La Costruzione di Una Biografia nel Passaggio dalla Memoria alla Testimonianza di Valentina Greco e Lidia Beccaria Rolfi Dalla utilissima rivista telematica "Deportate, esuli, profughe. Rivista telematica di studi sulla memoria femminile", nel sito: http://venus.unive.it/rtsmf, riprendiamo il seguente saggio. Valentina Greco, storica, e' impegnata in una ricerca su "La deportazione femminile dall'Italia durante la seconda guerra mondiale: la costruzione di una memoria sulle assenze della storia"; fa parte del comitato di redazione di "Deportate, esuli, profughe. Rivista telematica di studi sulla memoria femminile", ed e' responsabile del settore bibliografie e sitografie della rivista. Lidia Beccaria Rolfi (1925-1996), nata a Mondovi' nel 1925, staffetta partigiana nella Resistenza, nel '44 fu arrestata dai nazifascisti e deportata nel campo di sterminio di Ravensbrueck. Insegnante, testimone, e' deceduta nel 1996. Opere di Lidia Beccaria Rolfi: (con Anna Maria Bruzzone), Le donne di Ravensbrueck, Einaudi, Torino 1978; L'esile filo della memoria, Einaudi, Torino 1996; (con Bruno Maida), Il futuro spezzato, Giuntina, Firenze 1997. Opere su Lidia Beccaria Rolfi: Bruno Maida (a cura di), Un'etica della testimonianza. La memoria della deportazione femminile e Lidia Beccaria Rolfi, Angeli, Milano 1997. Un suo profilo scritto da Anna Bravo e' nel n. 897 di questo foglio] Premessa Le riflessioni contenute in questo saggio nascono da un lavoro di ricerca sulla deportazione femminile dall'Italia, durante il quale ho avuto la possibilita' di consultare l'archivio personale di Lidia Beccaria Rolfi, fino ad ora inedito e mai consultato. Per questo motivo credo sia necessario illustrare brevemente il materiale su cui ho lavorato. L'archivio di Beccaria e' costituito da numerose cartelle, alcune intestate, altre contrassegnate con le lettere dell'alfabeto, mentre altre ancora non riportano alcun tipo di intestazione; da Aldo Rolfi ho saputo che la madre archiviava meticolosamente tutto quello che riguardava la sua attivita' di testimone. I documenti, nella quasi totalita' manoscritti, sono in realta' conservati in ordine sparso: schedarli, quindi, ha richiesto un lungo lavoro di riordino e trascrizione. I manoscritti si dividono sostanzialmente in tre categorie: relazioni e discorsi tenuti in occasione di convegni o incontri; appunti sparsi sulla deportazione; bozze e prime stesure di alcune parti dei libri. Insieme ai manoscritti sono conservate le copie di alcune interviste rilasciate da Lidia, soprattutto a giornali della provincia di Mondovi'. In una cartella e' archiviato tutto il materiale riguardante il Comitato Internazionale di Ravensbrueck, del quale ella fu la rappresentante italiana dal 1958 fino alla morte. Si tratta soprattutto di verbali e comunicazioni interne. Per cio' che concerne il Diario redatto a Ravensbrueck, e' necessario fare un discorso a parte. Dell'esistenza di un diario di prigionia eravamo a conoscenza, poiche' Lidia ne parla sia ne Le donne di Ravensbrueck che ne L'esile filo della memoria. Il quaderno che contiene il Diario fu fabbricato nel lager, mettendo insieme dei fogli trovati in fondo ad alcuni cassetti durante un turno di notte alla Siemens, e fu scritto con un mozzicone di matita avuto in dono da un'infermiera. In alcune pagine si trovano versi di Dante, Carducci, Pascoli o Leopardi, segno, come vedremo in seguito, del bisogno di esercitare la memoria in modo proficuo; altre pagine sono dedicate alla trascrizione di termini francesi e tedeschi; vi sono inoltre alcune poesie di Charlotte Delbo, scritte credo da lei stessa per Lidia, e infine alcuni disegni del paesaggio del Lager fatti da quest'ultima. Gli appunti di prigionia sono divisi in paragrafi, la maggior parte dei quali e' contrassegnata da un titolo; alcuni sono anche datati. Il tentativo di datare gli appunti e' segno della volonta' di tenere il conto dei giorni trascorsi all'interno del campo: un conto impossibile, tanto che troviamo appunti datati anche settembre 1945. Questo fatto mostra che il tempo della prigionia e' scandito in maniera differente rispetto all'esterno, ma e' anche testimonianza di uno degli esercizi escogitati dalle deportate per resistere attivamente all'annullamento della persona cui miravano i nazisti. La lingua adottata da Beccaria nel Diario e' una lingua completamente diversa da quella dei suoi scritti editi: le emozioni - sia la rabbia per le ingiustizie subite che la nostalgia struggente dei genitori - vengono espresse in forma diretta e intensa, lontana dai toni rigorosi e controllati de Le donne di Ravensbrueck. Ma sono soprattutto i temi affrontati che permettono di ampliare notevolmente la conoscenza dell'esperienza di Beccaria: nel Diario si parla infatti di egoismo, di invidia, di privilegi insopportabili, perfino di omosessualita', temi che in seguito ella non ha mai trattato, non solo per pudore, ma proprio per il rigore scientifico con cui ha affrontato il dovere della testimonianza. Il Diario, quindi, permette non soltanto di tracciare un quadro completo dei mesi di prigionia, ma anche di stabilire un confronto proficuo tra la testimonianza diretta e quella mediata dalla riflessione, consentendo anche di tracciare un quadro completo dei mesi di prigionia. * 1. La scelta "Sono di estrazione contadina, ultima di cinque fratelli... Ho avuto un'infanzia serena, libera, senza nocivi condizionamenti familiari... Le prime parole che ho imparato a scrivere sono state 'Eia, eia, eia, alala'!', la prima lettura Duce, ti amo, il primo disegno la bandiera e il fascio littorio" (Beccaria, Bruzzone, 1978, p. 5). E' la stessa Beccaria che si descrive in questo passo, offrendoci, con poche parole, un ritratto di se stessa che ci permette di cogliere perfettamente il contesto culturale nel quale inserire la sua biografia. Come tanti suoi coetanei, e' cresciuta nelle scuole di regime ed e' stata educata ad amare il duce. Un'educazione di cui va fiera e che la fa sentire un poco diversa dai suoi familiari che le sembrano indifferenti alle sorti dell'Italia. I primi dubbi iniziano a sorgere dopo il 10 giugno del 1940, data in cui l'Italia entra in guerra al fianco dei tedeschi. La guerra tocca direttamente la famiglia di Lidia: due dei suoi cinque fratelli sono partiti per il fronte russo e di loro, come di tanti altri, non si hanno notizie. L'immagine del padre che la schiaffeggia, per la prima ed ultima volta in vita sua, perche' tornando da scuola grida "Viva la guerra!", quella della madre che piange di nascosto, fanno scattare in Lidia una seria riflessione su tutte le certezze che aveva avuto fino a quel momento. Nel momento in cui ascolta i racconti dei fratelli tornati dalla campagna di Russia, che le spiegano che il vero nemico non e' il popolo russo, ma l'esercito tedesco, che aveva ucciso i bambini e fucilato le donne, e che durante la ritirata si era persino rivoltato contro gli italiani, le si rivela a pieno la falsita' della propaganda fascista: "Le mie reazioni, anche se sono nella direzione giusta, sono soltanto reazioni istintive alla tragedia della guerra, alle sofferenze che vedo attorno a me, alle morti che hanno colpito i soldati al fronte e i civili in citta'. Non c'e' ancora una presa di coscienza sulla realta' della situazione italiana e sul fascismo. Questa presa di coscienza avverra' molto piu' tardi" (Beccaria, Bruzzone, 1978, p. 9). Conseguito il diploma, Lidia riceve la sua prima nomina come insegnante elementare alla fine del novembre del 1943. Pochi giorni dopo essersi trasferita a Torrette di Casteldelfino, in Valle Varaita, sede della scuola in cui era stata destinata, riesce a mettersi in contatto con alcuni partigiani della zona: "Ero cresciuta abbastanza per capire quale era la parte sbagliata e scegliere la Resistenza contro i tedeschi e i fascisti" (Monaco, 1994, p. 159). Si unisce alla XV Brigata Garibaldi "Saluzzo", diventando una staffetta. Di notte, alla luce di un lanternino, monta bombe a mano che nasconde in una cassa sotto il suo letto; di giorno, finite le lezioni, fa la spola tra la valle e Saluzzo. I primi giorni del marzo del 1944 i fascisti e i tedeschi iniziano i rastrellamenti a tappeto: "Ezio", uno dei partigiani della brigata, le ordina di allontanarsi dalle valle perche' pullula di spie. Lidia torna a Mondovi' e rientra a Casteldelfino dopo dieci giorni, la sera dell'11 marzo. La mattina del 13 i militi della Guardia Nazionale Repubblicana irrompono nella sua abitazione e la arrestano. La conducono nell'albergo in cui ha sede il comando di stanza a Sampeyre, dove viene interrogata e torturata per un giorno e una notte, viene anche fatta sfilare davanti al plotone d'esecuzione: "il tenente Vicentini di Mantova... assume in proprio l'onore e l'onere di picchiare a sangue 'un'indegna spia del nemico che collabora con banditi ribelli', poi mi lega a una sedia e il mattino dopo mi fa caricare... su una camionetta" (Beccaria, Bruzzone, 1978, p. 11). Consegnata alla Gestapo, trascorre dieci giorni nelle carceri giudiziarie di Saluzzo, rinchiusa in un'enorme cella con detenute colpevoli di reati comuni. Infine, la sera del 24, e' trasferita alle carceri Nuove di Torino dove restera' reclusa tre mesi. I mesi di prigionia sono mesi d'incertezza e di paura, Lidia non sa cosa le accadra', ma non sa neanche quello che sta accadendo all'esterno, perche' ogni comunicazione e' vietata. La notizia che sara' deportata in Germania "per lavorare", come le viene detto, viene accolta quasi con sollievo. E' la notte tra il 25 e il 26 giugno del 1944. Viene chiusa in un vagone bestiame agganciato ad altri vagoni uguali, stracolmi di uomini. Viaggia per quattro giorni e quattro notti quasi ininterrottamente, con brevi e rare interruzioni. Come lei stessa racconta, nei discorsi fatti con le compagne di viaggio durante il trasporto, nessuna riusciva ad immaginare niente di peggio del carcere, della cella, delle torture e della paura delle rappresaglie nei confronti dei familiari o delle persone vicine, nessuna poteva sapere cosa fosse in realta' un campo di concentramento. * 2. Ravensbrueck 30 giugno 1944: e' sera, il convoglio si ferma davanti alla stazione di Fuerstenberg, in Germania; il gruppo di donne scende dai vagoni, i loro corpi sono provati dal lungo viaggio, i loro sguardi increduli cercano una risposta attorno a se'. Le SS tedesche ordinano alle donne di incolonnarsi e le fanno avviare, marciando, lungo una strada che costeggia un lago. Alla fine della strada si intravede un muro altissimo, nero, nel quale si apre un grande portone. E' l'ingresso di Ravensbrueck. Lidia Beccaria e le sue compagne di viaggio rappresentano il primo trasporto di italiane nell'unico campo esclusivamente femminile della Germania nazista. "Ravensbrueck ci appare davanti, all'improvviso... Nessuna persona normale puo' immaginare l'aspetto di una citta' concentrazionaria, una citta' concepita, studiata e strutturata