Una Storia Per La Pace di Angela Dogliotti Marasso Angela Dogliotti Marasso, rappresentante autorevolissima del Movimento Internazionale della Riconciliazione e del Movimento Nonviolento, svolge attivita' di ricerca e formazione presso il Centro studi "Sereno Regis" di Torino e fa parte della Commissione di educazione alla pace dell'International peace research association; studiosa e testimone, educatrice e formatrice, e' una delle figure piu' nitide della nonviolenza in Italia. Tra le sue opere segnaliamo particolarmente Aggressivita' e violenza, Edizioni Gruppo Abele, Torino; il saggio su Domenico Sereno Regis, in AA. VV., Le periferie della memoria, Anppia - Movimento Nonviolento, Torino - Verona 1999; (con Maria Chiara Troppa), La mia storia, la tua storia, il nostro futuro, Edizioni GruppoAbele, Torino 2003; (a cura di, con Elena Camino) Il conflitto: rischio e opportunità. Riflessioni e percorsi didattici, dal personale al globale, Qualevita, Torre dei Nolfi (AQ) 2004 "La storia degli ebrei danesi e' una storia sui generis, e il comportamento della popolazione e del governo danese non trova riscontro in nessun altro paese d'Europa. Su questa storia si dovrebbero tenere lezioni obbligatorie in tutte le universita' ove vi sia una facolta' di scienze politiche, per dare un'idea della potenza enorme della nonviolenza e della resistenza passiva, anche se l'avversario e' violento e dispone di mezzi infinitamente superiori". E' quanto scrive Hannah Arendt (1) a proposito del caso degli ebrei danesi salvati in massa dallo sterminio nazista grazie alla resistenza civile messa in atto dai danesi per proteggerli. E' il caso piu' straordinario, forse, date le circostanze in cui e' avvenuto, ma comportamenti di resistenza senza armi, di "resistenza civile", come verra' definita in seguito (2), sono stati numerosi, nel corso della lotta antinazista come in altri momenti e contesti storici. Un bel libro di Anna Bravo e Anna Maria Bruzzone, In guerra senza armi. Storie di donne (1940-45) (3), mette in luce e da' valore a quei comportamenti di opposizione non armata al nazifascismo, messi in atto in modo particolare da donne (come l'aiuto dato ai soldati sbandati dopo l'8 settembre 1943, il sostegno agli ebrei perseguitati, le azioni di diffusione della stampa clandestina, gli interventi volti a contenere la violenza e a contrastare l'occupazione), con l'intento di ampliare lo sguardo e superare l'ottica, ancora prevalente, che interpreta la Resistenza come un evento essenzialmente armato e maschile. Anna Maria Bruzzone, insieme a Rachele Farina, nell'ormai classico testo La resistenza taciuta, uscito nel 1976 e recentemente ripubblicato (4), pur non utilizzando il concetto di resistenza civile, di fatto di questo parlano, quando raccontano le esperienze di partigianato delle donne, che su dodici casi analizzati, almeno in dieci non si caratterizza come una resistenza armata. Il concetto di resistenza civile e' relativamente recente ed in Italia e' entrato a pieno titolo nel dibattito storiografico proprio anche grazie a testi come quelli citati, soprattutto in occasione dell'ampio confronto svoltosi in occasione del cinquantennale della Resistenza. * Ma quanto di tutto cio' e' giunto nelle nostre scuole ed ha lasciato traccia nei libri di testo, a quasi un decennio di distanza? Molto poco, purtroppo. Eppure sarebbe un chiaro esempio di come si possa leggere la storia facendone emergere aspetti finora nascosti, che sono significativi per una storia di pace. Scrive infatti Jacques Semelin: "... la nostra memoria e' selettiva. Si perde nel tempo restituendoci del passato solo cio' che rafforza i nostri schemi mentali e le nostre convinzioni. Il problema della difesa si fonda in gran parte sull'esperienza che ci proviene dal passato. Se la nostra memoria collettiva non conserva che i fatti violenti, e' evidente che le soluzioni che troveremo per l'oggi al problema della guerra non potranno che essere soluzioni militari. Al contrario, se recuperiamo dal passato le tracce di un'altra storia, di un'altra difesa, di una resistenza non militare che ha mostrato qua e la' la sua efficacia nel corso dei secoli, allora il moderno discorso sulla difesa non potra' che essere radicalmente trasformato" (5). Tutto cio' appare quanto mai urgente e necessario in questo momento drammatico e di guerra, insicurezze e paure, frutto di una tragica rilegittimazione di comportamenti e culture violente a tutti i livelli. Che cosa potrebbe significare, dunque, rivedere il curricolo di storia in una simile prospettiva? E' certamente un tema troppo complesso e vasto per essere affrontato adeguatamente nello spazio di un articolo come questo, ma provo ad individuare, schematicamente, alcune