivre che chiedeva il divorzio e, secondo gli incartamenti, perché suo marito la tradiva. Signore, disse Odon, le confesso che d'acchito sono stupito di constatare che lei possa abbandonare la qui presente signora e interessarsi alla persona che figura nella pratica che mi è stata descritta, da quelli che lavorano per me, come molto ordinaria. Questo non la riguarda, dichiarò Jean Biquet. Quel cialtrone mi ha cornificato con una donnetta così scialba, affermò Zizine, molto commossa. Odon du Mouillet continuò: Signora, le dichiaro apertamente che sono disposto a trovare delle scusanti alla sua richiesta di divorzio. Comunque è possibile che non sia ancora troppo tardi. Uno sforzo di comprensione potrebbe riavvicinarvi l'uno all'altro... Zizine lanciò a Jean uno sguardo speranzoso e si leccò le labbra. Mio Jeannot, mormorò lei con voce fioca. Jean Biquet rabbrividì, e con lui anche il giudice. Signora, dichiarò quest'ultimo, la domanda che le devo rivolgere è di carattere molto personale... Suo marito la tradiva perché lei... uhm... lei si sottraeva al suo amplesso? Ah! Non ci siamo, protestò Jean Biquet... È proprio per questo che... S'interruppe. Continui, la prego, incalzò Odon. Chiedo scusa, ma il vostro caso mi sembra così speciale che non posso esimermi dal considerarlo denso di insegnamenti. Per dirla tutta, giudice mio, intervenne Zizine, preferisco farlo tre volte piuttosto che una sola. Tre volte! Volesse il cielo! sospirò Jean Biquet. Sbalordito, Léonce Tiercellin si soffiò il naso e fece sobbalzare la compagnia. Quindi, se riesco a seguirla, signore, aggiunse Odon du Mouillet, avrebbe tradito sua moglie perché... uhm... pretenderebbe più amore di quel che lei sarebbe in grado di concederle. Esattamente! risposero all'unisono i due coniugi. E lei... uhm... non combina niente con l'altra?... proseguì il giudice, dimenticando ogni forma di discrezione. Non questo, squittì Zizine, con un eloquente gesto di indice e pollice. Confuso, il giudice interrogò Léonce con lo sguardo. Per fare che? dichiarò. Non riesco a comprendere... allora perché la tradisce? È semplice, signor giudice, spiegò Jean Biquet con voce calma e pacata. Il motivo è che se proprio devo divorziare, non posso comunque vivere senza una donna... |
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