apposta per violentare la persona, per umiliarla, per distruggerla, per renderla bestia" (Beccaria, Bruzzone, 1978, p. 23). Appena entrata in Lager Beccaria si rende conto che le speranze nutrite lungo il viaggio erano vane. Il primo impatto con il campo, le prigioniere che tornano dal lavoro, e' agghiacciante: migliaia di donne, tutte apparentemente uguali, con lo stesso aspetto scheletrito, con gli stessi occhi spenti, con gli stessi vestiti di stracci. La stessa sistemazione urbanistica del campo e' inquietante nella sua apparente normalita', poiche' il Lager e' studiato in modo tale da renderlo simile ad una moderna citta' industriale. Le prigioniere vengono immediatamente catapultate nella vita del campo attraverso la rituale cerimonia della svestizione. Le leggi del campo spezzano ogni legame con il proprio corpo, reso non soltanto irriconoscibile dalla rasatura, ma, soprattutto, reso pubblico dalla nudita', dalle mani delle SS che lo ispezionano, lo frugano. Come ha scritto Giuliana Tedeschi: "Fu come se qualcuno ci strappasse contemporaneamente alle vesti qualcosa del nostro bagaglio spirituale" (Tedeschi, 1946, p. 13). Il contrasto con le abitudini della vita quotidiana e' troppo forte, il corpo stesso sembra rifiutarsi di assecondare quella violazione: "la pelle rifuggiva (dagli indumenti sporchi e informi) accapponandosi, mentre lungo le reni correva un brivido di freddo" (Tedeschi, 1988, p. 12). Arbeit, lavoro, "e' il motto della citta' concentrazionaria..., esprime l'imperativo su cui ruota ora la societa' del profitto" (Beccaria, Bruzzone, 1978, p. 70). Il lavoro nel campo inizia nel momento in cui le deportate vengono svegliate dalla sirena del campo e dura per tutto il giorno, interrotto soltanto dalla lunga cerimonia dell'appello e dalle brevi pause per i pasti. La situazione e' ancora piu' difficile per chi e' una verfuegbar, un'operaia disponibile, come lo e' Beccaria nei primi cinque mesi di prigionia. Essere verfuegbar significa essere semplicemente dei corpi reclutabili per eseguire i lavori piu' massacranti e inutili. La mattina, dopo l'appello, tutte le prigioniere che fanno un lavoro fisso lasciano l'arbeitsplatz, nel campo "rimangono le disoccupate, le ultime arrivate che non sono state assegnate ad un commando e che vengono pescate di volta in volta per lavori di scavo, per scaricare i battelli sul lago, per affrescare i vagoni per tagliare legna per pulire le fogne. Le bande rouge (1)... le caposquadra si gettano a pesce su questa manovalanza ed a colpi di bastone, a schiaffi o con le unghie le attirano nella loro colonna finche' non raggiungono il numero. Le SS assistono a questa operazione di cernita ed a seconda dell'umore lasciano fare o intervengono a colpi di scudiscio per inquadrare le piu' restie" (Inedito, 1944 - 1945). Naturalmente, se visto nella logica della citta' concentrazionaria, anche l'annientamento fisico attraverso il lavoro ha un senso poiche' ad esso segue l'annichilimento psicologico delle prigioniere: "In queste condizioni si perdono le abitudini umane..., si perde addirittura la voce, si diventa mute, ci si chiude in un cerchio di miseria e di annientamento. Scompare la persona e si fa avanti la bestia che agisce solo per istinto" (Beccaria, Bruzzone, 1978, p. 92). Derubata del proprio passato, privata del futuro, Beccaria si trova a vivere in un presente eterno. La vita intera diventa quella vissuta nel Lager. Come scrive Primo Levi: "A dare un colpo di spugna al passato e al futuro si impara assai presto, se il bisogno preme" (Levi, 1958, p. 31). Senza appoggi, senza solidarieta', senza una rete di contatti non c'e' possibilita' di resistenza nel Lager. La fame e la fatica fanno dimenticare che c'e' un motivo per cui si e' in quelle condizioni, che c'e' un nemico che ha fatto si' che cio' potesse accadere, nel nemico si trasforma, piu' semplicemente, la compagna che ha una crosta di pane in piu'. "Il 'tempo concentrazionario' incide i corpi e solo in questo modo sembra spezzare l'apparente fissita' della vita delle prigioniere" (Frediani, 2002, p. 298); il deperimento, la perdita delle mestruazioni, le piaghe dell'avitaminosi, i pidocchi, i segni delle scudisciate, la perdita dei denti, i dolori alle ossa, il corpo subisce una repentina e costante trasformazione. "Questo povero corpo" scrive Giuliana Tedeschi, per sottolineare la sofferenza del corpo violato, usato, torturato: "Nell'immobile monotonia della vita del campo il fluire del tempo appariva solo nelle tracce che lasciava sui nostri corpi e sulle nostre anime... I visi affilati, gli occhi spenti e perduti, i corpi estenuati delle compagne erano i tuoi" (Tedecshi, 1988, p. 77). Sebbene ne Le donne di Ravensbrueck Beccaria non accenni mai in maniera drammatica ai mutamenti del proprio corpo, in realta' anche per lei, che e' una ragazza di appena diciannove anni, il cambiamento fisico e' doloroso. Lo si evince dalle parole che usa nel suo Diario: attraverso i mutamenti fisici si evidenzia lo sradicamento dal proprio passato. Lidia non riconosce in se' i tratti della ragazza che era fino a pochi mesi prima. Ecco cosa annota: "A non ancora vent'anni d'eta' ho il piacere di sentirmi dire da tutti quelli che mi avvicinano se ho dai ventiquattro ai ventisei anni... ho gia' molte rughe sulla fronte e agli angoli della bocca, gli occhi non brillano della luce della giovinezza, e gia' molti fili bianchi brillano fra i miei capelli... dell'"enfant terrible" non resta nulla, della figlia della montagna men che meno" (Beccaria, inedito). Se Tedeschi individua, nei corpi delle compagne, lo specchio attraverso cui vedere i cambiamenti subiti dal proprio corpo, Beccaria sottolinea, invece, il contrasto con i corpi delle privilegiate. Lo fa in una delle pagine piu' forti del suo Diario, quella in cui commenta l'aspetto fisico e l'atteggiamento delle donne che non hanno subito i cambiamenti radicali dovuti alla fame e al lavoro massacrante, ma in cui parla anche di quelle donne che nel campo hanno perso ogni aspetto femminile e sembrano essersi mutate in ibridi. La scena descritta si svolge nel Waschraum del campo: "Ecco entrare una privilegiata... il paggio... le lavera' la schiena, le massaggera' il corpo ancor sodo e ben tornito di cui fa bella mostra ora, facendosi ammirare da altre frequentatrici dell'ala sinistra da una cert'aria mascolina e inquietante... indossano quasi tutte un paio di calzoni, i capelli tagliati alla maschietta, un passo sicuro da uomo, una voce gioiosa per natura o artefatta quando la natura e' in difetto" (Beccaria, inedito). Questa descrizione colpisce per la sua durezza, soprattutto se si confronta questo linguaggio con quello utilizzato da Beccaria nelle sue testimonianze edite: sono temi cui non ha mai fatto cenno, probabilmente soprattutto per paura di essere fraintesa. Il contrasto tra le privilegiate e le deportate comuni e' reso qui attraverso la descrizione del corpo; credo non sia un caso che sia proprio una donna a scegliere questo punto di vista. Nonostante l'annichilimento fisico e morale, Beccaria non vuole rassegnarsi a un destino di morte. Contro il volere dei nazisti resta vivo in lei l'istinto della sopravvivenza. Per poter sopravvivere a Ravensbrueck, occorre salire di almeno un gradino la scala sociale, occorre affrancarsi dalla condizione di sottoproletarie e diventare operaie; sopravvivere significa lavorare nel Siemens Lager, dentro una fabbrica, con degli orari di lavoro e un tetto sulla testa. Per ottenere il suo scopo Beccaria non esita a rubare una divisa a righe indispensabile per lavorare in fabbrica. Una mattina, terminato l'appello, cerca di inserirsi nelle colonne delle lavoratrici stabili, ma viene immediatamente scoperta. Solo grazie all'intercessione di una bande rouge cecoslovacca non subisce alcuna punizione, anzi viene raccomandata al capo del personale della Siemens per la sua buona volonta' e per il suo attaccamento al lavoro. Accade cosi' che nella seconda settimana di ottobre, durante l'appello, sente chiamare il proprio numero dalla blockowa che le ordina di raggiungere la Kolonne Siemens. * 3. Il sottocampo Siemens L'assunzione alla Siemens rappresenta una svolta nella vita concentrazionaria di Lidia Beccaria. L'inserimento non e' facile. Lidia, per il suo aspetto trasandato e per le difficolta' che incontra nella comunicazione ("ho quasi perso l'abitudine di tirar fuori la voce" [Beccaria, Bruzzone, 1978, p. 89]), e' guardata con sospetto dalle altre deportate. Sceglie di essere inserita nella stube delle francesi poiche' non esiste un blocco delle italiane: "Le francesi... mi accolgono molto freddamente: sono un elemento estraneo in mezzo a una comunita' affiatata e compatta" (Beccaria, Bruzzone, 1978, p. 90). All'inizio le deportate francesi sono molto dure con Lidia: la considerano troppo sporca e temono che possa infestare tutto il blocco con i suoi pidocchi, ma soprattutto non le perdonano di essere un'italiana, una cittadina di uno stato fascista alleato con la Germania. I forti legami di solidarieta' che si instaurano all'interno di un gruppo generano, come contraltare, una tendenza alla chiusura verso le altre che a volte sfocia nell'ostilita'. Beccaria si sistema in un letto isolato, al terzo piano, lontana da tutte le altre compagne; questa solitudine e', pero', accolta come un dono dopo lunghi mesi di prigionia durante i quali aveva dimenticato cosa fosse l'intimita'. La "piccionaia", come la chiama nel suo Diario, diventera' per Lidia un luogo privilegiato dal quale osservare le altre compagne e riflettere soprattutto sulla difficolta' a essere solidali le une con le altre. Sono temi mai affrontati che rivelano un lato inedito delle riflessioni di Beccaria. Ecco una delle sue annotazioni in proposito: "Non e' piacevole discendere dal terzo piano, poiche' le vicine trovano il modo di ridire dietro ogni movimento ed ogni nostro atto... L'egoismo domina sovrano in verita'... Triste ma purtroppo vero, dopo anni di campo di concentrazione ci sono donne che pretendono le medesime comodita' ed i medesimi comfort anche se questo torna a danno delle compagne" (Beccaria, inedito). Se, nelle testimonianze rese dopo il ritorno, Beccaria accenna solo agli episodi di solidarieta' tra compagne, lo fa perche' ha analizzato l'esperienza concentrazionaria nel suo complesso; ma le parole appena citate, non mediate da anni di riflessione, ci fanno capire quanto in realta' fossero difficili le relazioni sociali in quella situazione estrema. Le condizioni lavorative all'interno della fabbrica sono assai dure, le deportate sono costrette a fare turni continuativi di 11/12 ore, interrotti soltanto da una pausa di un quarto d'ora: "i ritmi imposti sembrerebbero eccessivi anche per operaie che lavorassero in condizioni di vita normali, ma sono insostenibili" (Beccaria, Bruzzone, 1978, p. 82) per i fisici debilitati delle deportate. La situazione si fa ancora piu' difficile durante i