direzioni di lavoro in quella direzione. * 1. Ampliare lo sguardo: la storia non e' solo storia di guerre. La storia, come sappiamo, risponde alle domande che le vengono poste: se l'ottica storiografica privilegia i fatti politico-militari, l'histoire-bataille, la storia non puo' che apparire come una interminabile serie di eventi bellici, in cui la pace e' concepita unicamente come lo spazio che intercorre tra due guerre. A livello di senso comune la storia e' ancora molto connotata in tal modo. A questo proposito Gandhi scrive: "La storia comunemente conosciuta e' la registrazione delle guerre del mondo... Nella storia troviamo accuratamente registrato come i re hanno agito, come sono divenuti nemici di altri re, come si sono uccisi l'un l'altro; se nel mondo fosse avvenuto soltanto questo l'umanita' avrebbe cessato di esistere da lungo tempo. Se la storia dell'universo fosse iniziata con le guerre, oggi non sarebbe vivo un solo uomo". E ancora: "Il fatto che vi sono ancora tanti uomini vivi nel mondo dimostra che questo non e' fondato sulla forza delle armi ma sulla forza della verita' e dell'amore. Dunque la prova piu' grande e inconfutabile del successo di questa forza deve essere vista nel fatto che malgrado tutte le guerre che si sono avute nel mondo, questo continua ad esistere... La storia in realta' e' una registrazione di ogni interruzione della costante azione della forza dell'amore o dell'anima" (6). Da tempo, pero', l'angustia della visuale che identifica la storia come histoire-bataille e' stata superata dalla comunita' degli storici. La storiografia del Novecento ha proseguito l'opera di ampliamento dello sguardo (basti pensare al ruolo svolto a questo proposito dalla scuola francese delle "Annales", per fare solo l'esempio piu' noto), allargando la prospettiva di analisi alla vita quotidiana nel suo contesto geografico, ecologico, economico, tecnologico, materiale e culturale, fino ad "affrontare lo studio degli esseri umani non solo rispetto al potere politico, alle strutture economiche, all'organizzazione sociale, ma anche rispetto ai comportamenti interpersonali, ai meccanismi psicologici e conoscitivi, agli interessi, alle idee, alle immagini che stanno nella testa degli individui" (7). In questa storia "totale", a piu' dimensioni, in questo intricato complesso di eventi di vario tipo, la vita e la morte si intrecciano, il conflitto puo' assumere i connotati distruttivi della guerra ma anche quelli costruttivi di una nuova conquista sociale, e la violenza fa parte della storia cosi' come le altre modalita' umane di relazione. Utilizzare questo approccio storiografico nell'insegnamento della storia significa gia' far emergere, dunque, aspetti di una storia di pace. * 2. Dotarsi di "occhiali" per vedere cio' che altrimenti non si vedrebbe. Per vedere cio' che e' reso invisibile da approcci storiografici troppo condizionati da una cultura violenta e' necessario costruire nuovi strumenti, nuovi concetti euristici, come e' stato, ad esempio, quello di resistenza civile richiamato sopra. Per affrontare la ricerca specifica sulla storia della pace nel suo complesso, fin dall'inizio del secolo, ma soprattutto dagli anni Sessanta in poi, e' nata la Peace History. Secondo uno degli approcci presenti in questo specifico settore di indagine, la Peace History e' "lo studio delle cause e delle conseguenze storiche dei conflitti internazionali e della ricerca storica di alternative alla risoluzione violenta dei conflitti" (Conferenza di Stadtschlaining, 1986); mentre da altri studiosi e' intesa in modo piu' restrittivo, come "lo studio delle idee, degli individui e delle organizzazioni impegnati nella promozione della pace e nella prevenzione della guerra e dei conflitti internazionali" (Conferenza di Stadtschlaining, 1991). Ancora oggi, tra gli storici della Peace History il dibattito e' aperto. Coloro che aderiscono ad una visione piu' ristretta della ricerca storica sulla pace sostengono che e' gia' molto importante far conoscere il pensiero e l'azione di uno dei piu' significativi movimenti sociali del nostro tempo, il movimento per la pace. Essi affermano, inoltre, che interrogarsi sulle ragioni dei successi e dei fallimenti dei movimenti pacifisti puo' dare utili indicazioni su cio' che promuove o ostacola la pace in un determinato contesto storico. Chi invece e' fautore di un approccio piu' ampio ritiene che, cosi' come la storia delle donne non puo' essere ricondotta unicamente a quella dei movimenti femministi o quella del lavoro alla storia dei movimenti sindacali, cosi' la storia della pace e' ben piu' ampia di quella dell'attivismo pacifista e comporta l'assunzione di una specifica prospettiva nell'indagare