L'esperienza di "ONE BY ONE"
di Rosalie Gerut, Wilma Busse, Martina Emme, Tim Blunk

[Ringraziamo di cuore Carla Cohn (per contatti: carlacohn@tele2.it) per averci inviato l'introduzione del catalogo "One by One - Mostra di opere di artisti figli di sopravvissuti all'Olocausto e di discendenti del Terzo Reich", mostra tenutasi a Roma presso la Casa delle Letterature nel 2001, a cura di Roberto Mander (che parimenti ringraziamo per la cortesia di averci consentito questa ripubblicazione) della "Rete di Indra", Peacemaker Community-Italia (per richiedere copie del catalogo della mostra scrivere a: La Rete di Indra, viale Gorizia 25/c, 00198 Roma)]


Nel febbraio del 1993, un improbabile gruppo di tredici persone si riuni' per un incontro di quattro giorni nella Foresta Nera, nel sud della Germania. Alcuni venivano dagli Stati Uniti. Tutti pero' avevano attraversato distanze incommensurabili di storia, fatte di lutti, rabbia, volonta' di negare e sensi di colpa. Questo gruppo davvero unico era composto da figli di sopravvissuti all'Olocausto e dai discendenti tedeschi degli aguzzini e degli spettatori del regime nazista. Il nostro viaggio era guidato da anni di conoscenza sul ruolo determinante che l'eredita' dell'Olocausto aveva avuto sulle nostre vite. Nessuno di noi poteva chiaramente prevedere che cosa sarebbe uscito dall'incontro ne' che cosa sarebbe stato, perche' nessuno aveva la minima idea di come avremmo reagito o saremmo cambiati trovandoci in presenza gli uni degli altri. Nel nostro cerchio sedeva una donna tedesca, Helga Mueller, che solo da poco aveva saputo che suo padre, un ufficiale delle SS, aveva preso direttamente parte all'assassinio di migliaia di ebrei nella Russia Bianca. L'ascoltammo
sgomenti mentre raccontava la scoperta che aveva fatto e il ricordo della violenza che da bambina aveva subito da parte di quell'uomo e di come in seguito avesse tentato il suicidio. Per una incredibile coincidenza, nel cerchio c'era anche un uomo venuto dagli Stati Uniti, Alan Berkowitz, che un po' alla volta inizio' a realizzare che quella davanti a lui era la figlia dell'uomo che aveva partecipato direttamente al massacro della famiglia di suo padre. La rivelazione sembrava tremare sospesa nell'aria. I due, separati dal desolato abisso dell'Olocausto, dovevano decidere che cosa fare dei fili della storia che ancora li univano. Sgomento, Alan si trovo' davanti a un profondo dilemma: che cosa fare con la sua rabbia? Come comportarsi con la donna li' di fronte a lui? Ci vollero molte ore prima che il gruppo riuscisse a dare un senso a cio' che stava succedendo al suo interno. Alla fine, Alan disse a voce alta cio' che tutti noi avevamo finito per comprendere: anche Helga era una vittima di suo padre e della storia e anche lei aveva sofferto. Nonostante spinte emotive forti e contrastanti, Alan riconobbe la sincerita' di Helga nel voler affrontare la verita'; ne rispetto' la determinazione nel rompere il tabu' del silenzio della famiglia e del suo paese e il coraggio che aveva mostrato nel portare testimonianza dei crimini di suo padre. Quando poi i due si abbracciarono, il gruppo si commosse fino alle lacrime. Ma cio' che turbo' ancora di piu' il gruppo fu la presenza di un uomo tedesco di quasi settant'anni. Otto Ernst Duscheleit era stato membro della Gioventa' hitleriana e delle Waffen SS. Rosalie Gerut, la figlia ebrea di due sopravvissuti ai campi di concentramento, racconta cosi' la sua prima reazione davanti a Otto: "Sedevo gelata e senza fiato dall'altra parte della stanza, con davanti quell'uomo alto, magro, coi capelli bianchi e la barba che parlava solo tedesco, una lingua che quando viene parlata da persone della sua generazione mi fa sempre rizzare i capelli in testa. Quando disse che aveva fatto parte delle SS, immediatamente lo immaginai vestito con l'uniforme: stivali neri, alti e lucidi, un fucile in mano e pronto ad uccidermi. Non mi avrebbe mai visto come un essere umano con le mie speranze, il mio amori, i miei doni, la mia gentilezza. Per lui sarei stata solo qualcuno che andava sradicato. A fatica riuscivo a restare seduta ne' potevo, pero', muovermi. Quella notte sognai che mentre stavo parlando con un'amica , si avvicinava Otto come in trance, impugnando un coltello. All'improvviso prendeva la mia amica alle spalle e le conficcava il coltello nel cuore. Lei cadeva morta mentre lui passava oltre dicendo che non poteva farmi del male. Mi svegliai
ancora stordita, senza piu' riuscire a riprendere sonno". Quella stessa notte, Anna Smulowitz, un'altra figlia di sopravvissuti, barrico' la porta della sua camera che confinava con quella di Otto: sentiva il bisogno di proteggersi da lui e da tutto cio' che simbolizzava. Il giorno dopo fu Anna a guidare i componenti di entrambe le parti nel porre domande a Otto. I tedeschi, che non avevano mai ascoltato confessioni o verita' dai loro padri, riversarono tutte le loro attese e tensioni su di lui mentre i discendenti dei sopravvissuti volevano sapere che cosa avesse fatto e visto. Otto, sebbene visibilmente scosso, si sforzo' di rispondere a ogni loro domanda. In contrasto con l'aura della sua storia, Otto Duscheleit e' un uomo mite e tranquillo. Di corporatura leggera, e' vegetariano, pacifista attivo e ultimamente anche buddhista. Otto racconto' al gruppo della sua famiglia, di cio' che fece nella Gioventu' hitleriana, dell'antinazismo di sua madre che faceva parte della Chiesa Confessionale di Martin Niemoeller e di Dietrich Bonhoeffer, della disillusione e del suicidio del fratello maggiore che non ce la fece piu' a restare nelle forze armate naziste. Grazie a Otto
apprendemmo dalla sua testimonianza di prima mano numerosi aspetti del regime nazista, di alcuni dei quali non avevamo mai saputo nulla. Otto sostenne di non aver mai preso parte ad alcuna atrocita', ma di sentirsi comunque colpevole per non aver mai avuto il coraggio di opporsi al regime. "Si'", disse, "sono stato un membro delle Waffen SS. Ho cantato le loro canzoni e marciato insieme agli altri, ma senza mai sentire entusiasmo, mai". Attraverso di lui iniziammo a vedere come avesse funzionato la macchina nazista e con quanta facilita' le persone venissero manipolate. Capimmo anche quanto profondamente Otto non volesse piu' rivedere oggi cio' che aveva vissuto sotto il nazismo. A proposito del movimento neonazista in Germania dice: "Ogni persona adulta della mia generazione dovrebbe parlare e fermare questi giovani, gli skinheads, che aggrediscono gli immigrati". Otto sente di dover dire ai giovani cio' che e' realmente successo, e li sfida dicendo loro: "Ma che mondo volete? Un mondo dove si deve solo dire 'Jawohl, Jawhol...' a tutto e dove non si puo' parlare e avere una propria identita'? E' proprio questo che volete?". Ci ha poi raccontato delle battute di scherno con cui a volte si sente apostrofare in Germania da nazisti non pentiti: "Sei il disonore della divisa delle SS", gli gridano contro. Sentiamo tutti rispetto per Otto che consideriamo come uno dei pochissimi della sua generazione ad aver avuto abbastanza coraggio da mostrare la verita' del proprio personale coinvolgimento nella storia insanguinata del suo paese. Sebbene l'incontro, originariamente convocato come un progetto di ricerca, fosse formalmente terminato, sentivamo che il nostro lavoro insieme era solo all'inizio. Avevamo attraversato quattro giorni in cui avevamo ascoltato e raccontato le storie che di solito non vengono dette sugli effetti dell'Olocausto e la cultura nazista; quattro giorni in cui eravamo stati ascoltati nonostante la continua lotta con la traduzione. Quattro giorni di catarsi emotiva, di cambiamento profondo e di autorivelazione. E nella misura in cui queste storie risuonavano dentro di noi, il peso diventava piu' leggero, il cuore si apriva e nasceva la visione di cio' che potremmo essere l'uno per l'altro. Sia a livello individuale che come gruppo avevamo vissuto uno trasformazione. In seguito alcuni parlarono della sensazione di essersi tolti dalle spalle, dall'anima, il peso del fardello e di averlo deposto nel centro della stanza, per lasciarlo poi la', per sempre. "Molti mesi dopo, quando raccontai le tragedie della mia famiglia e i drammatici effetti che tutto cio' aveva comportato per la mia vita, fu proprio Otto a venirmi incontro, a baciarmi in fronte e a porgermi le sue scuse piu' sincere per cio' che era stato fatto alla mia gente e alla mia famiglia. La sua sincerita' libero' qualcosa dentro di me che per tutta la mia vita era rimasto soffocato" (Rosalie Gerut, co-fondatrice di One by One e facilitatrice dei gruppi di dialogo). Dopo l'incontro, ci recammo in gruppo alla Odenwaldschule, una scuola media privata nella citta' di Happenheim, per parlare della nostra esperienza. La sala era piena oltre ogni limite. Molti studenti avevano una spilla con scritto "coraggio". Quando chiedemmo di spiegarcene il significato, ci risposero che indicava l'impegno che avevano preso di reagire ogni qual volta si fossero trovati davanti a un atto di intolleranza o razzismo. Gli studenti rimasero molto toccati dai racconti dei figli dei sopravvissuti perche' mai prima di allora gli era capitato di ascoltare delle testimonianze dirette sull'Olocausto. Ascoltarono con grande attenzione la storia di Otto e vollero sapere che cosa avrebbero potuto fare per fermare i neonazisti. Il giorno dopo molti studenti si unirono volontariamente a noi nella visita al campo di concentramento di Buchenwald.