turni di notte: "Sono un incubo: tutto sembra piu' lugubre, le macchine marciano con un ritmo piu' lento, le prigioniere si muovono come fantasmi per l'ala, le membra compiono movimenti d'automa, ma con la pesantezza del piombo. Le lancette dell'orologio sembrano inchiodate" (Beccaria, inedito). Il lavoro notturno e' assai debilitante per Beccaria, ma la sorveglianza e' notevolmente ridotta per cui il turno si svolge in un clima piu' sereno. "Di notte si pensa e si giudicano le cose in un modo molto strano... le impressioni arrivano al cervello sfumate ed indistinte, tanto che non ci si puo' rendere conto se e' un sogno o realta'... i sogni appagano l'anima, e addormentano i desideri come un buon narcotico addormenta il corpo, e qualche rara, ma rara volta, mi permetto di fare qualche piccolo ragionamento che non richieda troppo sforzo, poiche' lo sforzo costa fatica" (Beccaria, inedito), quella fatica che annienta anche la voglia di pensare perche' fa consumare troppe energie. * 4. L'amicizia con le deportate francesi Come dicevamo, i primi giorni alla Siemens sono difficili per Lidia a causa della freddezza con cui e' stata accolta. Una domenica mattina, durante l'appello, una deportata politica francese inizia a fischiettare Bandiera Rossa e Beccaria istintivamente la imita cantando la canzone in italiano. Le compagne chiedono allora a Lidia se sia comunista e lei risponde che ha imparato la canzone mentre era in montagna con i partigiani: a questa risposta l'atteggiamento delle francesi cambia, diventano subito piu' cordiali con Lidia e la presentano alle altre compagne. Il fatto che rivolgano la parola a Lidia solo nel momento in cui le sentono intonare un canto comunista e' il segno evidente della diffidenza nei confronti delle deportate italiane, sospettate di essere delle fasciste nonostante si trovino nel campo. E' una diffidenza che hanno provato tutti i deportati italiani e che ha reso ancora piu' dura la prigionia. E' anche la prova, come abbiamo avuto modo di dire, di quanto sia raro l'inserimento di un elemento estraneo all'interno di un gruppo consolidato, perche' significa mettere in gioco i rapporti di fiducia che si sono instaurati, significa mettere a rischio la propria vita. L'incontro con le deportate francesi segna per Lidia l'inizio di un'amicizia profonda che le cambiera' la vita, non soltanto all'interno del campo: piu' volte, nelle sue testimonianze, sottolineera' come per lei il Lager sia stato anche un'universita'. Da loro impara che avere cura del proprio corpo, del proprio aspetto fisico e' un atto di resistenza all'interno del campo, perche' e' un'affermazione della propria volonta', e' uno schiaffo alla volonta' nazista di umiliare il corpo delle donne; impara che allenare la memoria, sforzarsi di ricordare e' un mezzo per resistere alla disumanizzazione; impara le leggi che regolano i rapporti tra le deportate all'interno del campo; impara a sabotare la produzione senza pero' mettere in pericolo la propria vita o quella delle compagne. E' a questo periodo che Beccaria fa risalire la sua prima formazione politica: dalle francesi apprende le prime nozioni sul comunismo, su Marx e su Rosa Luxemburg; si rende conto soltanto adesso di cosa siano realmente il fascismo e il nazismo, e' un lungo lavoro che deve fare su se stessa per capovolgere quello che aveva appreso durante gli anni della scuola e riuscire a giudicare criticamente tutti gli avvenimenti alla luce dell'esperienza vissuta sulla propria pelle. Lidia e' profondamente colpita dall'atteggiamento delle politiche francesi: molte di loro si sono rifiutate per parecchi di mesi di lavorare per l'industria bellica tedesca, entrando alla Siemens soltanto quando ormai era una questione di vita o di morte, affinche' salvandosi potessero raccontare la loro esperienza, e dai loro discorsi trapela un senso di colpa nei confronti delle altre compagne meno fortunate. All'inizio per Beccaria e' difficile adeguarsi a una disciplina cosi' rigida, spesso viene ripresa duramente per alcuni suoi atteggiamenti, ritenuti non coerenti con la sua condizione di deportata politica. La fatica iniziale e' compensata, pero', dal piacere di riscoprirsi nuovamente persona: "Riacquisto il rispetto di me stessa..., la ripresa e' lenta ma graduale: giorno per giorno miglioro, riprendo a pensare, a parlare, a discutere" (Beccaria, Bruzzone, 1978, p. 95). Da questa "rinascita" scaturisce innanzitutto una dura autocritica. In una pagina del suo Diario Beccaria scrive: "Dal giorno in cui mi hanno arrestata ho avuto l'impressione di avere meritato questa prova per ben altri motivi che quelli che mi hanno portata in prigione, soprattutto per essermi comportata come una vera imbecille. A tutto posso trovare una scusa, ma non all'imbecillita', quando si e' affetti da codesta malattia... non ci si cimenta in imprese nelle quali oltre alla nostra si puo' mettere a repentaglio la vita di altre persone" (Beccaria, inedito). Guardando a se stessa come era prima di essere arrestata, si accusa di aver agito con troppa leggerezza, senza pensare alle conseguenze delle proprie azioni: "In un anno di prigionia ho riflettuto parecchio, arrivando a questa constatazione: ho vissuto male fino a 19 anni, e nell'anno che segue e forse per poco piu' ancora pago il fio dei miei falli" (Beccaria, inedito). Adesso si sente profondamente diversa e le metamorfosi del fisico sono uno specchio del cambiamento che ha subito interiormente, i fili bianchi tra i suoi capelli di ventenne le sembrano il segno tangibile della maturita' che ha conquistato. E' un'analisi che colpisce se si tiene conto che e' stata fatta all'interno del campo e se la si paragona con gli altri passi del Diario in cui l'accento era puntato esclusivamente sull'egoismo delle compagne. * 5. Ricordare "Allenare la memoria e il cervello... e' un altro mezzo per resistere alla disumanizzazione" (Beccaria, Bruzzone, 1978, p. 94). Beccaria riscopre con stupore la propria capacita' di ricordare anche se, ancora una volta, guarda a se stessa con severita': "Sono veramente umiliata ed arrabbiata con me stessa per aver perduto tanta ricchezza, la sola che nessuno avrebbe potuto togliermi... ho tutto perduto o quasi, resta un poco, ma e' troppo, troppo poco" (Beccaria, inedito). Si dedica al disegno e alla scrittura approfittando di ogni momento libero, perfettamente conscia del pericolo a cui va incontro nel caso qualcuno la scoprisse ("una francese... mi avverti' che il pomeriggio c'era stata una perquisizione della Blokova molto meticolosa - aveva trovato i fogli manoscritti e li aveva sequestrati. Mi assali' una paura folle - sapevo... cosa mi sarebbe potuto succedere se fossi stata denunciata e per alcuni giorni [mi parve] di sentir chiamare il mio numero, anche se i fogli erano comuni era molto facile individuarmi perche' in tutta la Stube eravamo rimaste solo due italiane" (Beccaria, inedito)). Trascrive brani di poesia o di prosa, nomi e date che riaffiorano nella sua memoria, appunta le nuove parole o i verbi che impara in francese con la loro traduzione in italiano "per non cedere al desiderio di collezionare ricette di cucina" (Beccaria, Bruzzone, 1978, p. 95). In quest'ultimo passo Beccaria si riferisce all'usanza delle deportate di scambiarsi le ricette dei paesi di provenienza: anche se qui ha un'accezione negativa, questa usanza per molte deportate ha rappresentato una scappatoia per non cedere ai morsi della fame o al desiderio di lasciarsi andare, per molte ha rappresentato anche l'unico modo di comunicare tra persone che non avevano niente in comune. Soltanto adesso Lidia si rende conto di quanto si fosse trovata vicina alla fine: la misura dell'abisso che aveva toccato le e' data dal rendersi conto che, durante i cinque mesi trascorsi a Ravensbrueck come verfuegbar, nemmeno una volta aveva pensato alla sua famiglia, ai suoi amici, ai luoghi del suo paese che le erano piu' cari. Tutto questo era come sparito appena varcata la soglia del campo. Disegnare la aiuta a riappropriarsi dei volti cari, dei luoghi conosciuti: "Perche' lo fai?" le chiede una deportata che lavora in infermeria, "Per ricordare", risponde Lidia, "vedi sto dimenticando anche casa mia - Ieri pensavo al riso di mia madre, ma non lo trovo piu', e' lontano. E cosi' anche quello degli amici, dei compagni di scuola, e' una nebbia - Ricordo solo le cose e finche' posso ricordarle cerco di metterle giu' sulla carta. Vedi questo e' il mio cancello vicino c'e' un albero di fiori... Questa e' casa mia... Questa e' la mia collina... (i disegni) non sono belli, lo so, ma sono miei - sono i miei ricordi, il mio passato, sono le poche cose che mi legano ancora, per un soffio, a quella vita - Quando non sapro' piu' disegnare vorra' dire che sono morta, che qui, in questa testa non ci sara' piu' niente" (Beccaria, inedito). Il lento riaffiorare dei ricordi porta con se' la nostalgia di casa, delle persone care, sentimento che possiamo cogliere in alcuni tra i passi piu' belli del Diario, quelli in cui parla della madre, del padre e del paesaggio di Mondovi' a lei tanto caro. In realta', ne Le donne di Ravensbrueck, Beccaria non usa il termine nostalgia, anzi nega di averla provata e definisce il suo sentimento piu' come piacere di riappropriarsi del suo passato. Nonostante cio', su questo punto le parole del Diario non lasciano spazio a fraintendimenti: "le palpebre sono pesanti la mano a stento riesce a far scorrere la matita la testa cade ciondoloni, ma nonostante tutto il pensiero e' ancora fisso lontano in un ricordo che nello stesso tempo e' visione e speranza, e' desiderio... Italia... mia, mia casetta lontana, mamma, papa', dove siete perche' non mi date vostre notizie, perche' mi lasciate sola? Ho tanto bisogno di conforto, mamma ho bisogno di te, voglio che tu mi stringa fra le tue braccia, sono troppo sola, paurosamente sola, fra la promiscuita' di tante donne che di donna non hanno piu' che le sole sembianze fisiche" (Beccaria, inedito). In un altro passo del Diario Lidia si rivolge direttamente al padre, immaginando di parlare con lui e di dargli conforto: e' certa che lui, alla fine della giornata di lavoro, davanti alla tavola pronta per la cena, si fermi a pensare a lei, attendendo il suo ritorno: "vero babbo che tu mi attendi tutte le sere?" (Beccaria, inedito). Sapere che a casa c'e' qualcuno che l'aspetta le da' conforto: "nel ricordo della patria lontana, nel desiderio della tua casetta, nella certezza che la' qualcuno ti attende trovi la forza di sopportare" (Beccaria, inedito). * 6. Gli ultimi giorni a Ravensbrueck Il primo di aprile del 1945 e' una data molto importante per Beccaria: e' infatti il giorno in cui vengono liberate le deportate francesi che hanno compiuto trent'anni. La notizia getta nello sconforto Beccaria che ha paura di restare priva di appoggio e protezione, ma soprattutto ha paura di lasciarsi nuovamente andare senza il costante controllo