Voci e Volti della Nonviolenza N° 367 del 31 agosto 2009 e N° 368 del primo settembre 2009 1. Giuliano Pontara: Definizione di Violenza e Nonviolenza nei Conflitti Sociali (1977) [Riproduciamo di seguito ancora una volta la prima parte (pp. 2-14) dell'opuscolo di Giuliano Pontara, Il satyagraha. Definizione di violenza e nonviolenza nei conflitti sociali, Edizioni del Movimento Nonviolento, Perugia 1983; opuscolo che a sua volta riproduce senza alcuna modifica l'intervento di Giuliano Pontara dal titolo "Definizione di violenza e nonviolenza nei conflitti sociali" alle pp. 59-80 del libro di autori vari: Movimento Nonviolento, Marxismo e nonviolenza, Editrice Lanterna, Genova 1977] Non credo di andare molto lontano dal vero affermando che l'atteggiamento del marxismo nei confronti della violenza e' tuttora fortemente influenzato dal detto marxiano che la violenza e' l'ostetrica della storia; che essa, come dice Engels, e' lo strumento con cui lo sviluppo sociale si apre la strada abbattendo le vecchie e pietrificate forme politiche e creando cosi' lo spazio politico per il sorgere di piu' adeguate o piu' aperte strutture e relazioni sociali. A questo modo di vedere la violenza, si oppone quello che fa valere come quanto di positivo si e' verificato nella storia sia avvenuto non grazie alla violenza, ma nonostante la violenza, in quanto essa non fa che sostituire vecchie e chiuse istituzioni repressive e autoritarie con nuove istituzioni e strutture altrettanto repressive e autoritarie, e come essa, lungi dall'essere l'ostetrica della storia, mostri oggi di poterne facilmente diventare il becchino. A questo modo di vedere la violenza, si affianca l'idea che vi sono alternative di lotta nonviolenta le quali, in quanto libere dai rischi o dalle conseguenze negative della violenza, in quanto moralmente superiori ad essa, e in quanto danno sufficienti garanzie di successo nella lotta politica per la realizzazione di obiettivi desiderabili e giusti, debbono essere studiate e prese in considerazione con la massima serieta', perche' da cio' puo' dipendere se il conflitto di classe negli anni a venire sbocchera', per usare le parole di Marx, 'o in una ricostruzione rivoluzionaria della societa' nella sua interezza, oppure nella comune rovina delle classi in lotta". Marxismo e nonviolenza: due dottrine profondamente connesse con la realta' storica in cui viviamo: il marxismo come denuncia (oltre che analisi) delle innumerevoli forme di degradazione dell'uomo connesse con il sistema di produzione capitalistico, e come proposta di una alternativa umana ad esso, il socialismo. La nonviolenza come denuncia delle forme spaventose che la violenza ha assunto nell'era atomica, come denuncia delle condizioni disumane connesse con l'uso della violenza, anche quella rivoluzionaria al servizio del socialismo, e come proposta di una alternativa ad essa - la modalita' di lotta satyagraha. Si tratta di concezioni che, in quanto corrispondenti ambedue a determinati e impellenti problemi, non possono ignorarsi a vicenda ma sono destinate a misurarsi sia nella sfera della teoria sia in quella della pratica - come del resto e' gia' in parte avvenuto. Sia chiaro che il marxismo non si trova oggi a doversi misurare con il tradizionale pacifismo assolutistico, utopistico, spesso apolitico, contro il quale avevano buon giuoco le critiche, per altro assai affrettate, di Lenin e Trotckij. La posizione nonviolenta con cui il marxismo si trova oggi a dover fare i conti e' una posizione che ben poco ha in comune con il pacifismo tradizionale, di origine borghese. In essa si incontrano, e si stanno tuttora elaborando, certe idee del pacifismo socialista, certi spunti della dottrina anarchica e anarchico-sindacalista, e il pensiero e l'esperienza politica di Gandhi, il tutto messo a confronto con i problemi creati dall'odierno capitalismo e industrialismo, nonche' con le esperienze acquisite dalle lotte violente di liberazione, e in modo particolare quella del popolo cinese e quella del popolo vietnamita. Non e' possibile in questa sede mettere a confronto, sulla base di un dettagliato esame, la dottrina marxista e la dottrina nonviolenta. Il compito che mi propongo e' quello molto piu' circoscritto di chiarire i concetti di violenza e di nonviolenza, sui quali non si puo' dire sia stata fatta sufficiente luce. Una tale chiarificazione e' di notevole importanza tra l'altro perche' costituisce uno dei presupposti per una piu' razionale discussione - e presa di posizione - sul problema dei rapporti fra marxismo, violenza e nonviolenza. Inoltre, e' soltanto dopo che si sono sufficientemente chiariti i vari significati attribuibili a questi termini, che si potra' cominciare a discutere, senza fraintendimenti, il problema concernente l'efficacia della violenza come mezzo di lotta rivoluzionaria per il socialismo, e quello concernente l'efficacia e la possibilita' dell'alternativa nonviolenta. * 1. Criteri di una adeguata definizione dei termini "violenza" e "nonviolenza" I