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Ci accorgemmo che, nel presentare insieme la nostra esperienza di dialogo in pubblico, si sviluppava una particolare energia gli effetti guaritivi potevano essere recepiti anche oltre il circolo del gruppo. Aprirci al mondo ci permetteva di approfondire il nostro personale processo di trasformazione. Sapevamo che c'era da fare di piu' sia sul piano personale che politico, ma bisognava farlo insieme. Il potere guaritivo di cui avevamo fatto esperienza nasceva dal fatto che il lavoro veniva fatto insieme dalle due "parti", dal confronto e dall'ascolto dell'altro. Fummo in molti a notare che in quello speciale contesto avevamo fatto dei progressi a livello personale e terapeutico che non erano mai stati possibili precedentemente, in gruppi separati od omogenei in cui i tabu' del silenzio e dell'empieta' non potevano venire rotti. Nel luglio del 1993, prendemmo contatti con il Museo dell'Olocausto a Washington e venimmo invitati a fare una presentazione collettiva della nostra esperienza. Il pubblico, tra cui c'erano anche molti sopravvissuti, fu estremamente colpito dalle nostre testimonianze. I sopravvissuti rimasero commossi nell'ascoltare che i figli dei tedeschi che avevano sostenuto il nazismo fossero cosi' profondamente addolorati per cio' che era successo durante l'Olocausto e che ora dicessero la verita' assumendosi la responsabilita' per cio' che il loro paese aveva fatto. Era proprio questo che da piu' di cinquant'anni i sopravvissuti desideravano sentirsi dire. La reazione dello staff del museo fu estremamente positiva e cio' rinforzo' ancora di piu' la nostra convinzione su quanto fosse essenziale parlare in pubblico del nostro lavoro. Uno dei presenti piu' tardi ci scrisse: "Mentre stringevo la mano a una figlia di parte tedesca, esprimendole la mia gratitudine per il suo essere intervenuta, rimasi colpito dall'enorme coraggio che avevano avuto tutti loro nel parlare di un argomento cosi' doloroso davanti a noi. In quel momento compresi, forse per la prima volta, che il coraggio ha proprio un volto umano... Quella donna mi ringrazio' molto e aggiunse: 'Dopo la disperazione viene il coraggio'... Stare con loro e' stata un'esperienza che mi ha trasformato. Rappresentano un'ispirazione, e le loro parole sono servite a superare il mio ben radicato pessimismo sulla triste condizione umana, riaccendendo in me una flebile speranza. Se degli ex nemici possono stare insieme e trascendere cio' che precedentemente credevo non potesse mai essere trasceso, allora forse c'e' ancora un motivo per sperare nel genere umano" (Elyse Gussow, del Museo dell'Olocausto di Washington).
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Alcuni mesi piu' tardi, alcuni membri dagli Stati Uniti e dalla Germania presentarono il lavoro di "One by One" a un gruppo di psicologi comportamentisti in una universita' di Berlino. L'effetto sul pubblico e sui relatori fu quasi lo stesso. Il fatto che tutte e due le parti parlassero insieme sprigionava una innegabile energia. Ci interrogammo su cosa fare per portare la nostra esperienza ad ancora piu' persone e possibilmente in quei paesi dove i conflitti storici e altri genocidio avevano creato fratture che ancora perduravano. Decidemmo che oltre ai discorsi in pubblico era necessario dare ad altri discendenti dell'Olocausto e del regime nazista la possibilita' di partecipare a nuovi gruppi. Immaginammo la creazione di sempre nuovi gruppi di dialogo in molte parti del mondo a cui potessero prendere parte anche individui di origine diversa; chi aveva ricevuto una formazione nei gruppi precedenti sarebbe diventato a sua volta punto di riferimento nell'impegno per la pace e per prevenire nuove guerre e genocidi e nell'educazione contro il razzismo e il pregiudizio.
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Dopo numerosi viaggi in Europa e aver discusso e fatto piani per un anno, nel 1995 ci costituimmo negli Stati Uniti come associazione non a scopo di lucro, con un ramo in Germania. Il nome 'One by One' venne preso dal libro di Judith Miller sull'Olocausto. "L'astrazione e' il piu' fiero nemico del ricordo. Uccide perche' incoraggia la distanza e spesso anche l'indifferenza. Dobbiamo ricordare a noi stessi che l'Olocausto non e' stato sei milioni di persone. E' stato uno, piu' uno, piu' uno. Solo comprendendo che i popoli civilizzati devono difendere uno, poi uno, uno alla volta ciascun individuo... si potra' allora dare all'Olocausto, a cio' che e' incomprensibile, un senso" (Judith Miller, One, by One, by One: Facing the Holocaust). Quelli di noi nel gruppo dei fondatori che erano psicoterapeuti e psicologi riuscirono a formalizzare gli elementi essenziali dei nostri incontri. Prima di compiere il passo successivo e di avviare nuovi gruppi, decidemmo di analizzare la nostra esperienza valutando cio' che aveva funzionato e cio' che andava invece rivisto in modo di giungere a definire una struttura e un formato per il gruppo. Il gruppo di dialogo di "One by One" fu concepito e organizzato per la prima volta nel 1996.