dell'amica. Partite le francesi, decide di trasferirsi nel blocco delle tedesche dove risiede la maggior parte delle prigioniere italiane. Pochi giorni dopo, Lidia riceve la notizia del suo licenziamento dalla fabbrica: "Siemens chiude le sue porte: alle otto improvvisamente l'ordine di imballare tutto il materiale... cosi' dopo sei mesi lascio la Siemens... forse c'e' una punta di rimpianto in questo distacco: e' stupido ma dopo cosi' lungo tempo ci si affeziona egualmente al nostro lavoro" (Beccaria, inedito). In seguito al licenziamento e alla smobilitazione si accavallano pensieri contraddittori: da un lato c'e' la paura per l'incertezza del futuro, dall'altro c'e' la speranza che tutto stia per finire. Seguono giornate difficili: le deportate sono ancora sotto la stretta sorveglianza delle SS, devono recarsi, come d'abitudine, all'appello mattutino, vengono loro assegnate dure corvees, ma non vengono distribuiti i pasti. Col passare dei giorni, pero', matura nelle deportate la certezza che la fine della prigionia e' vicina: le SS non si vedono quasi piu', il campo sembra essersi svuotato. "C'e' qualcosa di nuovo nell'aria un'atmosfera carica di elettricita' una tensione nervosa in tutte... nell'ala regna un silenzio di tomba... una tedesca cuce, prepara un sacco, in previsione della partenza, un sacco pratico che si possa mettere a spalla in caso di un lungo viaggio a piedi" (Beccaria, inedito). La mattina del 26 aprile, terminato l'appello, le deportate ricevono l'ordine di non rientrare nei blocchi. Restano per tutto il giorno fuori, inquadrate cinque per cinque; alla fine arrivano le SS, ognuna con due cani al guinzaglio, e ordinano loro di iniziare a marciare. Beccaria si allontana da Ravensbrueck con un proposito che ha appuntato su un foglio di velina bianca conservato tra le pagine del Diario: "Voglio vivere... per ricordare, per mangiare, per vestirmi, per darmi il rossetto e per raccontare forte, per gridare a tutti che sulla terra esiste l'inferno" (Beccaria, inedito). I cancelli di Ravensbrueck si sono finalmente aperti, e' arrivato il momento di lasciarsi i mesi di prigionia alle spalle, varcare la soglia del Lager per uscirne corrispondeva, infatti, nei sogni delle deportate, ad un completo ritorno alla liberta'. La delusione e' immediata: Beccaria si rende conto da subito che la realta' e diversa, a scortarla fuori da Ravensbrueck sono i soldati tedeschi che costringono le deportate a marciare ancora una volta fuenf zu fuenf, cinque a cinque. "Quando ho superato la porta del campo e ho cominciato a camminare, prima lungo la sponda del lago e poi nella pineta, mi sono resa conto che forse avevo lasciato Ravensbrueck definitivamente, ma che questo non voleva dire ancora liberta'" (Beccaria, Bruzzone, 1978, p. 125). E ancora una volta le prigioniere percepiscono quanto sia insignificante la loro vita agli occhi degli aguzzini. Vengono usate come scudi umani dai soldati e dai civili tedeschi, i corpi delle prigioniere proteggono dagli attacchi a bassa quota degli alleati. Sono momenti di rabbia e di terrore: "Non sembra possibile, non puo' essere vero, non e' giusto morire per colpa di una pallottola degli alleati dopo essere scampati all'inferno" (Beccaria, Bruzzone, 1978, p. 126). Molte prigioniere moriranno cosi', in questa zona di confine, non piu' prigioniere ma non ancora libere. Nei primi due giorni dopo la liberazione, Beccaria riesce a trovare il tempo per prendere alcuni appunti che non sono inseriti nel Diario tenuto in campo e la cui copia originale e' andata molto probabilmente perduta. Fortunatamente le copie battute a macchina sono conservate nel suo archivio personale. Gli appunti relativi al 26 aprile, primo giorno di evacuazione, sono stati pubblicati come introduzione all'Esile filo della memoria, il loro tono, nonostante tutto, e' improntato all'ottimismo: "Cosi' si lascia Ravensbrueck, cosi' si varca il cancello di questa prigione maledetta ma cantando, nonostante la pioggia, nonostante il freddo il fuoco e le guardie, cantando le canzoni preparate un lontano giorno dell'estate passata per ben altra partenza" (Beccaria, 1995, p. 4). Lo scritto del 27 aprile e' gia' radicalmente diverso: un giorno di marcia sotto la pioggia ha fiaccato lo spirito di Beccaria, mentre il fisico, fortemente provato dai giorni di prigionia, sembra non poter sopportare ulteriori prove. "La stanchezza e' tale che non si sente piu' la fame" (Beccaria, inedito): il disagio della situazione e' condensato tutto in questa breve frase che non necessita di ulteriori commenti. Anche riposare e' uno strazio perche' la pioggia che cade fitta, aggiunta alla fatica per la marcia, causa a Lidia un insopportabile dolore alla gamba. E' ancora una volta la vicinanza delle altre compagne che le impedisce di lasciarsi andare, ad ogni sosta una compagna le massaggia la gamba in modo da alleviarle, almeno momentaneamente, il dolore. "Molte volte sono stata sul punto... di farmi anche ammazzare pur di mettere fine a quella tortura, ma ogni volta che mi rifiuto di alzarmi, Pina mi mette in piedi a viva forza" (Beccaria, Bruzzone, 1978, p. 127). Nel sottolineare la solidarieta' dell'amica, Lidia sminuisce il proprio coraggio e la propria forza di volonta'; questo, come abbiamo gia' avuto modo di notare, e' un atteggiamento comune alla maggior parte delle testimonianze femminili che, come scrive Bruzzone, vanno lette anche tra le righe, "indovinando quello a cui la modestia di chi scrive o parla accenna solo" (1978, p. XI). Questo atteggiamento e' riscontrabile anche nelle testimonianze di Lidia Beccaria. Sia ne Le donne di Ravensbrueck che ne L'esile filo della memoria ella tace un episodio, a mio parere assai significativo, di cui e' protagonista assieme ad altre due compagne e che e' possibile ricostruire proprio grazie agli appunti presi durante la marcia. Questi i fatti: nella confusione della marcia si presenta la possibilita' di fuggire dalla colonna, nascondendosi in un carro italiano, ma Beccaria si rifiuta di abbandonare la colonna perche' non se la sente di lasciare al loro destino le inferme che non riescono piu' a marciare senza un aiuto: "Le SS ancora ci sorvegliano e ben conosciamo il loro modo di agire verso le ammalate, bisogna percio' aiutarle fin che c'e' forza fin che non possiamo lasciarle al sicuro" (Beccaria, inedito). Beccaria non parla mai, nelle sue testimonianze, degli episodi in cui si rende protagonista di gesti di solidarieta' come quello a cui ho accennato, non soltanto perche' glielo impedisce il pudore o perche' vuole evitare qualsiasi accento di autocompiacimento, ma soprattutto perche' con la sua scrittura si pone l'obiettivo di avvicinare il piu' possibile la memoria al racconto storiografico. Per far questo occorre "scremare" il racconto di tutti quei particolari autobiografici che non sono funzionali ad una ricostruzione "oggettiva" della deportazione. La sera del 27, dopo appena un giorno di marcia, e' chiara la situazione in cui versa l'esercito tedesco. Le SS non fanno piu' paura: se la liberazione avviene per tappe successive, questo e' il momento in cui Beccaria inizia a liberarsi del timore verso i soldati tedeschi. Questo passaggio segna il momento in cui si rende conto che ormai non possono piu' decidere arbitrariamente della sua vita o della sua morte. E' un momento decisivo: "Il cielo ha riflessi di sangue e di morte, le SS sono tutte ubriache, i cani latrano con insistenza. Il comandante non sa che fare: ci raduna e ci dice: 'Siete in balia di voi stesse'... si resta non per preferenza, ma semplicemente perche' siamo sfinite e perche' il nostro nemico e' il tedesco. Attendiamo solo la liberta', venga questa dai Russi o dagli Americani non ha importanza. La sera e' buia, pioviggina, fa freddo, restiamo accovacciate ai piedi di un pino, strette strette per avere caldo" (Beccaria, inedito). Gli alleati, i liberatori, non hanno ancora un volto, sono annunciati dal rumore degli aerei, delle bombe, delle mitragliatrici. Beccaria ha ormai compreso che la liberazione che aveva sognato durante i lunghi mesi di prigionia non avra' i tratti netti di una rivelazione, ma si manifestera' gradualmente. E' si' fuori da Ravensbrueck, ma e' come se fosse piombata in una sorta di limbo: la situazione e' spaesante, e' chiaro che il ritorno non sara' facile ma e' difficile immaginare quali saranno le difficolta'. Primo Levi ha definito in modo assai preciso questa sensazione: "La liberta'... era intorno a noi, ma sotto forma di una spietata pianura deserta. Ci aspettavano altre prove, altre fatiche, altre fami, altri geli e altre paure" (Levi, 1963, p. 78). * 7. Sono arrivati i russi "Sono arrivati i Russi, ci sono i Russi, sono fermi sulla strada", grida un soldato italiano entrando nella cascina in cui, dopo nove giorni di marcia, sono arrivati Lidia e Carlo, un internato militare incontrato lungo la strada, che la ha "soccorsa e... trascinata in quell'esodo apocalittico verso l'ignoto" (Beccaria, inedito). Beccaria e' arrivata in quella cascina da appena mezz'ora, dopo essere scappata dalla colonna in evacuazione, accolta da un gruppo di quattordici internati militari. La notizia dell'arrivo dei soldati russi, dei tanto attesi liberatori, sembra non colpire Lidia che, senza prestare la minima attenzione a quello che le accade intorno, senza nemmeno sollevare la testa, continua a mangiare la trippa che le hanno offerto. "Solo piu' tardi, quando proprio insistono, esco a vedere i liberatori" (Beccaria, inedito). Nonostante l'apparente disinteresse, e' comunque come se qualcosa si sciogliesse nell'animo di Beccaria: questo cambiamento si manifesta fisicamente attraverso un lungo sonno, un sonno che dura piu' di un giorno, tanto che a ridestarla sono proprio i suoi compagni preoccupati. "E' incominciata la mia tregua cosi': 14 italiani, tanti piatti di minestra - un bicchiere di wodka e al risveglio un bagno caldo in una tinozza di fortuna, un pezzo di sapone, un asciugamano pulito e una tuta blu da meccanico" (Beccaria, inedito). Il breve periodo trascorso alla cascina serve a Lidia per recuperare un po' di forza e per iniziare a ritrovare se stessa, innanzi tutto attraverso la riscoperta del proprio corpo, al quale, dopo le sofferenze patite a Ravensbrueck, puo' ricominciare a prestare un po' di cura. E' appunto attraverso la cura del corpo che Lidia riscopre la propria femminilita', ed e' a questa riscoperta che si accompagnano le prime insicurezze e i primi timori: "Solo allora mi resi conto di essere l'unica donna in mezzo a tutti quegli uomini... ero qui, sola, in mezzo a liberatori russi e ospiti italiani e anche loro facevano finta di non vedermi, forse per pudore. Non mi avevano chiesto nemmeno il mio nome" (Beccaria, 1995, p. 18). Il bisogno di superare questa invisibilita' e' piu' forte dei timori. Lidia sta riscoprendo se stessa e sente il bisogno di comunicare perche' adesso non e' piu' un numero, ha nuovamente un