termini "violenza" e "nonviolenza" sono dei termini notoriamente vaghi e dei quali e' possibile dare, entro certi limiti di proprieta' semantica, diverse definizioni, ciascuna delle quali, presa di per se', astrattamente, senza un determinato contesto cui riferirla, non e' ne' migliore ne' peggiore delle altre. Non vi e', infatti, qualcosa come la "vera" o la "corretta" definizione di un termine, preso per se'. Il criterio di scelta fra le varie definizioni possibili di un certo termine consiste nel mostrare quale di esse sia la piu' adeguata o rilevante o chiarificatrice relativamente ad un certo contesto o a certi scopi. E la stessa definizione che e' adeguata o chiarificatrice relativamente ad un certo contesto, puo' rivelarsi del tutto irrilevante o assai poco chiarificatrice in relazione ad un altro. Vediamo allora di stabilire subito il contesto relativamente al quale ci interessa qui chiarire i termini "violenza" e "nonviolenza". * a) Stabiliamo anzitutto che cio' che qui ci interessa e' il termine "violenza" come nome di una classe o insieme di metodi per affrontare e condurre i conflitti di interessi fra gruppi. In questa sede non ci interessa, ovviamente, la violenza come mezzo per dirimere conflitti puramente individuali, per esempio nella classica forma del duello (anche se lo studio del duello come metodo istituzionalizzato per dirimere certi conflitti puo' aiutarci a capire la guerra come metodo istituzionalizzato per dirimere le grandi contese fra gruppi), o quella con cui un individuo si difende dalla aggressione di un ubriaco. Cio' che qui ci interessa e' la delimitazione di una certa classe di azioni, o modi di agire, o attivita' compiute o minacciate da un gruppo di persone nei confronti di un altro gruppo in una situazione conflittuale acuta: insomma un certo metodo di lotta politica. Cio' significa che "violenza" in quanto termine riferentesi ad un insieme di metodi, modalita' o tecniche di lotta politica, deve essere tenuto distinto da termini quali "sfruttamento", "ingiustizia", i quali non si riferiscono a metodi di lotta, cioe' a determinate attivita', bensi' si riferiscono a determinate relazioni che sussistono, o possono sussistere, fra persone o gruppi di persone. Affinche' si dia violenza, nella presente determinazione del concetto, occorre che vi sia una persona o gruppo identificabile come fautore di essa, e altresi' una persona o un gruppo identificabile come la vittima di essa. Ma condizioni di sfruttamento ed ingiustizia possono essere individuate senza dover individuare alcuna persona o gruppo come gli autori o i promotori di esse, dato che sfruttamento e ingiustizia sono connaturati a certe strutture e non e' possibile individuare questa o quella persona o gruppo di persone come i diretti responsabili di esse. (Taluni hanno proposto in seguito a cio' di riferirsi a tali condizioni di sfruttamento e ingiustizia col termine di "vi olenza strutturale". Non intendo involgermi con costoro in una disputa che ha tutta l'aria di diventare puramente verbale. Posso solo dire che non ho, per parte mia, particolari difficolta' ad accettare tale termine, posto che la distinzione teste' accennata rimanga chiara. In tal caso si potra' riferirsi alla violenza che qui ci interessa, cioe' alla violenza come attivita' o metodo di lotta, con il termine "violenza personale" o forse meglio, dato che l'aggettivo "personale" puo' facilmente far pensare alla violenza individuale - mentre quella che qui ci interessa e' la violenza di gruppo -, con il termine "violenza pragmatica". Chi preferisse tale terminologia dovra' tenere presente che tutto quanto diro' in questo scritto riguarda la violenza personale o pragmatica). * b) La violenza e' - anche per comune consenso - un male o qualcosa di negativo. Su questo punto non vi e' il minimo dubbio che esiste un accordo completo fra marxisti e nonviolenti. Il culto della violenza come qualcosa di positivo in se' e' qualcosa che giustamente i piu' considerano aberrante: e non e' un caso che sia una delle componenti della ideologia fascista. Nulla di piu' tendenzioso che ascrivere al marxismo, come fanno certi critici borghesi, un tale atteggiamento nei confronti della violenza. Il marxista non ha - o comunque non dovrebbe avere - alcuna difficolta' a sottoscrivere il principio morale che, ceteris paribus, di tanto il mondo e' migliore di quanto in esso diminuisce la violenza. Ma occorre sottolineare che accettare questo principio non significa dover rifiutare la violenza come male assoluto, come qualcosa di ingiustificabile in qualunque tempo e luogo. Quest'ultima e' la posizione del pacifismo assolutistico, la quale pero', occorre di nuovo sottolineare, non si identifica con la posizione nonviolenta - almeno come quest'ultima e' concepita nel presente scritto. Il disaccordo fra marxisti e nonviolenti - in quanto distinto dal disaccordo fra marxisti e pacifisti assolutistici - non e' tanto un disaccordo di natura normativa, quanto piuttosto un disaccordo di natura