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Il gruppo di dialogo
Nel nostro lavoro siamo stati guidati dalla compassione e dalla visione profonda del dottor Viktor Frankl, sopravvissuto al campo di concentramento di Dachau. "Non dobbiamo mai dimenticare che si puo' trovare un significato nella vita anche davanti a una situazione senza piu' speranza, quando il nostro destino non puo' essere cambiato. Quello che conta e' portare testimonianza alla potenzialita' umana al suo meglio che consiste nel trasformare una tragedia personale in un trionfo, nel cambiare la propria situazione difficile in una conquista umana. Quando non siamo piu' in grado di cambiare una situazione... siamo sfidati a cambiare noi stessi" (Viktor Frankl). Molti di coloro che hanno vissuto da vicino la guerra e il genocidio soffrono la sindrome da stress post-traumatico che colpisce quasi ogni aspetto delle loro vite. Coloro che portano con se' il dolore del trauma non ancora risolto facilmente trasmettono le proprie ansie, paure, avversioni e pregiudizi alla generazione successiva. Il nostro scopo in parte era quello di aiutarci a vicenda per liberarci dagli effetti devastanti del trauma e di interromperne la trasmissione alla generazione successiva. Il gruppo di dialogo e' stato il nostro strumento primario. Spesso, usando una metafora, descriviamo la nostra esperienza di dialogo come un ponte sospeso che unisce le due sponde di un profondo burrone. I partecipanti del gruppo si incamminano lungo il ponte muovendo dai due lati opposti, e sta a ciascuno decidere quanto voglia spingersi in avanti per incontrare la persona che sta venendogli incontro. Sono loro a scegliere quale debba essere la distanza tra loro; se lo vorranno, si potranno incontrare a meta' del ponte. Per i discendenti dei sopravvissuti il baratro sottostante e' riempito dai loro parenti assassinati, feriti, torturati o perseguitati e dal ricordo dei loro avi. Mentre ascoltano i racconti dell'altra parte, puo' succedere che sentano dentro di se' un monito: "Non ti fidare dei tedeschi. Tu sei il custode della nostra memoria. La verita' e la giustizia devono essere onorati". Per i discendenti degli aguzzini, il baratro e', invece, colmo di un senso di vergogna come nazione e come individui, di senso di colpa e di volonta' di negare. Puo' succedere anche a loro di sentirsi ripetere un monito: "Non essere sleale. Resta con noi nel silenzio. Tu non capisci che cosa e' stato". I discendenti dei sopravvissuti a ogni passo lottano con sentimenti di
profondo lutto, di rabbia e paura. I discendenti dell'altra parte combattono con la paura della vendetta e con la vergogna di essere tedeschi; sono lacerati tra l'amore e l'odio verso coloro da cui sono nati. I moniti e le emozioni suscitate devono essere riconosciuti, capiti e accettati se i partecipanti al gruppo vorranno incontrarsi sul ponte. Uno degli architetti filosofici del nostro ponte e' Primo Levi, sopravvissuto ad Auschwitz. Il suo lavoro ci suggerisce la possibilita' di unire due apparenti opposizioni: il desiderio di giustizia e la contemporanea offerta di dialogo con l'altra parte. Nel suo ultimo libro, I sommersi e i salvati, riassume che cosa abbia significato per lui la pubblicazione in Germania del suo testamento: "Il libro lo avevo scritto... per chi non sapeva, per chi non voleva sapere... ma I suoi destinatari veri, quelli contro cui il libro si puntava come un'arma, erano loro, I tedeschi... Era venuta l'ora di fare i conti, di abbassare le carte sul tavolo. Soprattutto l'ora del colloquio. La vendetta non mi interessava... A me spettava capire, capirli". Comprendere spesso e' considerato uguale a giustificare. Primo Levi ha mostrato che comprendere il nemico non significa giustificarne gli atti. E "comprendere" nella sua opera non significa mai studiare un "oggetto", in questo caso l'ex nemico. Egli richiese, o perfino pretese, in particolare dai tedeschi, una risposta. Riusci' a mettere insieme cio' che di solito non si ritiene possa coesistere: giustizia, testimonianza e allo stesso tempo l'offerta di dialogo con "l'altra parte". Secondo noi si tratta di una lezione che va appresa. Levi ha offerto un modello di dialogo attraverso l'abisso dell'Olocausto; ci ha offerto un modo per interrompere il ciclo generazionale di vittima e aguzzino. Allo stesso modo, il dialogo non va confuso con il perdono, la ricerca di armonia o la costruzione di consenso. Non vi e' mai la minima intenzione di paragonare la sofferenza della parte dei sopravvissuti con quella dell'altra parte. Ascoltare l'altra parte non vuole dire coprire od offuscare la differenza che c'e' tra i due gruppi o eliminare cio' che li divide. Fin dall'inizio, i rappresentanti delle due parti sono costantemente consapevoli della distanza che c'e' tra loro: l'attenzione resta sempre focalizzata su questo punto. Per i discendenti degli aguzzini in particolare, ascoltare la storia di qualcuno che viene dalla parte dei sopravvissuti e' un tentativo di riparare i fili della nostra comune umanita' che la Germania nazista cerco' di spezzare una volta per tutte. Piu' spesso comunque la distanza tra i due gruppi inaspettatamente sembra ridursi. Ascoltandoci a vicenda iniziamo a comprendere le complessita' delle
nostre vite individuali invece di vederci come il simbolo di un gruppo o di una nazione. Alcuni figli di nazisti raccontano i traumi che hanno subito da bambini. I figli dei tedeschi che sono stati detenuti o torturati per la loro opposizione al nazismo, proprio come i figli degli ebrei sopravvissuti, sono cresciuti con genitori traumatizzati che nello stesso modo hanno trasmesso loro i propri traumi. A volte il conflitto storico sembra lasciare la stanza e allora, come per miracolo, rimangono solo persone che realmente aspirano ad aiutare coloro che hanno sofferto, cercando di volgere al bene cio' che e' stato tanto profondamente sbagliato e di amare gli altri aiutandoli a diventare integri. La profondita' del dialogo e' un tentativo di trovare la verita'. Le persone parlando possono anche scoprire che l'abisso tra loro non puo' essere superato e che non si incontreranno mai piu'. Pero' comunque si riconosceranno come persone e non come stereotipi. Sono proprio gli stereotipi infatti a mascherare la verita' costituendo una barriera tra la verita' e chi la sta cercando. Ne I sommersi e i salvati, Levi insieme a uno dei suoi interlocutori conclude che L'Olocausto non puo' essere compreso, nel senso che sia possibile trovarne una facile spiegazione. Ben piu' importante e' la necessita' di imparare il piu' possibile su di esso, con tutte le sue contraddizioni, in modo da garantirsi che nulla di simile possa ripetersi un'altra volta.
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Dal 1996 ogni anno abbiamo organizzato un gruppo di dialogo. Di solito chi vi ha preso parte lo aveva saputo incontrando direttamente uno dei fondatori o sentendo parlare di "One by One" da amici o da qualcuno che aveva partecipato a un precedente gruppo. Oppure ascoltando qualcuno di "One by One" parlare in chiese, sinagoghe o in altri incontri pubblici negli Stati Uniti o in Germania. I potenziali partecipanti si incontrano nel proprio paese con i facilitatori che ne valutano la capacita' e stabilita' psicologica e se siano pronti ad affrontare delle interrelazioni cosi' emotivamente cariche. Si valuta anche se il candidato puo' contare su una adeguata rete di sostegno di amici e familiari. Vogliamo essere sicuri che i partecipanti al gruppo di dialogo non vengano allo scopo di perseguitare l'altra parte o per cercare una qualche forma di assoluzione. I facilitatori iniziano a stabilire un rapporto con i partecipanti per creare un maggiore senso di sicurezza prima e durante i gruppi. Ai candidati del futuro gruppo viene anche data l'opportunita' di incontrarsi tra loro prima e di porre delle domande ai facilitatori. Poi, prima che il gruppo inizi, vengono stabiliti degli accordi molto chiari per tutelare la riservatezza su tutto cio' che verra' detto. Fino ad oggi, i gruppi di dialogo si sono sempre svolti in Germania, in un centro per conferenze poco fuori Berlino. I partecipanti, di solito tra i sedici e i venti, trascorrono insieme cinque giorni condividendo tutte le attivita', i pasti e le sistemazioni per dormire. La settimana del gruppo di dialogo si divide in due parti: durante i primi cinque giorni, ogni mattina e pomeriggio, ci sono le sessioni di gruppo che durano tra le due e le tre ore ciascuna, nel week-end invece si partecipa a manifestazioni pubbliche. Il programma puo' comprendere musica, arte, poesia, teatro, in modo che i partecipanti possano raccontare la storia della loro famiglia e l'esperienza con "One by One". Vengono anche organizzate delle visite guidate ai luoghi storici come i quartieri ebraici di Berlino o il palazzo in cui si svolse la Conferenza di Wansee dove venne definita la "soluzione finale". In questi due giorni, i membri tedeschi di "One by One" ospitano nelle loro case i partecipanti al gruppo di dialogo e spesso prendono parte insieme a funzioni religiose in chiese o sinagoghe. Mentre i nuovi gruppi si incontrano per la prima volta, chi vi ha gia' partecipato prosegue il lavoro contribuendo alle iniziative pubbliche nelle scuole oppure parlando in chiese e sinagoghe o incontrando i mezzi di informazione e i nuovi membri. Chiunque abbia partecipato ai gruppi di dialogo, se vuole, puo' partecipare alle presentazioni in pubblico.