nome e un cognome: "Dovevo dirlo, almeno ai miei compagni, che avevo un nome" (Beccaria, inedito). Eppure non e' facile rispondere nemmeno alla prima e piu' banale delle domande: "Chi sei?"; "Chi sono?" si chiede Beccaria, chi sono diventata dopo l'arresto, i mesi di prigionia, le privazioni, la malattia? Le basta iniziare a parlare per sciogliersi completamente, racconta tutto quello che le era accaduto, dall'arresto alla liberazione, senza tralasciare nessun particolare: "Mi sembrava di raccontare un film, un libro, la storia di un'altra" (Beccaria, 1995, p. 19). E' la prima volta che racconta la sua storia e la racconta a persone che dovrebbero esserle vicine poiche' hanno subito anche loro una sorte simile, eppure non e' cosi'; al contrario Beccaria, deve gia' da adesso fare i conti con la diffidenza, con il dubbio. E' il dubbio di fronte al quale, sempre, si trovano le deportate che raccontano. Se testimoniare la propria esperienza e' per tutti complicato e doloroso, quando a raccontare e' una donna si aggiungono ulteriori difficolta'. La paura di non essere credute o di essere fraintese e' il leit motiv dei racconti delle deportate. I racconti delle donne suscitano imbarazzi e paure poiche' e' inevitabile collegare la prigionia femminile alla violenza e allo stupro. Spesso pero' le reduci sono vittime di una curiosita' morbosa che insinua il dubbio della compiacenza al solo fine di ricavarne qualche privilegio o qualche favore e che associa la prigionia femminile allo sfruttamento della prostituzione. Neanche Beccaria sfugge a questo genere di curiosita': difatti, non appena finisce di raccontare, le viene domandato se per caso le deportate, a Ravensbrueck, non fossero state sfruttate dai tedeschi "Usate voglio dire come si usano le donne..." (Beccaria, 1995, pp. 20 - 21). E' una domanda che ferisce Lidia, ma che non la stupisce poiche' conosce bene la cultura del tempo e l'immagine della donna che hanno i suoi interlocutori: "Non mi offesi..., anch'io subivo la cultura di quell'epoca. Avrei potuto negare ma sapevo che non mi avrebbero creduta... ma fin da quel momento capii che sarebbe stato difficile raccontare il Lager e quasi impossibile essere creduta" (Beccaria, 1995, p. 19). (Parte prima - Segue) VALENTINA GRECO: LIDIA BECCARIA ROLFI: LA COSTRUZIONE DI UNA BIOGRAFIA NEL PASSAGGIO DALLA MEMORIA ALLA TESTIMONIANZA (PARTE SECONDA E CONCLUSIVA) [Dalla utilissima rivista telematica "Deportate, esuli, profughe. Rivista telematica di studi sulla memoria femminile", nel sito: http://venus.unive.it/rtsmf, riprendiamo il seguente saggio. Valentina Greco, storica, e' impegnata in una ricerca su "La deportazione femminile dall'Italia durante la seconda guerra mondiale: la costruzione di una memoria sulle assenze della storia"; fa parte del comitato di redazione di "Deportate, esuli, profughe. Rivista telematica di studi sulla memoria femminile", ed e' responsabile del settore bibliografie e sitografie della rivista. Lidia Beccaria Rolfi (1925-1996), nata a Mondovi' nel 1925, staffetta partigiana nella Resistenza, nel '44 fu arrestata dai nazifascisti e deportata nel campo di sterminio di Ravensbrueck. Insegnante, testimone, e' deceduta nel 1996. Opere di Lidia Beccaria Rolfi: (con Anna Maria Bruzzone), Le donne di Ravensbrueck, Einaudi, Torino 1978; L'esile filo della memoria, Einaudi, Torino 1996; (con Bruno Maida), Il futuro spezzato, Giuntina, Firenze 1997. Opere su Lidia Beccaria Rolfi: Bruno Maida (a cura di), Un'etica della testimonianza. La memoria della deportazione femminile e Lidia Beccaria Rolfi, Angeli, Milano 1997. Un suo profilo scritto da Anna Bravo e' nel n. 897 di questo foglio] 8. Il lungo soggiorno a Lubecca Dopo pochi giorni di permanenza alla cascina, Beccaria viene mandata al comando americano di stanza ad Hagenau e, successivamente, a quello inglese che la trasferisce a Lubecca, in un campo abbandonato di prigionieri russi, il Blm. E' il 19 maggio del 1945: dovranno trascorrere altri tre mesi prima che possa intraprendere il viaggio che la riportera' in Italia. Gli inglesi si disinteressano totalmente della sorte dei deportati, soprattutto delle donne, che sono quasi tutte malate e necessitano di cure ospedaliere. Le donne vengono sostanzialmente affidate agli internati militari che si occupano di loro procurandosi le verdure negli orti dei tedeschi e ricavando bende di fortuna con cui curare le piaghe e i foruncoli, inoltre non vengono conteggiate nella distribuzione dei pacchi inviati dalla Croce Rossa ne' tantomeno e' concesso loro di scrivere a casa. Le ribellioni naturalmente non mancano, ma e' frustrante dover combattere per un'assistenza che sarebbe loro dovuta. "Lidia e le sue compagne sembrano subire una tripla discriminazione: come italiane, come donne, come deportate sembra che nessuno si occupi di loro o prema per il loro ritorno. I sogni di un rimpatrio trionfale e rapido, magari in aereo, sono definitivamente abbandonati" (Frediani, 2002, p. 310). La disillusione dei deportati di fronte al disinteresse e al protrarsi delle loro lontananza da casa e', ancora una volta, descritta con efficacia impareggiabile dalle parole di Primo Levi: "Avevamo sperato un viaggio breve e sicuro, verso un campo attrezzato per accoglierci... e questa speranza faceva parte di una ben piu' grande speranza, quella in un mondo diritto e giusto, miracolosamente stabilito sulle sue naturali fondamenta... dopo il tempo della nostra lunga pazienza. Era una speranza ingenua... ma noi ne vivevamo... poiche' non si sogna per anni... un mondo migliore senza raffigurarselo perfetto" (1963, p. 78). Nonostante le difficolta' e l'indifferenza, il soggiorno al Blm rappresenta una parentesi positiva per Beccaria. I mesi di permanenza nel campo le consentono un lento ritorno alla vita. Vi e', innanzi tutto, un miglioramento fisico: guariscono le piaghe dovute all'avitaminosi, la pelle riprende un colorito sano, il corpo aumenta di qualche chilo e infine ritornano anche le mestruazioni, la cui assenza aveva causato non poche preoccupazioni. Vedere che i segni dei lunghi mesi di prigionia scompaiono a poco a poco dal proprio corpo e' come una prova della liberazione, una prova del fatto che, forse, un ritorno alla vita e' possibile. Lidia riscopre il contatto con la natura, una natura di cui, nel Lager, aveva persino dimenticato l'esistenza: "Il sole mi toglieva... la puzza del Lager che continuavo a sentirmi addosso, una puzza che era entrata nella pelle... non la sentivo solo quando mi esponevo al sole o mi coricavo nell'erba fresca" (Beccaria, 1995, p. 59). A Lubecca assapora anche una liberta' assoluta, liberta' di muoversi come desidera, di passeggiare o di dormire, liberta' di gestire la sua vita in maniera completamente autonoma. Una liberta' che e' essa stessa una medicina utile a rimarginare le cicatrici della prigionia. Un altro momento importante e' segnato dal definitivo superamento della paura nei confronti dei tedeschi, superamento che e' scandito da un evento preciso: una mattina Beccaria viene sorpresa a rubare della verdura in un orto di proprieta' di un tedesco, il proprietario la minaccia con una zappa e la riempie di improperi, ma lei non si lascia intimidire, risponde per le rime e si allontana con calma. E' come aver superato positivamente un esame. Lidia si sente fiera di se stessa e del proprio coraggio: "Non mi sentivo piu' sulla pelle il complesso della prigioniera" (Beccaria, 1995, p. 58). Beccaria ricomincia adesso a pensare alla propria casa, alla propria famiglia, agli amici che la aspettano a Mondovi': non sono piu' i ricordi dolorosi carichi di malinconia con i quali aveva pianto nelle notti di Ravensbrueck. Ricordare in questo momento significa immaginare come sara' riabbracciare le persone care, dopo tutti i mesi trascorsi lontano da casa, con la certezza che questo incontro avverra'. La sera, alla luce della luna, finalmente sola, Lidia puo' finalmente pensare alla sua casa con serenita': "La luna divento' un momento d'incontro con la mia famiglia e con i vecchi amici... Ogni sera ritagliavo cinque minuti per guardare la luna da sola, per riscoprire il mio passato e pensare alle persone che avrei voluto rivedere" (Beccaria, 1995, p. 56). E' pero' la nostalgia dei libri che da' a Lidia la misura dei progressi fatti nel cammino verso un vero ritorno alla vita. Nello stesso momento in cui riscopre il piacere di leggere, perde completamente il desiderio di scrivere, perche' non vuole piu' ricordare i giorni del Lager. Per lo stesso motivo, come per una tacita intesa, il Lager finisce di essere argomento di discussione anche con le altre compagne. I giorni trascorsi a Lubecca cominciano adesso a farsi lunghi, il desiderio di tornare a casa si fa sempre piu' vivo. Arrivato il momento di partire, una volta di piu', le deportate non sono trattate alla stregua degli uomini: gli inglesi vogliono infatti farle partire con le civili, senza dar loro la precedenza concessa invece agli uomini. Solo grazie a un'ennesima protesta, una vera e propria sollevazione contro i capi inglesi, le donne riescono a partire con la prima tradotta per l'Italia. E' il 16 agosto 1945: il viaggio verso casa durera' quattordici giorni. E' durante una sosta fatta lungo il cammino che Lidia si ritrova, per la seconda volta, a parlare della propria esperienza con alcuni internati militari e per la seconda volta e' costretta a scorgere la perplessita' negli occhi di chi la ascolta: "Era una donna... che parlava di politica e di guerra. Chissa' se quello che raccontava era vero!" (Beccaria, 1995, p. 92). * 9. L'Italia Il 30 agosto il treno su cui viaggia Lidia arriva a Milano: in attesa di quello che la portera' a Torino si reca presso un ufficio per la ricerca delle persone scomparse durante la guerra: qui, tra le varie foto appese, Beccaria riconosce un suo ritratto, istintivamente lo stacca e conserva in tasca. L'impiegata, accorgendosi delle sottrazione, intima a Lidia di posare la foto e si rifiuta di crederle quando questa le assicura di essere la persona ritratta. L'impiegata ascolta dubbiosa il racconto: di Ravensbrueck non ha mai sentito parlare e la storia le suona sospetta visto che chi racconta non e' nemmeno un'ebrea. E' solo l'inizio di una lunga serie di umiliazioni. All'arrivo del treno per Torino, Beccaria sale, insieme ad altri reduci piemontesi, su una carrozza di terza classe nella quale siedono gia' alcuni civili. L'ostilita' dei passeggeri del treno e' evidente, tanto che uno di loro chiama il controllore per lamentarsi della presenza dei deportati. Alla richiesta del biglietto Lidia e i suoi compagni mostrano il lasciapassare, ma il controllore, non ritenendolo valido, li invita a scendere dalla carrozza tra gli applausi e i commenti ad alta voce dei passeggeri: "Ci sono i vagoni bestiame per loro. Avete visto, ci sono delle donne, si portano le donne dietro" (Beccaria, 1995, p. 106). La reazione dei passeggeri del treno non