fattuale, empirica. Esso infatti, come ho teste' fatto notare, non riguarda il valore negativo, la indesiderabilita' della violenza in quanto tale; esso concerne piuttosto in parte le reali possibilita' che l'uso della violenza presenta, soprattutto oggi, di condurre alla realizzazione di fini desiderabili - com'e' il socialismo - cioe', da ultimo, alla realizzazione di certi valori fondamentali sui quali vi e' accordo; in parte l'efficacia e la possibilita' delle alternative nonviolente come mezzi per raggiungere quel fine (1). * Come il termine "violenza", anche quello di "nonviolenza", in quanto termine contrario del primo, sta qui a denotare un insieme di mezzi o tecniche di lotta politica i quali, proprio in virtu' del fatto di essere caratterizzati dalla assenza di violenza, di tanto sono di per se' moralmente superiori o preferibili ai primi, di quanto la violenza, da cui essi sono per definizione liberi, e' un male. Ed e' proprio in forza di questa superiorita' morale - e perche' mai altrimenti? - che e' cosa della massima importanza stabilire, con la maggiore accuratezza possibile, se e in che misura e a quali condizioni i metodi di lotta nonviolenta possono porsi come efficaci alternative a quelli di lotta violenta in quei tipi di situazione conflittuale in cui sino ad oggi si e' di regola ricorso all'uso della violenza, ed in modo particolare quali possibilita' vi sono di condurre in modo nonviolento la lotta rivoluzionaria per una piu' umana societa'. * Il fatto che la distinzione fra mezzi di lotta violenta e mezzi di lotta nonviolenta sta qui ad indicare una distinzione di ordine morale, per cui i secondi sono di per se' moralmente preferibili ai primi, e' di fondamentale importanza ai fini di stabilire un criterio di adeguatezza o rilevanza di una definizione dei termini in esame. Soltanto una definizione dei due termini, la quale renda conto in modo sufficientemente chiaro della distinzione morale che nel presente contesto si assume, sara' una definizione chiarificatrice, adeguata o rilevante, o, come anche diro', ragionevole da un punto di vista normativo. Si badi che cio' non comporta che si debba assumere sotto il concetto di violenza ogni azione o tipo di azione che e', o si ritiene sia, moralmente biasimevole, errata o ingiustificabile, come ad esempio il mentire o il venir meno ad una promessa, ecc. Di una accezione cosi' lata del termine "agire violento" per cui esso diventa sinonimo di "agire moralmente ingiustificabile" non sapremmo cosa farcene, anche perche' esso non ci permetterebbe piu' di porre la questione, che tutti riteniamo essere una questione sensata e importante, se e in quali circostanze l'uso della violenza sia moralmente giustificabile. Si tratta qui di circoscrivere i concetti di violenza e nonviolenza in modo tale che, mentre l'uso di mezzi di lotta violenti comporta l'inflizione di un male (rimanendo pero' aperta la questione se l'inflizione di esso sia mai - e in caso di risposta affermativa, a quali condizioni - moralmente giustificabile), l'impiego di mezzi nonviolenti non comporta l'inflizione di esso. * 2. Violenza fisica attiva e modalita' di lotta non militare Fermo restando quanto appena chiarito, si tratta ora di cercare di stabilire le condizioni necessario e sufficienti dell'agire violento (e per implicazione dell'agire nonviolento), vale a dire cio' che e' essenziale e tipico di tutta una classe di attivita' di gruppo in situazioni conflittuali acute. Grosso modo si possono distinguere tre concetti di violenza, o tre definizioni del termine "violenza'", che ora passo a delucidare, partendo dalla piu' ristretta. Siano A e B due gruppi di persone: la prima nozione di violenza puo' essere chiarita nel modo seguente: Definizione D1: A usa violenza nei confronti di B, se, e solo se, sono soddisfatte le seguenti quattro condizioni: 1) A uccide B, oppure infligge a B delle sofferenze o lesioni fisiche; 2) A fa cio' contro la volonta' di B; 3) A fa cio' intenzionalmente; 4) A fa cio' mediante l'uso della forza fisica. Cioe': violenza e' l'intenzionale e coatta uccisione o inflizione di sofferenze o lesioni fisiche mediante l'uso della forza fisica. Ciascuna delle quattro condizioni elencate richiederebbe, al fine di essere compiutamente precisata, un lungo discorso a parte. Qui, per ovvie ragioni di spazio, mi limitero' a fare alcune osservazioni sulla quarta per poi concentrare il mio discorso esclusivamente sulla prima che ritengo essere la piu' problematica. La seconda e la terza non le discuto. Faccio soltanto notare che di esse, la seconda e' introdotta in quanto si vuole tenere distinto un atto di violenza, in quanto male, da un atto con cui una persona convince un'altra ad accettare certe sofferenze. La terza e' introdotta in quanto si vuole tenere distinta un'azione violenta dall'azione di colui che infligge un male ad un'altra persona senza minimamente volerlo o senza sapere che fa cio', come e' il caso nella situazione in cui un automobilista investe del tutto