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Il gruppo dei fondatori scopri' che era importante che i gruppi di dialogo si tenessero in Germania. Infatti, quando sono stati proposti dei luoghi diversi negli Stati Uniti, la parte ebraica non si e' mostrata interessata: volevano andare a Berlino. Perche' mai fare questo viaggio - spesso anche contro il parere dei nostri genitori che sono dei sopravvissuti - e mettere piede su una terra macchiata di tanto sangue? Le ragioni sono diverse per ciascuno. Quando gli viene posta questa domanda, alcuni non riescono a dire altro che: "Non lo so, ma si tratta proprio di qualcosa che sento di dover fare". Tra noi molti sostengono che poiche' la Germania era la terra dei nostri avi, e' importante rivendicare il nostro diritto ad andarci. Viste le finalita' del gruppo di dialogo, da parte nostra volevamo che i discendenti dell'altra parte si incontrassero con noi proprio in Germania e che qui affrontassero coloro che sarebbero potuti essere i loro vicini di casa, anch'essi nati li'. Vedere degli ebrei che tornano in Germania rappresenta una tappa importante del loro prendere coscienza della rimozione che e' stata operata; e' una prove dell'Olocausto. Coloro tra noi che sono figli degli aguzzini e degli spettatori del nazismo hanno accolto la sfida per comprendere meglio che cosa ci sia stato tolto, attraverso l'orrore del genocidio, a noi, alla nostra umanita' e alla cultura tedesca. Molti tedeschi sono cresciuti senza aver mai incontrato un ebreo in vita loro. Anche se in tutto il paese ci sono monumenti dedicati alle vittime dell'Olocausto, molti di noi non avevano mai parlato con un ebreo della sua storia prima del gruppo di dialogo di "One by One". Sembra che condurre i gruppi di dialogo in Germania - la scena del delitto - abbia un grande valore da un punto di vista terapeutico. Trovarsi li', proprio nel paese dove sono state commesse le atrocita', sedere nella stessa stanza con di fronte le "facce ariane", sentire parlare tedesco, provoca nei figli dei sopravvissuti uno stato emotivo molto intenso. Essi sentono pronunciare le parole che nei racconti dei genitori venivano pronunciate nella Germania nazista, in Polonia, in Ucraina e in Bielorussia e cioe' che gli ebrei dovevano essere uccisi perche' avevano ucciso Gesu', che gli ebrei erano i cosiddetti "Untermenschen" (sotto-uomini). Le storie questa volta vengono direttamente dalla fonte. E percio' la verita' risuona piu' profondamente nella psiche. Puo' capitare di sentire un forte dolore e una grande indignazione perche' la persona seduta dall'altra parte della stanza potrebbe essere il figlio di colui che ha assassinato i membri della nostra famiglia. Niente viene lasciato a livello di mero intelletto e il modo in cui si affrontano questi sentimenti puo' cambiare la vita. E' ormai da tempo che gli specialisti delle sindromi da trauma, come la dott.ssa Judith Herman, hanno indicato il valore che condizioni come queste possono avere nel far affiorare i sentimenti di rabbia e di lutto rimasti a lungo sepolti. "Le atrocita'... rifiutano di essere sepolte... I fantasmi... rifiutano di riposare nelle loro tombe fino a quando le loro storie non verranno raccontate... Dire la verita' su fatti terribili (e' una) tappa essenziale per la guarigione individuale delle vittime, dei carnefici e delle famiglie, e per il ripristino dell'ordine sociale".
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Molti partecipanti di entrambe le parti si sono ritrovati a raccontare
proprie esperienze personali di cui, fino a quel momento, non avevano mai parlato con nessuno. Alcuni figli di sopravvissuti hanno raccontato storie di abuso e abbandono subiti da parte dei genitori che a loro volta erano rimasti segnati dal trauma subito. Anche tra i figli degli aguzzini c'e' stato chi ha raccontato storie di abuso, caratterizzate anch'esse da minacce e dal silenzio circa il passato. Finalmente alcuni sono stati in grado di parlare delle immagini in apparenza inconciliabili che hanno dei loro genitori: il loro essere da una parte affettuosi e la loro partecipazione diretta alle atrocita' - o anche il loro essere rimasti semplici testimoni silenziosi - dall'altro. Ogni gruppo di dialogo e' stato organizzato e sostenuto da un gruppo di facilitatori abilitati e con una formazione in counseling, nelle dinamiche di gruppo e nel lavoro con le sindromi da trauma. I facilitatori - e cosi' anche gli interpreti - hanno tutti gia' partecipato a precedenti gruppi. Il loro compito e' di creare un contesto "centrato sulla persona", nel quale ogni atteggiamento, sentimento od opinione possa venire espressa liberamente, con la sola eccezione degli attacchi personali. Si cerca di assicurare a ogni partecipante un tempo sufficiente per raccontare la sua storia e per l'interazione di gruppo. Dato il peso emotivo di ogni storia, lo spettro di reazioni e le possibilita' di conflitto, i facilitatori devono essere sempre consapevoli delle loro stesse reazioni, mentre contemporaneamente si prendono cura dei bisogni dei partecipanti durante e tra le sessioni di gruppo. I facilitatori cercano principalmente di arrivare a un equilibrio tra il riconoscimento delle ingiustizie sociali e l'accettazione senza giudizio delle reazioni dei partecipanti. C'e' in loro un rispetto implicito per il coraggio e la volonta' di ogni componente del gruppo di porsi davanti all'altro, a se stessi, alle proprie paure e alla verita'. E' chiaro che il ruolo dei facilitatori e' essenziale per la riuscita del gruppo.
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Uno degli obiettivi del primo giorno e' di aiutare i partecipanti a sentirsi protetti; i facilitatori iniziano l'incontro raccontando ciascuno la propria storia e spiegando che loro sono li' solo come guide, allo scopo di mantenere un clima di rispetto, onesta' e compassione. Poi viene chiesto a ciascuno dei presenti di riassumere in dieci minuti le esperienze della propria famiglia durante e dopo la guerra, l'impatto che queste esperienze hanno avuto su di loro e i motivi che li hanno portati a partecipare al gruppo. In seguito ogni sessione si apre con un esercizio per favorire la descrizione da parte dei partecipanti dei loro pensieri ed emozioni e termina con un periodo di riflessione su cio' che e' emerso. Il grosso delle sessioni successive e' dedicato al racconto particolareggiato della storia di ciascuno, e in particolare alla risposta alla domanda: "In che modo il periodo nazista e l'Olocausto hanno segnato la tua vita?". La dott.sa Judith Herman si e' occupata a lungo del significato che ha per I sopravvissuti il poter raccontare la propria storia; lo scopo non e' una semplice catarsi, ma cio' che e' necessario e' la reintegrazione del ricordo: la trasformazione di immagini senza forma e statiche in una narrazione in cui ci sia sentimento, movimento e significato. E la nostra intenzione e' proprio di costruire un ambiente che favorisca tale processo. Nel gruppo ciascuno parla per trenta minuti, a cui ne seguono altri quindici in cui la persona puo' continuare a parlare oppure invitare gli altri a fare domande o commenti. Il compito per il resto del gruppo e' di ascoltare - nel senso migliore e piu' attivo del termine - in modo che ciascuno possa vivere l'esperienza di sentirsi ascoltato. L'enfasi che poniamo sull'importanza del vero ascolto ci viene dal lavoro di Carl Rogers e della scuola di psicologia umanistica, cosi' come dalla filosofia di Martin Buber. In base al "principio dialogico" di Buber, la costruzione di relazioni autentiche e' un aspetto basilare dell'esistenza umana. Attraverso l'incontro concreto con gli altri possiamo comprendere la nostra interdipendenza con lo spirito della vita. "La vita come dialogo" e' la sintesi programmatica della filosofia di Buber. L'ascoltarsi a vicenda puo' essere visto come una profonda esperienza - il ponte invisibile - che ci unisce. L'ascolto implica una dimensione sociale e anche etica: riconoscere l'altro, e fare esperienza di questa alterita' non solo rende possibile il dialogo, ma e' un movimento che va dall'essere centrati su se stessi verso l'interazione sociale in cui gli stereotipi vengono lasciati alle spalle. L'ascolto e' una parte essenziale di cio' a cui Buber si riferisce quando parla della relazione "io-tu". L'ascolto viene visto come una volonta' esistenziale di passare da una modalita' distorta e inadeguata di rapportarsi agli altri visti come mezzi, a una comunicazione autentica con altri se'. Tutti conosciamo la differenza di qualita' che si ha in un incontro quando, in una fase speciale dell'interazione, emerge un momento di profonda intensita'. Di solito diciamo: "Sono toccato" o "Mi sento commosso dalle tue parole", volendo con questo sottolineare che tra noi e' passato qualcosa. Si tratta di una risposta emotiva, un'eco della nostra "inter-umanita'". Quando succede, allora la storia dell'altro diventa anche la nostra. All'improvviso capiamo che avremmo facilmente vissuto cio' che lui, o lei, ha fatto se fossimo nati al suo posto. Le due parti di un vero dialogo intravedono cio' che Buber chiama "il noi essenziale".