stupisce neanche troppo Lidia: il sogno di un'accoglienza trionfale e' gia' svanito. Nel treno che da Torino la porta a Cuneo un'altra volta il controllore, accortosi che non ha il biglietto, la vuole far scendere, la reputa un'imbrogliona perche' il lasciapassare, dice, si rilascia ai militari, mica alle donne. Questa volta avviene, pero', qualcosa di inaspettato: alcuni operai circondano il controllore e lo costringono a scendere dal treno, minacciandolo. In Beccaria si accende un barlume di speranza, forse qualcuno e' disposto a crederle, forse qualcuno e' disposto ad ascoltare la sua storia. Ma, come scrive Frediani, "la via crucis dell'ostilita' e dell'incomprensione nel suo ritorno a casa sembra non finire mai" (2002, p. 311). Scesa a Cuneo, alcuni giovani la apostrofano in malo modo scambiandola per una ausiliaria: "quel saluto mi raggelo'" (Beccaria, 1995, p. 108). Su invito della polizia ferroviaria si reca a trascorrere la notte in un convento di suore che la trattano freddamente, senza neanche chiederle come si chiama, limitandosi a darle qualcosa da mangiare e un letto per dormire. L'indifferenza delle suore ferisce Lidia, che si sente a disagio di fronte a quegli sguardi che sembrano rimproverarla perche' non e' rimasta a casa, come dovrebbero fare le donne. Dunque proprio il momento in cui le tensioni accumulate avrebbero dovuto sciogliersi, l'arrivo in Italia, si rivela il piu' duro per l'indifferenza, l'ostilita', il disprezzo con cui viene accolta. "Non era il ritorno che spesso avevo immaginato quando cercavo di scacciare la fame sognando il dopo Lager" (Beccaria, 1995, p. 108). Mentre siede sul treno che la riporta finalmente a Mondovi', Lidia sa gia' che non potra' raccontare; e' bastato trascorrere un solo giorno in Italia per farle comprendere che la sua storia non sarebbe stata ascoltata: "Arrivai a casa ormai cosciente che tutto quello che avevo dentro, che la molla che in Lager mi aveva tenuta viva - tornare per raccontare - era saltata - coscienza che alla mia necessita' di far sapere si opponeva la volonta' di non voler sapere" (Beccaria, inedito). * 10. La vita possibile Come ha scritto Primo Levi ne La tregua, l'incontro con la famiglia e' un momento topico per il reduce: "Sapevamo che sulle soglie delle nostre case, per il bene o per il male, ci attendeva una prova, e la anticipavamo con timore... dove avremmo attinto la forza per riprendere a vivere, per abbattere le barriere... Presto, domani stesso, avremmo dovuto dare battaglia contro nemici ignoti, dentro e fuori di noi... Ci sentivamo vecchi di secoli, oppressi da un anno di ricordi feroci, svuotati e inermi" (1963, p. 224). I momenti che precedono l'arrivo a casa sono carichi d'angoscia. Quale sara' l'accoglienza delle persone care dopo tutti quei mesi di distacco e come si potranno raccontare i giorni di prigionia senza sentirsi violate nel pudore e senza far troppo soffrire i parenti? Ma le domande che Lidia si pone sono superflue; nessuno le chiede nulla appena arriva in paese, anche se l'accoglienza e' si' calorosa: il fattorino della funicolare non le fa pagare il biglietto, un facchino le porta lo zaino senza farla pagare, un vicino la accompagna a casa e le racconta le ultime novita' del paese, ma nessuno si interessa alla storia di questa donna tornata a casa dopo un anno di prigionia. "Sembrava che avessero paura di sapere o meglio pensassero che alle spalle nascondessi una storia che era meglio 'non sapere', convinti di stendere un velo pietoso su un anno della mia vita che poteva anche nascondere cose che la gente per bene preferisce far finta di ignorare" (Beccaria, inedito). Beccaria ha avuto, una volta di piu', la prova che sarebbe stato impossibile raccontare. L'incontro con la famiglia e' un incontro "facile": la sorella le va incontro per strada, il papa' l'aspetta sull'uscio di casa, la madre resta dentro casa cercando di nascondere le lacrime, il fratello, appena la vede, le da' una pacca sulla spalla. Alla sua famiglia Lidia non raccontera' mai nulla, teme di non essere creduta, o peggio di far soffrire troppo i suoi cari qualora le credessero. Immagina di poter raccontare almeno dell'evacuazione, un evento simile ad altri racconti di guerra, ma le sue preoccupazioni sono vane. A tavola, con gli amici invitati a pranzo per festeggiarla, non riesce neanche a proferire parola, ad inserirsi nei discorsi; ancora una volta nessuno le domanda nulla della sua prigionia, nessuno si accorge del suo bisogno di parlare: "Capii che non avrei potuto raccontare. Non si racconta la fame, non si racconta il freddo, non si raccontano gli appelli, le umiliazioni, l'incomunicabilita', la disumanizzazione, il crematorio che fuma, l'odore di morte dei blocchi, la voglia di solitudine, il sudicio che entra nella pelle e si incrosta. Tutti hanno avuto fame e freddo e sono stati sporchi almeno una volta e credono che fame freddo e fatica siano uguali per tutti" (Beccaria, 1995, pp. 115-116). Nel racconto di Beccaria stupisce la mancanza di tatto di chi le sta attorno, la totale insensibilita' di fronte al suo appello muto ad essere ascoltata. Per lei non vale nemmeno quello che e' valso per altre deportate, ovvero la possibilita' di raccontare almeno alcuni episodi della prigionia e del viaggio di ritorno, quantomeno quelli che ricalcano la tipologia dei racconti di guerra a cui i familiari sono abituati. Quella di Lidia e' una "disperata presa di coscienza" (Cavaglion, 1991, p. 29) del fatto che la sua e' una storia che nessuno vuole ascoltare. Alla poca disponibilita' ad ascoltare delle persone piu' care si aggiungono altri due motivi di profonda amarezza: da un lato la totale indifferenza delle istituzioni, dall'altro quella che Vittorio E. Giuntella ha definito "incomprensione 'politica'" (1991, p. 110), ossia il rifiuto di ascoltare da parte degli stessi compagni partigiani. A Cuneo, pochi giorni dopo il suo ritorno a casa, Beccaria incontra il comandante partigiano di cui era stata la staffetta che le parla di se stesso ma "dimentica" di chiederle del suo arresto e della sua prigionia: "Non mi chiese di raccontare la mia storia. Non era eroica" (Beccaria, inedito). Un altro compagno partigiano, unico superstite di una famiglia sterminata ad Auschwitz, non le domanda nulla di Ravensbrueck. Ancora piu' grave e', pero', il disprezzo letto nelle parole di un altro importante comandante partigiano: "Deportata, cosa vuol dire? Le partigiane si sono fatte ammazzare, non si sono fatte prendere prigioniere" (Beccaria, 1991, pp. 32-33). E' un'umiliazione insopportabile per una donna che e' stata arrestata e deportata proprio perche' era una partigiana. Ma e' come se Beccaria non fosse in grado di reagire, e' come se reiterasse l'abitudine a incassare colpi, a subire umiliazioni, che aveva appreso nel Lager. All'incomprensione delle persone si affianca la latitanza delle istituzioni che dovrebbero sostenere il ritorno e il reinserimento dei sopravvissuti, almeno dal punto di vista sanitario e lavorativo. A pochi giorni dal suo ritorno Beccaria si reca al Provveditorato agli studi perche' vuole riprendere la sua professione di maestra. Dopo ore di anticamera il provveditore la fa accomodare nel suo ufficio e non appena lei inizia ad esporle il suo caso raccontandogli della deportazione, la interrompe con un viso che "esprimeva una noia profonda" (Beccaria, 1995, p. 123) e le comunica che non puo' presentare domanda come partigiana perche' e' in ritardo, mentre per le deportate non vi e' alcuna disposizione. Lidia esce dal colloquio infuriata, cosciente che la condizione di deportata non le da' nessun diritto e che anzi una figura come la sua non e' nemmeno presa in considerazione. "Ero tornata a casa abbattuta e arrabbiata, avevo capito, se mai ce ne fosse ancora stato bisogno, che la mia condizione di deportata, appena tornata a casa dai lager, era difficile da gestire: una donna non deve fare la guerra, non deve occuparsi delle cose degli uomini, non deve soprattutto pretendere di avere gli stessi diritti" (Beccaria, inedito). E' una discriminazione insostenibile: come scrive Frediani, "non si tratta di un semplice disagio esistenziale o psicologico. Quella che Lidia descrive e' una societa' incapace di accogliere le deportate o addirittura ingrata verso di loro" (Frediani, 2002, p. 312). Di fronte all'impossibilita' di insegnare, almeno per quell'anno, Beccaria decide di iscriversi all'universita'; neanche qui mancheranno le umiliazioni perche' si sente guardata con disprezzo anche dai professori, che la ritengono una privilegiata rispetto agli altri studenti. Il primo esame lo supera rispondendo ad una domanda semplicissima fattale da un professore per "aiutarla", il secondo esame le viene regalato come agli altri "suoi compagni partigiani". "Uscii umiliata, offesa e disgustata di me stessa perche' non avevo reagito, avevo accettato il ventidue e non lo avevo insultato" (Beccaria, inedito). Il distacco dalla societa' si fa sempre piu' forte: guardando le persone per strada Lidia sente di far parte di un altro mondo. Il colpo piu' duro arriva nella primavera del '46, quando scopre che non potra' votare alle elezioni per l'Assemblea Costituente e per il referendum istituzionale. Non potra' votare perche' e' maggiorenne soltanto da pochi giorni: "Avevo avuto il diritto di combattere in nome della liberta' e della democrazia, ma ero immatura per esprimere il mio voto" (Beccaria, 1995, 143). Si sente vittima di un'ingiustizia: "Quella delusione non mi giovo'. Tornarono gli spettri, gli incubi della notte, l'insofferenza per il mondo che mi circondava, la voglia di isolarmi". * 11. Solitudine Bruzzone sostiene in un suo saggio (1996, p. 36) che, per una deportata, il tempo del ritorno puo' considerarsi concluso quando ricomincia a vivere una vita simile a quella delle sue coetanee che non hanno subito la deportazione. La reazione di Beccaria di fronte all'indifferenza che la circonda e', in un primo momento, proprio questa: "Cercai di riprendere la vita normale, andai a ballare, a passeggiare sulla piazza, mi aggregai a gruppi che andavano in montagna" (Beccaria, inedito). Ma la sua e' una "normalita'" impossibile. Non riesce a inserirsi in un contesto in cui la deportazione e' vista come una "colpa", la colpa di non essersene stata a casa, dove dovrebbero stare le donne; il massimo che le e' concesso e' un ascolto distratto immediatamente accompagnato dalla preghiera di finirla di raccontare cose tristi. Un reinserimento nella comunita' appare impossibile. Tutto sembra essere rimasto uguale a prima, ma e' comunque una comunita' dalla quale le deportate sono, e si sentono, inevitabilmente escluse. L'emarginazione subita si trasforma in una tendenza ad isolarsi: "Non andavo in parrocchia, non avevo amiche, leggevo invece di sferruzzare, partecipavo alle conferenze dove si discuteva, la domenica stavo chiusa in casa, non andavo ai funerali, avevo accettato di