la storia nel suo complesso. Essa, in particolare, e' inseparabile dalla storia delle guerre. Spiegare come si giunge ad una guerra significa infatti capire cio' che ha ostacolato la pace e quali interessi e giochi di forze, nel loro insieme, hanno contribuito a produrre un esito piuttosto di un altro. Secondo Sharp, fare storia della pace significa in particolare elaborare nuovi strumenti concettuali per poter leggere la storia secondo un'ottica nonviolenta: "Per le molteplici forme che un conflitto militare puo' assumere esiste da tempo uno strumento concettuale globale che probabilmente ha contribuito a rendere le guerre oggetto di tanto interesse. Questo interesse per la guerra ha prodotto a sua volta studi storici e strategici utilizzati nelle guerre successive. Ma fino ad un'epoca molto recente l'azione nonviolenta non ha avuto una tradizione consapevole altrettanto paragonabile. Una tradizione di questo tipo avrebbe probabilmente orientato l'attenzione su molte di queste lotte misconosciute e ci avrebbe potuto procurare le conoscenze da impiegare in nuovi casi di azione nonviolenta" (8). * 3. Assumere alcuni presupposti metodologici. - Vedere le relazioni, i processi, le dinamiche dietro i "fatti". Nonostante l'assunzione della dimensione temporale sia infatti una operazione specifica del discorso storico, talvolta nell'insegnamento della storia i fatti sono appiattiti al punto tale da perdere il loro spessore di eventi che si producono nel tempo e in quanto tali si intrecciano con altri e si dipanano secondo dinamiche e processi che vanno riconosciuti perche' vi possa essere "comprensione storica" di quanto avvenuto. Cio' e' particolarmente rilevante quando si tratta di comprendere i motivi di una guerra o le dinamiche di un conflitto; - Affrontare l'analisi dei conflitti evidenziando i punti di vista e gli interessi di tutte le parti coinvolte. Si veda, ad esempio, nel caso emblematico del conflitto israelo-palestinese, il prezioso testo "La storia dell'altro" (9), un manuale di storia per le scuole prodotto da due gruppi di insegnanti, palestinesi e israeliani, con una duplice narrazione storica che procede parallelamente, mettendo in evidenza i punti di vista, spesso contrastanti, delle due parti. Cio' aiuta a comprendere un aspetto essenziale nella trasformazione nonviolenta dei conflitti: saper riconoscere e far emergere le "verita'" e gli obiettivi legittimi di ciascuno; - La storia "ufficiale" e' scritta dai vincitori: qual e' il punto di vista dei vinti? Cio' che e' stato fatto dai vincitori sarebbe stato considerato ugualmente "legittimo" se fosse stato compiuto dai vinti? * Con simili operazioni si puo' prendere coscienza di alcune premesse implicite del senso comune storiografico e si puo' fare un utile esercizio di analisi critica che aiuta ad allargare gli orizzonti e a divenire consapevoli dei meccanismi di produzione del discorso storiografico stesso e dei suoi fondamenti culturali. Questo consente di svelare alcuni "miti", come quello che la guerra sia un prodotto necessario ed ineliminabile della storia umana. Per uscire dallo stato di impotenza di fronte agli eventi, usare il potere positivo di cui ciascuno dispone, dare il proprio contributo civile e politico alla vita della collettivita' e' necessario saper trovare nella storia, accanto alla violenza e alla devastazione prodotte da guerre e genocidi, anche gli esempi di un diverso paradigma di pensiero e di azione, capace di trasformare in profondita' le strutture stesse della nostra cultura politica per orientarle alla pace. * Note 1. Hannah Arendt, La banalita' del male, Feltrinelli, Milano 1993, p.178. 2. Si veda a questo proposito il fondamentale testo di Jacques Semelin, Senz'armi di fronte a Hitler, Sonda, Torino 1993. 3. Anna Bravo, Anna Maria Bruzzone, In guerra senza armi. Storie di donne (1940-1945), Laterza, Roma-Bari 1995. 4. Anna Maria Bruzzone, Rachele Farina, La Resistenza taciuta. Dodici vite di partigiane piemontesi, Bollati Boringhieri, Torino 2003. 5. Jacques Semelin, Dossier di "Non-violence politique", n. 2, Montargis 1983, p. 4 , trad. it.: Resistenze civili, le lezioni della storia, La Meridiana, Molfetta 1993. 6. Mohandas K. Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, Einaudi, Torino, nuova edizione 1996, pp. 64-65. 7. Luisa Passerini (a cura di), Storia orale, vita quotidiana e cultura materiale delle classi subalterne, Rosenberg & Sellier, Torino 1978, Introduzione, p. VIII. 8. Gene Sharp, Politica dell'azione nonviolenta, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1985, vol. I, p. 135. 9. Peace Research Institute in the Middle East, La storia dell'"altro", israeliani e palestinesi, una citta', Forli' 2003. |