I partecipanti: i discendenti degli aguzzini, dei testimoni e degli spettatori Tra i discendenti dei sostenitori del regime nazista le storie di famiglia sono molto varie: si va da chi ha girato la testa dall'altra parte, al soldato ubbidiente "che ha semplicemente eseguito gli ordini", fino a coloro che volontariamente hanno preso parte al genocidio. I partecipanti al gruppo di dialogo certamente non sono rappresentativi dell'intera societa' tedesca. Tra loro molti hanno gia' partecipato alle iniziative pubbliche di "One by One" a Berlino insieme ad altri tedeschi, per discutere delle loro storie prima di incontrare gli esponenti dell'altra parte. Come prima cosa molti hanno rotto con le famiglie nel momento in cui si sono uniti al gruppo di dialogo, mentre altri erano gia' impegnati nei movimenti per la pace. Altri ancora sono artisti, scrittori o psicoterapeuti. Vengono tutti volontariamente ai gruppi di dialogo con la motivazione di voler iniziare a cambiare se stessi e la societa'. Per i tedeschi non ebrei gli ostacoli da superare sono gli stessi. Sebbene nel gruppo ci siano discendenti di ufficiali della Wehrmacht (l'esercito regolare tedesco) e delle SS, molti non sanno i particolari di cio' che i loro genitori o parenti hanno fatto. In Germania vige un tabu' sociale nei confronti della domanda: "Che cosa hai fatto durante la guerra?". Tra loro molti hanno solo una vaga conoscenza dell'Olocausto, astratta e intellettuale. La conoscenza della verita' e' impedita da quello che puo' essere descritto come un duplice muro: chi ha preso parte ai crimini non vuole rivelare la sua partecipazione e i suoi conflitti interiori ai figli, e i figli, dal canto loro, non vogliono sapere. Custodire il silenzio fa si' che si generino sensi di colpa, anche se spesso e' una colpa generalizzata all'intera societa' tedesca, con l'effetto di alleviare la responsabilita' individuale dei componenti della famiglia. Con il passare del tempo questo senso di colpa porta a una soggettivita' paralizzante e autocentrata. Nei gruppi di dialogo poi costituisce un chiaro ostacolo all'ascolto del dolore dei discendenti dei sopravvissuti. Se fino a quel momento i discendenti degli aguzzini e degli spettatori hanno considerato l'Olocausto solo astrattamente, come l'uccisione di innumerevoli innocenti, ora si trovano davanti al dolore e al senso di perdita di chi
siede li', di fronte a loro. Per i partecipanti di parte tedesca questa semplice realta' e' al cuore del processo trasformativo. "Questo e' proprio cio' che la cultura tedesca del dopo guerra non ha insegnato ai discendenti del Terzo Reich: guardare negli occhi degli ebrei, incontrarli come esseri umani. E' piu' facile piangere per la loro morte che incontrare un discendente di un sopravvissuto che ci fa ricordare che l'Olocausto e' ancora vivo nell'animo delle persone. Guardarsi reciprocamente negli occhi puo' costituire l'inizio di un vero dialogo: 'Sono riuscito alla fine a guardarli negli occhi'. Questo vuol dire essere in grado di sopportare di vedersi riflessi negli occhi dell'altro, di accettarne lo sguardo scrutatore. Evitare il contatto e' un tentativo di evitare le loro domande, la loro rabbia, le loro accuse, il loro dolore, perche' tutto cio' potrebbe condurmi a interrogarmi sulla colpa della mia gente, cosa che invece non voglio fare. Stabilire il contatto vuol dire: 'Guardare in faccia il fascismo', piuttosto che venir trascinati in sensi di colpa e di vergogna. Uscire dalla nostra soggettivita' vuol dire iniziare a comprendere cio' che l'Olocausto vuol dire per gli altri. Secondo me, lo scopo principale per i discendenti dei complici del nazismo e' questo: riuscire ad andare oltre i sentimenti di colpa, in direzione di un vero dialogo, attraverso il quale venire incoraggiati a partecipare a iniziative sociali contro il pregiudizio, l'antisemitismo e il razzismo. C'e' speranza in questo percorso dove i discendenti dei nazisti - di coloro che hanno compromesso per sempre il concetto di cultura civilizzata - sono alla ricerca di modi per ristabilire una cultura di dialogo, basata sulla verita' e l'integrita" (Martina Emme, co-fondatrice e facilitatrice dei gruppi di dialogo). Focalizzare il dialogo sulle storie individuali rende possibile ai partecipanti tedeschi separare la colpa collettiva di tutta la nazione dalla colpa della loro famiglia per le azioni commesse da qualche suo membro, di riconoscere la propria colpa di connivenza con il silenzio e, infine, di assumere un maggiore senso di responsabilita' per le proprie azioni e comportamenti presenti. Per molti il dialogo segna un punto di svolta poiche' ora si e' in grado di ottenere dai familiari piu' risposte, di collegare l'Olocausto alle proprie vite e, allo stesso tempo, di "guardare negli occhi i figli dei sopravvissuti".
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I partecipanti: i discendenti dei sopravvissuti
I discendenti dei sopravvissuti sono soprattutto ebrei, anche se ci sono alcuni cristiani e altri che hanno avuto i genitori o i parenti prigionieri nei campi di concentramento perche' oppositori del nazismo o perche' militari che avevano combattuto contro la Germania nazista o anche perche' intellettuali che erano stati perseguitati o deportati costretti al lavoro schiavistico. Anche le esperienze avute dai genitori di parte ebraica durante gli anni della guerra variano enormemente. Molti vennero strappati dalle loro case, mentre altri, invece, furono dei "bambini nascosti", che vennero accolti e protetti da famiglie cristiane per tutta la durata della guerra. Ci fu anche chi combatte' nella resistenza, chi si nascose e chi venne rinchiuso nei ghetti o nei campi di concentramento o di lavoro. Molti meccanismi e comportamenti per riuscire a sopravvivere, verrebbero ora diagnosticati come sindromi da stress post-traumatico. I partecipanti al gruppo raccontano di come i loro familiari sopravvissuti, anche a distanza di molti anni dalla guerra, ancora trasalissero sentendo bussare alla porta o di come credessero di non essere in grado di proteggere in modo adeguato i propri figli da un mondo ritenuto insicuro. Alcuni sopravvissuti si rifiutano di parlare delle loro esperienze, mentre altri parlano incessantemente delle sofferenze patite e della sorte toccata ai loro parenti. Il messaggio che spesso viene trasmesso in modo del tutto inconsapevole ai propri figli e' che i loro momenti di sofferenza nella vita di tutti i giorni non sono nulla se paragonati con quanto passato dai genitori. Molti comprensibilmente soffrono di depressione o di incontrollabili scoppi di ira di cui i figli spesso sono il bersaglio. Alcuni figli hanno imparato a sopprimere i propri bisogni, mentre altri hanno cercato meglio che potevano di trovare dei legami di amore con i genitori che spesso vivono un inconsolabile senso di lutto. E a volte ai figli viene lasciato in eredita' anche il senso di colpa e vergogna per essere sopravvissuti: "Avrei dovuto fare di piu'", "Perche' io sono vivo mentre la mia famiglia e' stata uccisa?". "Siamo cresciuti come orfani mentre i nostri genitori erano ancora vivi. Abbiamo protetto i nostri genitori dal loro dolore mentre non avevamo nessuno che proteggesse noi" (Mary Rothschild, di "One by One").