lavorare per cento lire al giorno alla Camera del Lavoro" (Beccaria, 1995, p. 134). Attorno a lei, nonostante l'indifferenza ostentata, aleggia sempre il sospetto che le deportate che si sono salvate lo debbano soltanto al fatto di essersi prostituite per i tedeschi, e non manca una certa curiosita' morbosa in alcune insinuazioni o battute a doppio senso che i conoscenti le fanno sulla sua prigionia. Come la battuta di un amico che, vistala tornare dalla Francia con in braccio il nipotino, figlio della sorella emigrata, le chiede se per caso fosse andata a recuperare "il frutto del peccato". Di fronte a un tale clima di solitudine, incomprensione e ostilita', le deportate possono arrivare addirittura a ricordare con nostalgia i giorni trascorsi nel Lager: esemplare, in proposito, la testimonianza di Liana Millu (1991, p. 55) che ricorda di aver pensato con nostalgia al Natale trascorso nel Lager perche' lo ricordava piu' caloroso di quello presente in cui, seppur libera, era completamente sola e senza speranze per il futuro. * 12. Il silenzio Nell'estate del 1946 Beccaria e' in attesa di una nomina annuale come maestra. Ma e' una donna, una "maestrina" le cui opportunita' sono ben diverse da quelle degli uomini: "le leggi e i regolamenti persistevano e con essi i privilegi dell'essere maschio" (Beccaria, inedito). Il provveditore agli studi e' lo stesso che aveva rifiutato di accettare la sua domanda l'anno prima, un uomo fidato del fascismo che era riuscito a riciclarsi, un uomo che non esitava ad aggirare le graduatorie per favorire i suoi protetti. Finalmente le arriva la nomina: dovra' recarsi in un paesino delle Langhe, Baratta di Cravenzana. Nonostante la sede assai disagiata, Beccaria e' felice dell'incarico: ha finalmente la possibilita' di stare da sola, anche se sono molti i fantasmi che popolano la sua solitudine. "Imparai a tacere, a nascondere il mio passato per sentirmi come le altre, ma la provincia e' piccola e pettegola, dopo poco la mia storia rimbalzava, si creava una specie di curiosita' morbosa" (Beccaria, inedito). Ritorna di continuo il tema dello sfruttamento sessuale o della compiacenza. Indifferenti a un racconto fatto di fame freddo e privazioni, le "maestre imbevute di perbenismo" vorrebbero ascoltare i racconti "piccanti" di una prigioniera che e' stata nelle mani di aguzzini senza scrupoli e restano assai deluse delle risposte che Lidia da' alle loro domande ambigue. Questo atteggiamento sancisce immediatamente l'impossibilita' di inserirsi normalmente nella comunita'. Il fatto di essere un ex-deportata non influisce solo sul rapporto con le colleghe, ma anche su quello con i suoi superiori, che la considerano una donna troppo indipendente e poco seria, tanto che viene immediatamente trasferita. Nel frattempo viene rintracciata da un deportato di Cuneo che la accoglie nella sua casa come fosse una di famiglia. L'incontro con la madre di quest'uomo sara' fondamentale per Lidia che trovera' in lei, per la prima volta, una persona disposta ad ascoltarla con sincero interesse, senza pregiudizi; solo con lei potra' parlare della condizione della donna nel Lager. Sara' l'unica persona con la quale Lidia si aprira'. Nell'estate del 1948 Lidia vince il concorso a cattedra. In quell'anno entra per la prima volta nella sede dell'associazione degli ex deportati di Torino, ma l'impatto e' terrificante: si sente sprofondare nuovamente nell'atmosfera del Lager, ritornano gli incubi notturni. Non le resta che una scelta: "Per venir fuori da quella spirale pericolosa era meglio tacere, adeguarmi alla vita delle mie coetanee, pensare al futuro, agli esami, ai vestiti, alle vacanze, illudermi che Ravensbrueck non fosse esistito" (Beccaria, 1995, p. 184). Lidia si chiude in un silenzio totale, un silenzio che e' esso stesso testimonianza. Un silenzio che e' un'accusa nei confronti di chi non ha ascoltato, di chi non ha capito, di chi ha giudicato senza sapere. Un silenzio che durera' dieci anni. * 13. Rompere il silenzio Lidia, come abbiamo visto, sceglie il silenzio, ma il suo silenzio non e' oblio, non rappresenta un desiderio di dimenticare il Lager. Tacere e' un ripiego, un adeguarsi alla volonta' del tempo. In lei c'e' una vera e propria "vocazione" alla testimonianza che non puo' essere soddisfatta. Non resta che provare a vivere una vita "normale", ma il tentativo di cancellare Ravensbrueck si rivela un'impresa vana: "Per un po' mi illusi di aver cacciato i fantasmi, di aver cancellato la memoria, ma non fu cosi'" (Beccaria, 1995, p. 185). Per lunghi anni Lidia resta come sospesa; nonostante il lavoro, nonostante la famiglia, sente la profonda diversita' che la divide dagli altri: "La nostra sensibilita' nei rapporti col mondo e' diversa, io direi proprio che siamo diversi... il tempo dell'ex deportato e' uno solo, il presente che comprende il passato e il futuro" (Bruck, 1991, p. 80). Lidia vive lunghi anni in questa "terra di mezzo", doppiamente "diversa" perche' deportata e perche' donna. Il momento in cui il silenzio si spezza e' datato da un avvenimento preciso: la pubblicazione del libro Il flagello della svastica di Lord Russel, edito da Feltrinelli nel 1955. E' il primo libro in cui viene citato il campo di Ravensbrueck, il primo libro in cui e' sintetizzata la storia delle donne e dei bambini senza nessun accento ambiguo: "Aveva detto cose che io in dieci anni non avevo potuto dire o avevo detto senza essere creduta... Dopo avere letto e riletto e fatto leggere questo libro ho rotto il silenzio e ho incominciato a raccontare e a scrivere ovunque mi fosse concesso spazio. Dieci anni non avevano sopito la mia memoria, ne' il bisogno di raccontare, ora volevo la mia rivincita sul silenzio che mi era stato imposto e sull'indifferenza che aveva accolto la mia memoria" (Beccaria, 1991, p. 35). Anna Bravo ha scritto che Beccaria ha avuto due ritorni, "quello verso l'Italia, che si conclude nell'agosto del '45, quello verso se stessa, che si prolunga negli anni del dopoguerra" (Bravo, 1997, p. 47). Con il 1955 inizia una terza fase del ritorno di Lidia, quella in cui finalmente puo' assolvere all'imperativo morale che si era posta in Lager: la testimonianza. * 14. Insegnare la deportazione Il 1958 e' un'altra data importante nella biografia di Beccaria. Nel dicembre di quell'anno si tiene a Torino un convegno sulla memoria della deportazione. Sono molti i testimoni: Primo Levi, Alberto Todros. Beccaria e' la sola donna a parlare della propria esperienza di deportazione e a rispondere alle domande del pubblico. E' la prima volta che prende un microfono in mano ed e' terrorizzata. E' difficile rispondere alle domande di chi non conosce il Lager, di chi non lo ha vissuto, soprattutto se si e' donna, ma l'interesse dimostrato dal pubblico in quell'occasione si dimostra talmente vivo e sincero da far superare tutti i timori. E' in quella sede che nascera' l'idea degli incontri con le scuole. La testimonianza alle nuove generazioni diverra' per Lidia una vera e propria missione a cui adempira' senza soste per il resto della sua vita. Testimoniare nelle scuole coniuga il bisogno di raccontare la propria esperienza, per far conoscere quello che e' stato e sottrarlo all'oblio, con l'esigenza di fare del Lager un monito contro tutte le violenze. I primi anni sono i piu' difficili per Beccaria soprattutto perche' perdura lo stereotipo che vuole che la deportazione femminile implichi necessariamente lo sfruttamento sessuale. Nelle domande rivoltele durante gli incontri non mancano mai gli accenni a questo tema. E' un argomento che Lidia affronta con difficolta', memore delle varie insinuazioni che aveva dovuto subire nell'immediato dopoguerra; cerca di trattarlo attenendosi ai fatti di sua conoscenza, ma non e' ancora sicura di essere capita e di essere creduta. "Tuttavia la volonta' di testimoniare era cosi' importante e cosi' urgente che, nonostante le domande provocatorie e ambigue, continuai a testimoniare" (Beccaria, 1992, p. 223). Un'altra difficolta' e' rappresentata dal fatto che nei giovani vi e' un interesse quasi morboso per la sofferenza fisica: "C'era questa tendenza a farti raccontare gli episodi piu' tragici, piu' violenti, senza tener conto di quella che era stata tutta la struttura concentrazionaria" (Beccaria, 1992, p. 223). Le domande piu' ricorrenti riguardano i motivi per cui i deportati non si fossero ribellati, non avessero tentato la fuga o non si fossero suicidati: "Ci rendevamo conto che se quelle erano le domande noi non eravamo riusciti a far capire la realta' del mondo concentrazionario" (Beccaria, 1992, p. 228). In ogni caso la deportazione suscita un interesse profondo nei giovani e, nonostante le difficolta' nella comunicazione, gli incontri si moltiplicano. Non mancano le reazioni negative a questa nuova ondata di interesse, soprattutto di un certo tipo di stampa. In una pagina del "Candido", che Lidia ha conservato tra le pagine del suo Diario di prigionia, quasi e rendere ancora piu' evidente, per contrasto, la falsita' delle affermazioni contenute nell'articolo, Guareschi definisce gli incontri organizzati dai deportati una "Universita' dell'Odio". Nell'articolo c'e' anche un riferimento a una ex-deportata di Cuneo che non ha avuto remore nel rovinare la serena atmosfera del Natale portando in citta' la "Mostra della Deportazione". "Gli attacchi della stampa di destra non ottennero l'effetto sperato: la mostra sulla deportazione divento' itinerante, i colloqui coi giovani si moltiplicarono, i sopravvissuti si riappropriarono della loro memoria, impararono a raccontare" (Beccaria, inedito). E' proprio nella volonta' di conoscere dei giovani che Beccaria trova la forza di non arrendersi di fronte all'indifferenza della stampa e, soprattutto, dei presidi e degli insegnanti. In seguito a questi primi incontri con loro nasce in lei l'esigenza di studiare piu' a fondo la deportazione: "Mi sono resa conto proprio attraverso le conversazioni e i colloqui... di quanto fosse difficile parlare con gli interlocutori se non conoscevi a fondo la materia" (Beccaria, 1991, pp. 226 - 227). Nel suo archivio si trovano centinaia di pagine manoscritte in cui sono raccolti dati su moltissimi campi di sterminio, pagine e pagine di nomi, di date, di numeri. Per Beccaria, affinche' la testimonianza possa ritenersi valida, e' importante "avere conoscenze precise, anche se schematiche, di tutti i campi". Bisogna saper spiegare le differenze tra la deportazione politica e quella razziale, le differenze tra i vari campi e le differenze tra i deportati all'interno di uno stesso campo. Da questo studio nasce una vera e propria metodologia della testimonianza. Innanzi tutto il raccontare con un tono pacato, il piu' possibile distaccato, senza toni violenti e senza far leva sull'emotivita' di chi ascolta: "Con le armi che abbiamo in mano e' talmente facile commuovere... Non mi lascio mai prendere da tutto questo, perche' e' pericoloso, non