inavvertitamente un pedone. Inoltre la condizione 3) serve a rendere esplicito il fatto che nel presente contesto "violenza" sta a denotare un insieme di tecniche di lotta che, appunto in quanto tecniche, sono presumibilmente scelte e impiegate in modo del tutto deliberato, cioe' intenzionalmente. La nozione di violenza circoscritta dalla definizione D1 e' una nozione assai comune e alla quale possiamo riferirci, per ragioni che diverranno chiare man mano che si procede nella lettura di questo intervento, come alla nozione di violenza fisica attiva, ove l'aggettivo "fisica" si riferisce a quanto stabilito dalla condizione 1), e l'aggettivo "attiva" si riferisce a quanto stabilito dalla condizione 4). Sul piano dei rapporti conflittuali fra gruppi la forma che la violenza, nella presente accezione del termine, di regola assume e' quella della violenza militare (eserciti regolari, guerriglia, milizia popolare, gruppi terroristici) (2). A questa nozione ristretta di violenza, corrisponde una nozione assai lata di nonviolenza per cui il termine sta a designare tutte le tecniche di lotta esenti dalla violenza fisica attiva. Di nuovo, sul piano dei rapporti conflittuali fra gruppi, tali tecniche di lotta si identificano in pratica con le svariate modalita' di lotta non armata (boicottaggio, scioperi, noncollaborazione, certe forme di sabotaggio, ecc.). E' opportuno riferirsi a questa lata nozione di nonviolenza con il termine "modalita' o tecnica di lotta non militare" (3). * 3. Violenza fisica e lotta incruenta Una seconda e piu' lata nozione di violenza la si ottiene abolendo la condizione 4) della definizione D1, cioe' quella che richiede che per parlare di violenza vi sia l'impiego della forza fisica, o addirittura della forza fisica in notevole misura (vedi cit. da Miller alla nota 2). Vi sono buone ragioni, nel presente contesto, per abolire tale condizione. Si consideri il seguente caso. Il gruppo A ha per un certo periodo aiutato il gruppo B mediante regolari spedizioni di viveri e medicinali. In seguito all'acuirsi di un conflitto fra i due gruppi, e come modo di condurre quel conflitto ad una soluzione vantaggiosa per se', il gruppo A decide di sospendere ogni aiuto al gruppo B, cioe' omette di fare le consuete spedizioni di viveri e medicinali intendendo con cio' costringere il gruppo B a cedere per fame o altre sofferenze che la mancata spedizione di viveri e medicinali comporta per i membri di esso. In tal caso il gruppo A, in quanto infligge intenzionalmente delle sofferenze fisiche a membri del gruppo B contro la loro volonta', soddisfa le tre prime condizioni della definizione D1, ma in quanto omette di fare certe azioni non usa, ovviamente, alcuna forza fisica e quindi non soddisfa la condizione 4), dal che consegue che esso non usa violenza nei confronti del gruppo B. Ma e' ragionevole cio'? Non mostra questo esempio con tutta chiarezza che la condizione 4) e' del tutto gratuita? Se, come si diceva sopra, la violenza e' un male, che differenza vi e' mai, da un punto di vista morale, tra il caso in cui il gruppo A infligge intenzionalmente e in modo coatto delle sofferenze fisiche al gruppo B mediante l'uso della forza fisica, e il caso, appena descritto, in cui il gruppo A infligge le stesse - o anche maggiori - sofferenze fisiche a B senza che vi sia il minimo impiego di forza fisica? Cio' che e' male, cio' che e' negativo, e' infliggere intenzionalmente delle sofferenze o delle lesioni fisiche a membri del gruppo B contro la loro volonta'; mentre il fatto che cio' avvenga mediante l'uso della forza fisica o meno e' un fattore del tutto irrilevante, a meno che non si voglia sostenere la tesi - in verita', assai peregrina - che la forza fisica sia di per se' un male che si aggiunge a quello delle sofferenze che si infliggono e a quello che eventualmente si puo' ascrivere all'intenzione di infliggerle. Quanto sin qui detto si applica altrettanto bene, mutatis mutandis, alla distinzione fra l'uccidere o l'infliggere ad altri sofferenze o lesioni fisiche direttamente mediante interventi sul loro corpo, e l'infliggere ad essi tali mali indirettamente, mediante interventi, o non interventi, sulle cose da cui la loro integrita' fisica dipende (avvelenando l'acqua che bevono, l'aria che respirano, il cibo che mangiano, o distruggendo i loro raccolti, ecc. ecc.). Non si vede, di nuovo, che rilevanza morale possa avere il fatto che membri del gruppo B siano uccisi o vengano ad essi inflitte delle sofferenze o delle lesioni fisiche in modo diretto piuttosto che indiretto, siano uccisi in un bombardamento o muoiano di inedia in seguito alla distruzione dei loro raccolti o all'allagamento dei loro campi. Possiamo riferirci alla nozione di violenza che si ottiene ritenendo soltanto le prime tre condizioni della definizione D1 con il termine "violenza fisica". All'occorrenza si potra' poi, in seguito a quanto detto sopra, distinguere fra violenza fisica diretta e violenza fisica indiretta, e parimenti fra violenza fisica attiva (perpetrata cioe' mediante l'uso della forza fisica o di strumenti che in qualche modo aumentano la nostra forza fisica) e violenza fisica passiva (perpetrata senza l'impiego di alcuna forza fisica). Ma sia chiaro che tali distinzioni non rispecchiano alcuna distinzione di ordine morale; tanto e' vero che sono pensabili situazioni in cui la violenza fisica indiretta o la violenza fisica passiva sono peggiori (piu' cattive) della violenza fisica diretta o della violenza fisica attiva (cioe' situazioni in cui distruggendo certe cose o tralasciando di fare certe azioni si provocano maggiori sofferenze o lesioni fisiche che non intervenendo direttamente e con l'uso della forza fisica sul corpo delle vittime). * A questa nozione piu' lata di violenza corrisponde una nozione di nonviolenza piu' ristretta della prima che sopra ho proposto di chiamare modalita' di lotta non militare. Per distinguerla da quella, possiamo riferirci all'insieme di tecniche di lotta esenti da violenza nella presente accezione con il termine "tecniche o modalita' di lotta incruenta". Risulta chiaro ora come possa benissimo darsi che certe modalita' di lotta non militare debbano comunque ragionevolmente essere caratterizzate come forme di lotta violenta. Se, ad esempio, certe forme di boicottaggio, di sabotaggio e di sciopero effettivamente comportano delle sofferenze fisiche o la morte per delle persone del gruppo contro cui esse sono dirette (o anche per terzi), e se tali tecniche vengono deliberatamente impiegate allo scopo di infliggere tali mali, allora le tre condizioni della violenza fisica sono soddisfatte e tali tecniche sono esempio di modalita' di lotta non militare ma comunque violenta. Tuttavia, in base al principio morale sopra accennato - per cui, ceteris paribus, quanto piu' diminuisce la violenza nel mondo, tanto migliore il mondo diventa -, e in virtu' del fatto che vi sono buone ragioni per supporre che la violenza connessa con l'impiego di tecniche di lotta non militare e' di regola minore (sia in intensita', sia in estensione) di quella coinvolta nell'uso della forza armata, risulta pur sempre cosa della massima importanza indagare sulle possibilita' che le tecniche di lotta non militare - anche se talora violenta - hanno di porsi come valida alternativa alle varie forme di lotta militare. * 4. Violenza e a-violenza La precedente nozione di violenza puo' a sua volta essere fatta oggetto di critica dalla quale scaturisce una terza e ancor piu' lata concezione. La critica questa volta si concentra sulla condizione 1) della definizione sopra messa in rilievo, cioe' sulle nozioni di sofferenza e lesione cui ivi si fa esplicito riferimento. Cominciamo con la prima. Chiunque ha avuto esperienza di uno stato di profonda angoscia o disperazione (per esempio in seguito alla notizia della morte di una persona cara, o in seguito alla notizia che essa o lui stesso sono affetti da una malattia incurabile) converra', credo, che vi sono sofferenze "psicologiche" peggiori di certe sofferenze fisiche (4). Ma se e' cosi', non sara' allora, di nuovo, del tutto gratuito, da un punto di vista morale, sussumere sotto il concetto di violenza (giudicata come un male) soltanto l'inflizione intenzionale e coatta di sofferenze fisiche, magari implicando che l'inflizione intenzionale e coatta di sofferenze psicologiche sarebbe una forma di nonviolenza (cioe' qualcosa di eticamente superiore, preferibile alla inflizione di sofferenze fisiche)? (5). Si supponga che il gruppo A, coinvolto in un acuto conflitto con il gruppo B, decida di condurre quel conflitto ad una soluzione vantaggiosa per se' impiegando un gas che, pur non causando alcuna sofferenza fisica, induce nei membri del gruppo B degli stati di intensa angoscia accompagnati da sintomi nervosi spiacevoli ma non fisicamente dolorosi. E si supponga inoltre che i membri del gruppo B affetti da tali stati di angoscia e sintomi nervosi preferiscano ad essi delle sofferenze fisiche anche se di una certa intensita'. Orbene, in base a quali mai considerazioni si potra' ragionevolmente negare che in tal caso il gruppo A ha impiegato la violenza nei confronti del gruppo B? Se vi sono stati di sofferenza psicologica che sono altrettanto e magari ancor piu' indesiderabili (e indesiderati) di certi stati di sofferenza fisica, perche' mai la provocazione intenzionale e coatta dei primi non sara' violenza, quando lo e' quella dei secondi? Nel preciso momento in cui il soldato uccide il marito dinanzi alla moglie impotente ad impedirglielo, senza alzare una mano su di essa ma provocando ad essa una atroce sofferenza psicologica, commette ovviamente violenza, non soltanto nei confronti dell'uomo ucciso, ma anche nei confronti della di lui moglie se, come qui si suppone, egli causa ad essa quelle sofferenze intenzionalmente. Insomma, cio' che e' moralmente rilevante e' che si infliggono intenzionalmente e in modo coatto delle sofferenze a delle persone (o piu' in generale ad esseri senzienti), mentre il fatto che le sofferenze