Con questo non vogliamo dire che tutti gli ambiti familiari dei sopravvissuti siano uguali. Insieme al dolore e al senso di perdita, c'e' anche un forte desiderio di sopravvivere, di avere figli e una vita piena e allegra, nonostante gli orrori della storia. Per i sopravvissuti vivere e' stato un trionfo e la vita andava apprezzata in quei paesi dove la liberta' era garantita. Essi sentirono anche che Israele era nata dai loro lutti e sofferenze e che, forse, ora gli ebrei non avrebbero piu' avuto bisogno di errare, non sarebbero piu' stati vittime di pogrom, di massacri e dell'antisemitismo. Ci piace dichiarare che riconosciamo la loro forza e il loro trionfo e rendiamo qui loro omaggio. Per i discendenti dei sopravvissuti c'e' una conoscenza ereditata e intima dell'Olocausto che e' difficile da spiegare o da comprendere. I bambini sono diventati adulti assumendo su di se' l'eredita' emotiva dei loro genitori sopravvissuti. Alcuni sentono di avere diritti limitati rispetto alle proprie emozioni; i tanti che sono stati il bersaglio della rabbia dei genitori hanno imparato a interiorizzarla. Essi continuano a sentire il desiderio di liberarsi da questi pesi emotivi. Non e' una coincidenza, crediamo, che molti membri di "One by One" di entrambe le parti siano diventati artisiti, musicisti o scrittori. L'arte viene impiegata per esplorare l'eredita' emotiva e neutralizzare quelle vene dell'inconscio che altrimenti avrebbero il pieno controllo sulla loro vita. Sono queste le aree che vengono esplorate nei gruppi di dialogo e che offrono l'occasione per misurarci con emozioni molto forti, facendoci oscillare tra sentimenti di rabbia per le azioni compiute contro i nostri familiari e, a volte, l'empatia per quei bambini che hanno sofferto abusi da parte dei loro stessi genitori nazisti. Alcuni lottano con le voci interne dei loro familiari assassinati che mettono in dubbio la validita' del percorso che stanno percorrendo. Oppure sentono le vere e proprie voci dei sopravvissuti che non comprendono perche' i loro figli stiano facendo una simile cosa. I sopravvissuti sentono che i danni sofferti e la negazione di cio' che e' successo sono cosi' vasti che la sola vendetta consista nel non avere nulla a che fare con qualsiasi cosa che sia connessa con la Germania. La seconda e terza generazione si trovano di fronte al dilemma morale se possano ritenere i figli dei nazisti responsabili per le azioni - o le non azioni - compiute dai loro genitori. Pur con tutta la gamma di reazioni possibili, i figli dei sopravvissuti parlano dell'Olocausto come di un pesante fardello che hanno dovuto portare per tutta la vita; molti descrivono il dialogo come qualcosa che "ha alleggerito il fardello".
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Incontro sul ponte
"Pare che sia giunto il tempo di esplorare lo spazio che separa le vittime dai persecutori... quello spazio... e' costellato di figure... che e' indispensabile conoscere se vogliamo conoscere la specie umana" (Primo Levi, I sommersi e i salvati).
"La sofferenza cessa di essere sofferenza nel momento in cui trova un significato" (Viktor Frankl).
Le interazioni che si svolgono sul "ponte" sono il cuore di cio' che siamo e la storia di "One by One" sta proprio qui, nel racconto di questi incontri. Perche' e' questo il luogo del "noi essenziale" di Martin Buber: dove i figli dei sopravvissuti finalmente vengono ascoltati e dove loro stessi ascoltano le profonde scuse che hanno atteso di sentire per tutta la vita. In questo luogo sul ponte, i discendenti dei persecutori sono in grado di alzare il velo sulla colpa e la vergogna colletiva e sulla soggettivita' che paralizza, assumendosi la loro responsabilita'. La vergogna, attraverso l'azione, inizia a trasformarsi in integrita'. Insieme, le due parti vivono un senso di reciprocita' e possono iniziare a creare un significato della loro sofferenza. Primo Levi ha coniato l'espressione "zona grigia" per descrivere lo spazio che separa le vittime dai loro aguzzini. Di solito si pensa a una linea, a un confine chiaro tra le vittime da una parte e gli aguzzini dall'altra. Primo Levi, invece, esplora proprio lo spazio intermedio. Non gli interessa perpetuare lo schema bianco e nero; secondo lui la verita' sta proprio nella zona grigia. "Non comprendo, non sopporto che si giudichi un uomo non per quello che e' ma per il gruppo a cui gli accade di appartenere" (Primo Levi, "Lettere ai tedeschi", ne I sommersi e i salvati).
Non vuole riprodurre gli atteggiamenti mentali dei suoi nemici, anche se si tratta di comportamenti collettivi. I nostri dialoghi sono proprio delle esplorazioni nella zona grigia di cui parla Primo Levi.
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"Una delle cose che mi spinse a partecipare al gruppo fu la volonta' dei partecipanti di riconoscere apertamente le vittime anche di quello che George Lukas ha chiamato 'l'Olocausto dimenticato'. Almeno altri cinque o sei milioni di persone sono state uccise dal regime nazista e molti erano polacchi non ebrei come mia madre. Nella mia vita ero arrivata a un punto in cui volevo riuscire a elaborare la sua eredita' e cosi' iniziai a cercare delle persone da incontrare che avessero avuto una storia simile alla mia.
Mi venne consigliato di mettermi in contatto con delle organizzazioni ebraiche che organizzavano dei gruppi per i figli dei sopravvissuti. Ma la mia presenza non era gradita in quel tipo di gruppi per timore che avrei potuto suscitare ansieta' negli altri partecipanti che avrebbero potuto vedermi come una rappresentante dell'altra parte, anche se questo non era proprio il mio caso. Scoprii che non c'era nessun altro gruppo a cui avrei potuto partecipare che facesse cio' che adesso sta facendo 'One by One' e ci oe' il dialogo con l'altra parte ma anche con i figli di altri sopravvissuti, di qualsiasi altra fede od origine. Mi era chiaro che venivo proprio dalla zona grigia a cui si era riferito Primo Levi. Molti polacchi infatti sostennero i nazisti contro gli ebrei mentre molti altri furono vittime anch'essi dei nazisti. Solo nel corso degli anni fui capace di integrare questa realta'. Negli interventi che faccio in pubblico, ricordo sempre che se anche gli effetti dell'Olocausto ricadono soprattutto sugli ebrei sopravvissuti e i loro figli, il regime nazista non di meno e' stato devastante anche per molti altri. Mia madre mi ha spesso ricordato che gli ebrei hanno sofferto maggiormente, ma da parte mia c'e' l'esigenza di spingermi oltre e di riconoscere in me stessa che - come scrisse Frankl - 'la sofferenza e' relativa'. Ho scoperto che sminuire l'esperienza di qualcuno, confrontandola o misurandola su una scala delle sofferenze, e' un'operazione limitante e anche dannosa. Se si resta intrappolati nella rete di una presunta gerarchia di sofferenze, aumenta proprio la divisione 'noi-loro' che 'One by One' cerca invece di superare. La discussione su chi sia stato peggio non e' certo il punto essenziale che l'Olocausto deve insegnarci" (Wilma Busse, cofondatrice di "One by One" e facilitatrice nei gruppi di dialogo).