lascia una traccia" (Bruzzone, 1997, p. 55). Beccaria non parla mai di avvenimenti che non conosce; non riempie mai i vuoti della testimonianza con i racconti di altri deportati; fa una netta distinzione tra gli avvenimenti vissuti personalmente all'interno di Ravensbrueck e quelli appresi attraverso la lettura o l'ascolto di altre testimonianze. La testimonianza viene affrontata con rigore scientifico introducendo gli ascoltatori alla storia dei campi di sterminio prima di parlare della propria esperienza. Anche quando parla di se stessa Lidia lo fa attenendosi il piu' possibile ai fatti essenziali: "Do' questa impostazione: io ero donna, sono finita in un campo di donne, e ho fatto l'esperienza peggiore che e' quella dell'ultimo anno" (Bruzzone, 1997, p. 57). E' questo un modo per introdurre gli aspetti specificamente femminili della deportazione. Quello che le preme e' soprattutto combattere l'immagine della deportazione legata solo agli aspetti sessuali dello sfruttamento: non nega che questi siano esistiti, ma insiste sulla loro marginalita'. Le preme comunicare ai ragazzi come, in realta', le donne fossero trattate alla stessa stregua degli uomini, senza nessun privilegio dovuto al sesso. Allo stesso tempo sottolinea la specificita' femminile di certe reazioni di fronte all'orrore dei Lager: "Non e' possibile vedere delle donne incinte arrivare al campo, lavorare dodici ore a pala e piccone con noi, e poi chiederti all'improvviso, quando non le vedi piu' dov'e' finito il neonato, che fine ha fatto. Queste emozioni le vivi da donna, non le vivi da uomo" (Bruzzone, 1997, p. 63). Nelle testimonianze di Beccaria non mancano mai le analogie tra il passato e il presente: "Io non vado la' solo per raccontare un qualcosa avvenuto nel passato e che non si ripetera' mai piu', che e' cancellato, perche' e' assolutamente vero. Vado la' per renderli piu' attenti a quello che sta avvenendo nel mondo attorno a loro" (Bruzzone, 1997. p. 66). Il collegamento con il presente non ha solo una funzione didattica. La testimonianza e' denuncia delle violenze passate e di quelle future. Il senso della testimonianza si snoda in due direzioni: da un lato comunicare la propria esperienza di donne e di combattenti, dall'altro non dimenticare che ogni giorno, in ogni parte del mondo, si perpetrano violenze nei confronti di persone inermi, violenze di fronte a cui il deportato non puo' chiudere gli occhi. Beccaria sa che sollecitare i collegamenti con il presente puo' essere rischioso, ma per lei la testimonianza e' un vero e proprio impegno politico e non avrebbe senso se non potesse attualizzarne di continuo il valore. Fa suo il monito di Primo Levi: "Meditare su quanto e' avvenuto e' un dovere di tutti... L'odio nazista... non possiamo capirlo; ma possiamo e dobbiamo capire da dove nasce e stare in guardia... conoscere e' necessario, perche' cio' che e' accaduto puo' ritornare" (Levi, 1993, p. 247). Non e' un caso che Beccaria abbia redatto, nei primi anni novanta, una serie di appunti sulla crescita del razzismo e sui casi di stupro etnico in Bosnia. La possibilita' di testimoniare nelle scuole rappresenta per lei anche una forma di riscatto per gli anni di silenzio a cui e' stata costretta e sono fonte di grande gratificazione l'ascolto attento degli studenti o le piccole attenzioni che le dimostrano che il suo messaggio e' arrivato al cuore di chi ascolta. Come ha scritto Bruzzone, quella di Beccaria e' stata "un'altissima lezione di metodo, sorretto da un'autentica istanza etica" (1997, p. 35). * 15. Ricominciare a scrivere Come sappiamo, il desiderio di scrivere nasce in Beccaria gia' all'interno del Lager. Sfidando la legge concentrazionaria, tiene un diario, scrivendo anche durante la marcia di evacuazione, tra i mitragliamenti e i bombardamenti: "Ho salvato quegli appunti con grande sacrificio - Negli ultimi giorni pesavano e li avrei buttati via volentieri - Ma erano le uniche cose che mi ricordavano il campo - Volevo portarle a casa e completarle" (Beccaria, inedito). Tornata a casa, si accorge che nessuno e' interessato alla sua testimonianza. Gli appunti vengono chiusi in un cassetto. Molti anni dopo, a causa di un'operazione all'anca sinistra che la costringe a letto per sei mesi, riprende in mano gli appunti "sbiaditi" e ricomincia a rielaborarne il contenuto: "Avevo molti anni in piu', un'esperienza diversa, le impressioni di allora diventano oggetto di meditazione, cercai di analizzare la realta' della citta' concentrazionaria con un certo distacco" (Beccaria, inedito). Anche questi scritti vengono riposti in un cassetto. Nella prima meta' degli anni '70 un altro intervento la costringe ad un ricovero in ospedale. E' arrivato il momento dei consuntivi. Lidia riprende ancora una volta in mano i fogli scritti nel corso degli anni e si rende conto che e' davvero venuto il momento di scrivere. "Ritento oggi - perche' dopo trent'anni? I motivi, sostanzialmente sono tre: I - Sono ancora ammalata e mi rendo conto che se voglio farlo devo farlo adesso e non domani - potrebbe essere troppo tardi. II - In questi tempi ho riletto quanto di piu' di impegnativo e' stato scritto sul campo" (Beccaria, inedito). Il foglio in cui era appuntato il terzo motivo e' andato perso, ma credo di poter affermare con certezza che il terzo motivo per cui Beccaria ha deciso di scrivere va fatto risalire all'uscita del film "Il portiere di notte" di Liliana Cavani. Lo si evince chiaramente dalle sue testimonianze. Per capire i motivi di Beccaria bisogna risalire al 1964. Il giorno prima di partire per Ravensbrueck per l'inaugurazione del sacrario, Lidia rilascia a Liliana Cavani un'intervista che avrebbe dovuto essere inserita in un episodio del documentario "La donna nella Resistenza", mandato in onda dalla Rai nel 1965. Dieci anni dopo Cavani gira "Il portiere di notte", un film che suscita lo sdegno di Beccaria per il modo in cui veniva affrontato il tema del rapporto fra carnefice e vittima. Contemporaneamente usci' il libro omonimo pubblicato da Einaudi. Nell'introduzione al libro Cavani scrive che nel 1965 aveva intervistato una partigiana di Cuneo che aveva trascorso tre anni a Dachau. La regista racconta di essere rimasta sconcertata da una dichiarazione di questa donna, che le aveva raccontato che, da quando era ritornata, trascorreva tutte le estati due settimane a Dachau: "Le chiesi perche' ci andava, perche' non andava invece il piu' lontano possibile. Non riusci' a rispondermi con abbastanza chiarezza (avrebbe dovuto essere Dostoevskij) ma la risposta, mi dicevo, la dava con quei suoi ritorni: la vittima anziche' il carnefice torna sul luogo dei delitti" (Cavani, 1975, p. 7). La deportata a cui si riferisce Cavani e' indubbiamente Beccaria: "Non corrispondevano invece le dichiarazioni che mi aveva messo in bocca... aveva bisogno di confessioni anche false... per suffragare la sua tesi altrimenti non sostenibile" (1992, p. 36). Lidia si arrabbia fortemente per la mistificazione fatta da Liliana Cavani, si sente fraintesa e nuovamente umiliata, come nei primi anni del dopoguerra. Vorrebbe reagire, vorrebbe sconfessare le dichiarazioni di Cavani. I compagni deportati le sconsigliano di farlo perche', data la fortuna avuta dal film, che aveva avuto le lodi anche della critica di sinistra, la polemica sarebbe servita soltanto a fare della pubblicita' gratuita all'opera: "Il ragionamento non faceva una grinza, funzionava sul piano dell'opportunita', ma io mi sentivo offesa per l'ennesima volta" (1992, p. 38). Si sente offesa come deportata e come donna, perche' questo genere di film e di letteratura offre una visione distorta della prigionia nei campi di sterminio, aumentando il disagio del ritorno e la difficolta' di raccontare, perpetuando allo stesso tempo gli stereotipi negativi di una societa' che aveva da subito guardato con sospetto e malizia le deportate. "Era giunto il tempo di scrivere la nostra storia" (Beccaria, 1992, p. 38). * Note 1. A Ravensbrueck la bande rouge o anweiserin e' la figura analoga al kapo'. * Fonti Archivio di Lidia Beccaria Rolfi: manoscritti inediti - Appunti di prigionia, 1944-1945. - 25 Aprile, appunti non datati per una relazione tenuta al Comune di Mondovi' in occasione del 25 aprile. - Correva l'anno 1946, appunti non datati sul mestiere di insegnante nel primo dopoguerra. - Diario di prigionia, 1944-1945. - Il ritorno, prima stesura de L'esile filo della memoria. - La memoria dopo il ritorno, dattiloscritto non datato. - Lettera a Nilde Iotti, 24 luglio 1991. - Perche' ho scritto, appunti non datati. - Primo incontro del comitato nazionale di Ravensbrueck, relazione introduttiva tenuta in occasione del convegno tenutosi a Torino nel febbraio del 1979. - Primo Levi, dattiloscritto non datato. - Riflessioni sul razzismo, breve diario sull'ondata di razzismo dei primi anni Novanta. - Santo Stefano, appunti su un ricovero in ospedale. * Bibliografia - Alan Adelson, a c. di, Il diario di Dawid Sierakowak. Cinque quaderni dal ghetto di Lodz, Torino, Einaudi, 1997. - Jean Amery, Intellettuale ad Auschwitz, Torino, Bollati Boringhieri, 1987. - Aned, a c. di, Bibliografia della deportazione, Milano, Mondadori, 1982. - Aned, a c. di, Storia vissuta. Dal dovere di testimoniare alle testimonianze orali nell'insegnamento della storia della seconda guerra mondiale, Milano, Franco Angeli, 1988. - Aned sezione di Roma, a c. di, Un silenzio nella storia. La liberazione dai campi e il ritorno dei deportati, Roma, Sabbadini Grafiche Sud, 1997. - Hannah Arendt, La banalita' del male, Milano, Feltrinelli, 1963. - Zygmunt Bauman, Modernita' e Olocausto, Bologna, il Mulino, 1999. - Lidia Beccaria Rolfi, L'esile filo della memoria, Torino, Einaudi, 1996. - Lidia Beccaria Rolfi, Anna Maria Bruzzone, Le donne di Ravensbruck. Testimonianze di deportate politiche italiane, Torino, Einaudi, 1978. - Lidia Beccaria Rolfi, Bruno Maida, Il futuro spezzato. I nazisti contro i bambini, Firenze, La Giuntina, 1997. - Anna Bravo, a c. di, Donne e uomini nelle guerre mondiali, Bari, Laterza, 1991. - Anna Bravo, Anna Maria Bruzzone, In guerra senz'armi. Storie di donne. 1940-1945, Bari, Laterza, 1995. - Anna Bravo, Daniele Jalla, a c. di, La vita offesa. Storia e memoria dei Lager nazisti nei racconti di duecento sopravvissuti, Milano, Franco Angeli, 1987. - Anna Bravo, Lucetta Scaraffia, Donne del '900, Firenze, Liberal Libri, 1999. - Pietro Caleffi, Si fa presto a dire fame, Milano, Mondadori, 1967. - Alberto Cavaglion, a c. di, Primo Levi. Il presente del passato, Milano, Franco Angeli, 1993. - Alberto Cavaglion, a c. di, Il ritorno dai Lager. Convegno internazionale, 23 novembre 1991, Milano, Franco Angeli, 1993. - Federico Cereja, Brunello Mantelli, a c. di, La deportazione nei campi di sterminio nazisti, Milano, Franco Angeli, 1986. - Consiglio regionale del Piemonte, Aned, a c. di, Storia vissuta. 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