inflitte siano fisiche piuttosto che psicologiche sembra avere altrettanto poca rilevanza morale quanto il fatto che quelle sofferenze siano mflitte mediante l'uso della forza fisica piuttosto che senza di essa (6). E' pertanto altrettanto importante individuare la violenza psicologica quanto lo e' individuare la violenza fisica. Il discorso sulla violenza psicologica non finisce tuttavia qui, giacche' vi sono ragioni di introdurre nella prima condizione della definizione D1 il concetto di lesione psicologica in quanto distinta, ma moralmente altrettanto se non ancor piu' importante, della lesione fisica. Il riferimento esplicito alla nozione di lesione fisica nella prima condizione della definizione D1 e' dovuto al fatto che, almeno di primo acchito, non parrebbe potersi escludere la possibilita' del verificarsi di situazioni in cui si producono delle menomazioni sul corpo di altri (cioe' si viola l'integrita' fisica di una o piu' persone) senza che si debba necessariamente infliggere ad essi sofferenza alcuna. Tuttavia, a ben guardare, la possibilita' che si verifichino situazioni di tal fatta parrebbe variare a seconda che per sofferenze si intenda soltanto sofferenze fisiche oppure anche sofferenze psicologiche. Che', se si possono facilmente immaginare situazioni in cui si producono delle lesioni fisiche senza che si producano nella stessa persona delle sofferenze fisiche, assai piu' difficile e' immaginare che si verifichino situazioni in cui si producano delle lesioni fisiche (escludiamo qui la morte istantanea), o almeno delle lesioni fisiche di una certa gravita (mutilazioni) senza provocare in quella persona delle sofferenze psicologiche (disperazione, ansia, stato di depressione profonda nel prendere coscienza della lesione provocata). Dal momento che qui, come si e' chiarito sopra, operiamo con l'idea che le sofferenze psicologiche siano altrettanto rilevanti, da un punto di vista morale, quanto quelle fisiche, parrebbe, dunque, che il riferimento esplicito alla nozione di lesione fisica che ricorre nella condizione 1) della D1 sia ridondante. Rimane tuttavia il concetto di lesione psicologica. Si consideri il seguente esempio. Si supponga che il gruppo A impieghi come metodo di lotta contro il gruppo B, con il quale si trova coinvolto in un conflitto acuto, un gas che non e' ne' mortale, ne' tale da produrre sofferenze, fisiche o psicologiche che siano, anzi induca nei membri del gmppo B uno stato di piacevole euforia. Si supponga ulteriormente che si tratti di un gas che ha l'ulteriore effetto di diminuire o paralizzare o distruggere completamente la capacita' di giudizio e volonta' autonomi dei membri di B, talche', in seguito al suo impiego da parte di A, essi si sottomettono docilmente a tutte le richieste di A. Il conflitto e' stato risolto in modo del tutto incruento ma a prezzo della autonomia dei membri di B, i quali sono ora in uno stato di totale eteronomia o condizionamento simile a qqello in cui si trova il personaggio orwelliano alla fine del romanzo 1984. Orbene, pur trattandosi di un metodo di lotta del tutto incruento (l'uso del gas non produce per ipotesi mortalita' o sofferenza alcuna), certuni sosterranno tuttavia trattarsi di una chiara forma di violenza psicologica. E potranno sostenere cio' in base al seguente ragionamento. L'autonomia dell'individuo, intesa come tratto del carattere o della personalita' umana, e' qualcosa che ha un valore intrinseco positivo, qualcosa cioe' di buono o desiderabile in se', e non soltanto in funzione delle conseguenze positive cui essa generalmente conduce. La diminuzione, paralizzazione, distruzione o il soffocamento di essa comporta pertanto l'inflizione di un male che da un punto di vista morale non si diversifica da quello che si infligge allorche' si provocano delle sofferenze o la morte. Pertanto (e tenendo presente che cio' che qui ci interessa e' una definizione moralmente rilevante del termine "violenza", una definizione, cioe', per cui la distinzione fra tecniche violente e tecniche nonviolente stia ad indicare una chiara superiorita' morale delle seconde sulle prime), se l'inflizione intenzionale e coatta di sofferenze (fisiche o psicologiche) e di lesioni fisiche (con la morte come caso limite) e' violenza, tale sara' anche l'inflizione intenzionaie e coatta di lesioni psicologiche del tipo indicato. Se si riconosce che tali lesioni psicologiche sono un male, qualcosa di indesiderabile come lo e' uno stato di sofferenza, allora non vi e' alcuna superiorita' morale nella inflizione intenzionale di esse tale da giustificare l'esclusione di essa dal concetto di violenza e la sua eventuale assunzione sotto quello di nonviolenza. * Per parte mia sono incline ad accettare queste considerazioni come valide e pertanto a sottoscrivere una concezione lata di violenza per cui il termine sta a denotare una modalita' o un insieme di mezzi di lotta caratterizzati dall'inflizione intenzionale e coatta di sofferenze fisiche o psicologiche, o di lesioni