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Nel processo del gruppo di dialogo, il concetto di "zona grigia" coinvolge sia la relazione tra le due parti sia il lavoro nell'individuo stesso. Per il figlio di un persecutore e' difficile riconciliare il fatto di aver avuto un genitore affettuoso e poi venire a sapere i crimini di guerra di cui si e' reso responsabile. Nel processo di guarigione un punto critico sta proprio nel capire che quel genitore era sia buono che cattivo. I figli di questa parte fanno i conti con la domanda: "Chi sono questi individui a cui appartengo?". Per rispondere in modo adeguato e' importante riconoscere il
bene nei propri familiari e al tempo stesso condannare il male che hanno fatto. I figli dei sopravvissuti, pur riconoscendo l'innocenza, il dolore, il coraggio dei loro familiari, imparano anche a riconoscere il tradimento, l'abbandono, la trascuratezza, l'iperattivita' o l'abuso la' dove c'e' stato. E iniziano anche a vedere che ci sono stati dei tedeschi che hanno cercato di aiutare. "Due anni dopo il nostro primo incontro, feci parlare al telefono mia madre con Gertrud Kauderer, una figlia di parte tedesca. Dopo ore di accesa discussione e un successivo incontro, mia madre senti' il bisogno di raccontarmi l'episodio di un tedesco che tento' di salvarle la vita. Affamate e senza sapere che cosa fare, insieme alla sola sorella sopravvissuta, stava per lasciare il ghetto di Lodz su un treno diretto, senza che lei lo sapesse, ad Auschwitz. Un ufficiale tedesco le vide e disse loro di tornare subito a casa. Solo in seguito mia madre capi' che quell'uomo aveva cercato di salvargli la vita. Sfortunatamente un kapo' le rigetto' dentro il treno e il tedesco non pote' fare nulla per
impedirglielo" (Rosalie Gerut).
"Piu' di un ebreo si salvo' grazie all'aiuto di un buon tedesco" (Cantor Gregor Shelkan, sopravvissuto).
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Quando i partecipanti iniziano ad attraversare l'abisso, le interazioni tra i gruppi sembrano evolversi verso una modalita' di maggiore interdipendenza. Il primo passo nei gruppi di dialogo e' sempre stato fatto dai figli dei sopravvissuti: sembra che i partecipanti dell'altra parte prima di poter parlare debbano ascoltare e rispondere alle storie narrate dai figli delle vittime. A sua volta questo sembra incoraggiare i figli dei sopravvissuti ad ascoltare le storie della loro controparte ed e' il loro desiderio di conoscere la verita' che genera rispetto nei figli dei sopravvissuti. L'interesse che provano nell'ascoltare le storie della parte tedesca rende piu' profonda la comunicazione. La dicotomia vittima-aguzzino diventa meno accentuata man mano che gli individui sono capaci di ascoltare con maggiore compassione e comprensione e andare avanti. Le due parti del dialogo afferrano le somiglianze tra loro appena scoperte cosi' come le fondamentali differenze che ci sono nelle loro vite. Ogni storia narrata nel gruppo di dialogo costituisce un passo lungo il ponte che supera l'abisso dell'Olocausto. "Al termine del nostro primo incontro di lavoro a Gloucester, in Massachusetts, i fondatori di 'One by One' decisero di cenare insieme in un ristorante la' vicino. C'erano Otto Duscheleit, Martina Emme, Gertrud Kauderer e Suzanne Scheker. Oltre ai membri di 'One by One', vennero anche alcuni nostri genitori sopravvissuti tra cui mia madre, i genitori di Deborah Shelkan-Remis e la madre di Andy Shapiro. Davanti allo stupore di Martina, mia madre canto' alcune vecchie canzoni tedesche della prima guerra mondiale e io cantai con lei lungo tutto il tragitto fino al ristorante. Quando passammo a prendere i signori Shelkan, tutto il gruppo prosegui' cantando insieme. Mia madre stava per incontrare Gertrud, la donna che con pazienza aveva ascoltato tutta la sua rabbia parlandole al telefono durante gli ultimi due anni. Gertrud la stava aspettando fuori dal ristorante, con in mano un mazzolino di fiori. Mia madre si commosse e resto' stupita di quanto Gertrud assomigliasse a una delle sue migliori amiche scomparsa recentemente. Cantor Shelkan aveva portato con se' la giacca che aveva indossato in campo di concentramento e che nel corso degli anni aveva continuato a indossare ogni qualvolta aveva preso parte a delle cerimonie commemorative in cui cantava le preghiere per le vittime. Voleva mostrarla ai tedeschi, e raccontare un po' della sua storia. Mia madre si mise a sedere accanto a Otto, che da parte sua si comportava da vero gentiluomo. Noi, i 'ragazzini', ci sentivamo come se ci trovassimo a un pranzo assolutamente normale in cui venivamo ignorati dagli 'adulti'. Ci trovavamo nel mezzo di un gruppo di europei che stavano condividendo tra loro tanta parte della stessa cultura e che, per un po', avevano messo da parte l'Olocausto" (Rosalie Gerut).
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Espiazione e trasformazione invece di perdono e riconciliazione "Mi riferisco a un ottimismo tragico, ossia all'ottimismo davanti alla tragedia, capace di guardare alla potenzialita' dell'uomo che al suo meglio permette sempre di: 1) trasformare la sofferenza in una conquista umana e in un completamento. 2) Far nascere dal senso di colpa l'opportunita' di cambiare se stessi verso il meglio. 3) Far nascere dalla transitorieta' della vita un incentivo per agire responsabilmente" (Viktor Frankl). Non dimenticheremo mai che cosa accadde durante l'Olocausto. La Shoah non deve essere relegata dalla storia come una delle tante e aberranti atrocita' che, essendo ormai stata esaminata a sufficienza, possa essere messa da
parte. Cio' non solo sarebbe impossibile, ma anche immorale perche', come abbiamo visto, le conseguenze dell'Olocausto hanno ancora un effetto sulle vite delle generazioni successive. Solo attraverso le nostre migliori risorse intellettuali e spirituali possiamo far maturare le lezioni di questo cosi' come di tutti gli altri
genocidi. Cerchiamo di aggiungere i risultati dei nostri gruppi di dialogo al patrimonio di conoscenza collettiva sulla capacita' umana di compiere sia le azioni piu' orribili che gli atti piu' eroici di altruismo. Siamo convinti che gli esseri umani debbano impegnarsi in un autoesame profondo e mantenere desta l'attenzione perche' abbiamo visto che nessuno e' immune alle spinte sociali che conducono al razzismo e alla violenza. Spesso ci viene chiesto se perdoniamo gli aguzzini. Non e' che ci opponiamo all'idea di perdono, abbiamo pero' scelto di non usare questa parola per descrivere il nostro scopo perche' si tratta di un vocabolo che puo' assumere connotazioni molto diverse tra persone di fedi diverse e facilmente si finisce per fraintenderlo. Gli ebrei figli di sopravvissuti hanno un concetto del perdono che in parte prescrive una interazione dinamica tra aguzzino e vittima. La maggior parte di noi pero' e' di seconda o terza generazione: non sta a noi perdonare gli orrori commessi contro i nostri familiari. Capiamo che il perdono puo' seguire solo un processo di contemplazione, comprensione ed espiazione. E' qualcosa che riguarda ciascun individuo individualmente e il suo sistema di credenze. "In generale, sentiamo che non e' in nostro potere perdonare per conto dei nostri genitori. Ma singolarmente ciascuno, soprattutto chi e' di fede cristiana e considera il perdono come parte indispensabile del processo di guarigione, puo' percorrere il cammino del perdono per ottenere pace nella propria vita. Il concetto di perdono comunque non vuol dire scusare o dimenticare, quanto piuttosto comprendere il nemico e andare oltre la morsa della vendetta e della chiusura mentale" (Wilma Busse). Uno dei concetti ebraici di perdono (selicha, un atto del cuore) va in direzione di una comprensione piu' profonda, fino a raggiungere un'empatia per il tormento dell'altro. Non si tratta di riconciliazione o di abbracciare gli aguzzini, ma