fisiche (con la morte come caso limite) o psicologiche (con la soppressione totale dell'autonomia - morte psicologica - come caso limite). La rilevanza o adeguatezza di tale definizione relativamente al contesto che qui ci interessa risulta dal fatto che la violenza viene cosi' ad essere identificata con l'inflizione di cio' che d' un male intriseco personale. Uccidere, provocare sofferenze e lesioni (in quest'ultimo caso specialmente psicologiche) comporta causare cambiamenti intrinsecamente cattivi nelle persone. Dal momento che sono incline ad accogliere l'idea che non vi sono altri cambiamenti, nelle persone, che sono intrinsecamente cattivi, ossia che non vi sono altri mali intrinseci personali, e dal momento che, come ho chiarito all'inizio di questa sezione, cio' che qui ci interessa e' la violenza intesa come modalita', o insieme di mezzi di lotta usati od usabili da certe persone contro altre persone (la cosidetta violenza sulle cose o sulle istituzioni ci interessa qui soltanto in quanto comporta violenza sulle persone - cioe', soltanto come violenza indiretta), concludo che, almeno nel presente contesto, il concetto di violenza non puo' ragionevolmente essere ulteriormente allargato. A questo terzo concetto lato di violenza corrisponde una terza, ristretta nozione di nonviolenza; lottare in modo nonviolento significa ora lottare astenendosi intenzionalmente dall'impiego di mezzi di lotta che comportino (o si crede comportino) l'inflizione di sofferenze (fisiche o psicologiche) o la provocazione di lesioni (fisiche o psicologiche). Per distinguere questo terzo concetto di nonviolenza dai primi due sopra delimitati (modalita' di lotta non militare, e modalita' di lotta incruenta) possiamo usare il termine di "modalita' di lotta a-violenta". * 5. La nonviolenza positiva Occorre ora fare un discorso a parte su di una quarta nozione di nonviolenza alla quale, per ragioni che diverranno chiare fra poco, e' opportuno riferirsi con il termine di nonviolenza specifica, o nonviolenza ideologica e positiva. Essa si differenzia notevolmente dalla tre nozioni sopra delucidate alle quali ci si puo' riferire con il termine generale di nonviolenza generica, oppure nonviolenza pragmatica e negativa. Le ragioni che giustificano l'uso di questi ultimi termini per riferirsi genericamente alle modalita' di lotta non militare, incruenta e a-violenta, sono le seguenti. In primo luogo, tutte e tre queste nozioni sono caratterizzate esclusivamente in termini negativi: lotta nonviolenta sta qui a significare lotta esente da violenza. In secondo luogo, le tre nozioni di tecnica nonviolenta sopra distinte sono compatibili con qualsiasi ideologia. Con cio' si intende affermare che, cosi' come sono state caratterizzate, nulla esclude che tecniche esenti da violenza (in questa o quella accezione di questo termine), possano essere impiegate da qualsiasi gruppo in vista di qualsiasi fine (come appunto e' il caso per quanto riguarda l'impiego di tecniche di lotta violenta). Nulla esclude, ad esempio, che persino un gruppo fascista in una certa situazione impieghi dei mezzi di lotta non-militari, o incruenti, o anche a-violenti, - ma cio', non per una qualche ragione ideologica o morale, ma per il semplice fatto che cotali mezzi sono quelli che, nella situazione in questione, forniscono, o si crede forniscano, le maggiori garanzie di ottenere il successo. Uno dei maggiori studiosi della nonviolenza generica ha esplicitamente sottolineato che "non vi e' nulla nell'azione nonviolenta che ne precluda l'impiego sia al servizio di cause 'giuste', sia al servizio di cause 'ingiuste'" (7). * Quanto ai termini "nonviolenza specifica" o "nonviolenza ideologica e positiva", cio' che ne giustifica l'uso sono le seguenti considerazioni. In primo luogo, con l'aggettivo "positiva" si intende sottolineare che non si tratta, come nel caso della nonviolenza generica o negativa, di una nozione delimitata esclusivamente in termini negativi: cioe' l'astensione dalla violenza e' una condizione necessaria, ma non sufficiente, di una modalita' di lotta nonviolenta positiva (come si vedra', in modo piu' preciso, tra un momento). In secondo luogo, l'aggettivo "positiva" sta anche a sottolineare il fatto che non si tratta di una forma di lotta identificabile con la resistenza passiva, bensi' che si tratta di una modalita' di lotta attiva, "aggressiva" e costruttiva. In terzo luogo, l'aggettivo "ideologica" vuo richiamare l'attenzione sul fatto che non si tratta, come nel caso della nonviolenza pragmatica, di una modalita' di lotta impiegabile da chiunque per il raggiungimento di qualsiasi fine - cioe' compatibile con qualsiasi ideologia -, bensi' di una modalita' di lotta alla quale sottosta una intera dottrina o ideologia politica e che pertanto e' applicabile soltanto da coloro che accettano tale dottrina. La quale si articola in tutta una serie di momenti o componenti tra cui spiccano una particolare concezione etica, una teoria della natura umana, una filosofia dei conflitti