e' una forma di perdono o compassione che sentiamo ascoltando le storie dei loro figli. In "One by One" evitiamo anche la parola riconciliazione che implica una responsabilita' reciproca nell'aver determinato le condizioni che hanno poi separato le persone, cosi' come il desiderio di tornare al precedente stato di armonia che per qualche motivo e' stato rotto. E' evidente che la responsabilita' dell'Olocausto non e' reciproca, ne' tantomeno auspichiamo un ritorno alla Germania prenazista con tutte i suoi focolai di infezione ultranazionalisti e antisemiti. L'Olocausto non puo' essere riconciliato. Usiamo piuttosto il termine trasformazione per rendere l'idea di un passare attraverso, fino a superare l'eredita' dell'Olocausto, e quindi cambiare noi stessi e gli altri. Insieme, con l'aiuto dei piu' alti principi morali delle nostre rispettive fedi, possiamo trasformare l'eredita' che abbiamo ricevuto, fatta di oscurita' e brutalita', in atti di umanita', compassione, giustizia e impegno sociale. Tutti vediamo la possibilita' - e ne sentiamo la necessita' - di passare attraverso un processo personale di trasformazione interiore e di assumerci la responsabilita' di noi stessi e della societa'. Secondo molti partecipanti il processo di guarigione inizia solamente all'interno del setting vero e proprio del gruppo di dialogo. L'elaborazione e integrazione di quanto emerso nel corso del dialogo avviene in seguito, nel continuare a scriversi e a vedersi tra partecipanti di entrambe le parti, incontrandosi di nuovo in gruppi di secondo livello, intervenendo in pubblico oppure nella creazione artistica, proprio a partire dall'esperienza vissuta. Per i figli dei sopravvissuti il dialogo assume un vero significato quando vedono i figli dell'altra parte iniziare a cercare la verita' sulla storia della loro famiglia, quando li vedono impegnarsi in attivita' antinaziste e antirazziste e insegnare e portare testimonianza alla verita' dell'Olocausto. Nel concetto ebraico di espiazione, l'autenticita' nel chiedere scusa - o di ogni vera crescita e sviluppo - si misura dal grado con cui chi ha commesso il torto si assume la responsabilita' per le sue azioni nel mondo. L'espiazione puo' attuarsi con la restituzione per i danni commessi, il sincero pentimento (ossia il cambiamento di attitudine a livello profondo) e con azioni che rispecchino le parole di scusa che sono state pronunciate. Il pentimento deve sempre essere accompagnato da un cambiamento di condotta ed e' questa la precondizione per accettare le scuse. Non si tratta solo di accontentare o dare soddisfazione alla parte lesa. L'espiazione implica che entrambe le parti, e lo stesso equilibrio del
mondo, siano stati colpiti dall'azione malvagia e allora solo attraverso un'azione correttiva, fatta coscientemente, le due persone possono guarire e l'equilibrio ristabilirsi.
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Oltre il dialogo: tikkun olam
Al termine di un gruppo di dialogo, Clemens Kalisher, anch'egli un sopravvissuto, espresse la sua speranza sull'effetto a onde concentriche che i nostri incontri potrebbero avere nel mondo. Osservo' che cio' che stiamo facendo e' contenuto nel concetto ebraico di tikkun olam, ossia di riparare il mondo. Si tratta di un'interpretazione contemporanea della tradizione mistica ebraica che viene usata per indicare la necessita' di compiere azioni che rendano il mondo migliore, piu' giusto e piu' umano. Comprende molti tipi di azione come nutrire chi ha fame, accogliere i profughi, proteggere l'ambiente e cercare la pace tra le nazioni. "One by One" inizia con la guarigione del proprio se', ma essa si compie realmente solo quando la persona partecipa alla guarigione anche degli altri nel gruppo, nelle propria comunita' e nel mondo. Uno per volta cerchiamo di riparare il mondo, cosi' come ripariamo noi stessi. Tra i partecipanti ai gruppi di dialogo c'e' stato chi e' andato poi a unirsi ai componenti dello Speakers Bureau di "One by One" partecipando a incontri pubblici in scuole, universita', chiese o sinagoghe, negli Stati Uniti, in Germania o anche in altri paesi. Martina Emme, una delle cofondatrici di "One by One", ha messo a disposizione la sua esperienza di facilitatrice nei gruppi di dialogo per organizzarne di simili per le donne che sono fuggite dal conflitto in Bosnia e Kosovo.
Nell'ottobre del 2000 alcuni membri di "One by One" sono stati invitati in Bosnia per parlare della loro esperienza. L'artista yugoslava Milena Pribis ha lavorato come arte-terapeuta con bambini in Bosnia. Rosalie Gerut e Nancy Asbedian hanno preso parte come facilitatrici a un gruppo composto da discendenti di sopravvissuti al genocidio degli armeni compiuto dai turchi. Rosalie prosegue il suo impegno continuando la discussione con nativi americani, sopravvissuti ai "campi della morte in Cambogia" e indigeni del Sud America sui modi con i quali "One by One" potrebbe lavorare anche con altre realta' che hanno sofferto persecuzioni, guerre o genocidi. Sabina Gibson ha proposto alle Nazioni Unite di indire una "Giornata mondiale dell'espiazione", la richiesta e' stata accolta e attualmente se ne stanno studiando le modalita' di attuazione. I membri tedeschi hanno pubblicamente protestato contro il taglio di fondi all'Ezra (l'organizzazione dei sopravvissuti in Germania). Sono anche intervenuti in varie occasioni contro l'antisemitismo e le aggressioni razziste; hanno donato fondi per aiutare alcuni sopravvissuti in Lituania in stato di bisogno e hanno aiutato i profughi bosniaci. Protestano contro la chiusura degli archivi tedeschi sulla seconda guerra mondiale che contengono i fascicoli sui criminali di guerra nazisti. Informano i mezzi di informazione portando testimonianza sugli effetti dell'Olocausto e l'eredita' di silenzio che ha lasciato in Germania. Gli artisti che hanno partecipato ai gruppi di dialogo di "One by One" espongono le loro opere nate da quell'esperienza in mostre collettive come questa di Roma. Dai quindici membri iniziali nel 1995, "One by One" oggi ne comprende oltre trecento, con uffici negli Stati Uniti e in Germania. Nuovi gruppi di dialogo si svolgono ogni anno, a cui fanno seguito varie riunioni e, almeno due volte l'anno, altri gruppi per approfondire il lavoro di esplorazione e il processo di guarigione. La nostra speranza piu' grande e' che la nostra organizzazione e l'esperienza del gruppo di dialogo possano diventare un modello anche per altri gruppi che rappresentano le due parti opposte di un conflitto sociale. Sia i discendenti del regime nazista che dei sopravvissuti all'Olocausto hanno subito critiche da entrambe le parti per il loro lavoro. Ma c'e' stato anche chi ha detto che non c'e' nulla di paragonabile al lavoro che abbiamo iniziato e al suo saper guardare avanti, e che poiche' la Germania ha ancora bisogno di uscire dall'atteggiamento di negazione, solo da gente come noi puo' venire lo stimolo giusto. Da parte nostra crediamo che non ci possa essere modo migliore di portare testimonianza sull'Olocausto che dire, i figli dei sopravvissuti e degli aguzzini insieme: si', l'Olocausto c'e' stato. Sentiamo l'obbligo di imparare e insegnarne le lezioni, e di aggiungere la nostra voce a quella dei sopravvissuti che sono ancora con noi e di parlare per coloro che non possono piu' farlo. "Dobbiamo, se vogliamo chiamarci esseri umani, affrontare la miriade di lezioni che l'Olocausto ci esorta a imparare... Forse, proprio noi, i figli di entrambe le parti, siamo gli allievi e gli insegnanti che hanno la responsabilita' di trasformare noi stessi e il mondo, uno alla volta" (Rosalie Gerut).
Vi invitiamo a sperare e ad unirvi a noi in spirito e azione, nel tentativo di portare, a un mondo che ne ha disperatamente bisogno, la forza della guarigione e della trasformazione.
(Fine)

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