e la visione di una societa' in cui il potere e il benessere sono di tutti e che favorisce al massimo e in tutti lo sviluppo di una personalita' umana che integri profondamente in se' l'idea della uguaglianza con quella del rispetto dell'autonomia dell'individuo, e che si apra a sempre maggiori identificazioni con le gioie e le pene altrui (invece di identificarsi con i simboli, le bandiere, i canti, le istituzioni, le regole, e i ruoli). * L'idea, morale, del potere e del benessere di tutti (quella che Capitini chiamava "Omnicrazia" (8) e Gandhi "Sarvodaya" (9)) significa qui che ciascuno deve avere tanto potere (reale) di influenzare e controllare le decisioni politiche che riguardano la sua vita, quanto e' compatibile con un uguale potere in ogni altro membro della societa', si' che ciascuno abbia in ogni momento la massima possibilita', compatibile con la massima possibilita' di ogni altro, di realizzare la miglior vita di cui e' capace. La dottrina della nonviolenza positiva sa che questa e' una visione o un ideale che non e' completamente realizzabile - se mai lo sara' - che a lunga scadenza. Ma alla coscienza di cio' si accompagna l'insistenza sullo sforzo continuo volto a realizzare, hic et nunc, una societa' che si avvicini il piu' possibile a quell'ideale. A tal fine reputa necessaria la socializzazione (non la nazionalizzazione, si badi) dei mezzi di produzione e fa propria l'idea socialista (ma non leninista) della decentralizzazione del potere politico che dovra' risiedere - in modo del tutto democratico - nei consigli (tutto il potere ai soviet!), quella dell'uguaglianza dei salari (bollata da Stalin come "idea piccolo-borghese"!), e considera le liberta' democratiche di stampa, di associazione e di riunione, e i principi dello stato di diritto, conditio sine qua non del funzionamento umano di tale societa' (10). In virtu' di tutte queste caratteristiche, cioe' in seguito al fatto che si tratta non soltanto di una particolare modalita' di lotta, bensi' anche di una articolata dottrina politica che per molti aspetti si avvicina alla concezione socialista, la posizione che sin qui ho chiamato nonviolenza ideologica positiva o nonviolenza specifica puo' anche essere caratterizzata come una posizione di socialismo nonviolento. * Il piu' originale apporto di questa dottrina agli sviluppi del pensiero e della prassi politica consiste senza dubbio in quella particolare modalita' di lotta che, usando un neologismo coniato da Gandhi - e per distinguerla dalle varie tecniche di lotta nonviolenta generica e negativa sopra distinte -, possiamo chiamare modalita' di lotta satyagraha. Ho presentato le caratteristiche fondamentali di questo tipo di lotta, con una certa ampiezza, nel mio saggio introduttivo alla silloge di scritti gandhiani sopra menzionata (11). Rimando pertanto per un piu' ampio discorso ad esso, e mi accontento qui di riassumere, per sommi capi, quanto ivi detto. Occorre anzitutto che sia ben chiaro che nessun catalogo, per completo che sia, delle svariate tecniche di lotta ideate ed impiegate da Gandhi puo' servire a fornire una compiuta caratterizzazione della modalita' di lotta satyagraha. Le forme che tale modalita' di lotta assume varieranno, ovviamente, da contesto a contesto, ed e' chiaro che le tecniche di lotta impiegate da Gandhi nel contesto sudafricano e indiano non sono esportabili ad altre situazioni conflittuali diverse da quelle in cui si trovo' ad operare il politico indiano. Cio' che qui conta sono i principi generali che caratterizzano il satyagraha, le condizioni, cioe', cui e' necessario (e forse anche sufficiente) che un gruppo adegui i suoi metodi di lotta politica affinche' questi possano essere correttamente classificati come metodi di lotta satyagraha. Illustrero' qui brevemente cinque condizioni. * (I) Astensione dalla violenza. Un metodo o una tecnica di lotta politica saranno caratterizzabili come satyagraha soltanto ove essi siano esenti da violenza o, ove cio' non sia del tutto possibile, la violenza connessa al loro impiego sia ridotta ad un minimo di violenta psicologica. Quest'ultima aggiunta si spiega con il duplice fatto che qui si assume la terza e piu' lata nozione di violenza (per cui si ha violenza anche ove si infliggono intenzionalmente e in modo coatto delle sofferenze psicologiche), e che la nonviolenza positiva - in quanto comporta una contestazione attiva e permanente di ogni forma di ingiustizia, di sfruttamento, di prevaricazione, di indebito privilegio - puo' ovviamente causare delle sofferenze psicologiche nello sfruttatore che vede i suoi indebiti privilegi messi in questione o aboliti. E' pero' della massima importanza aver ben chiaro che la violenza cosi' connessa con la lotta satyagraha e' un minimo di violenza psicologica e che essa e' usata da un gruppo che imposta tutta la sua lotta adottando tecniche che non comportano ne' la minaccia di lesione, ne' la lesione effettiva degli interessi vitali delle persone (quelli cioe' su cui ciascuno puo' far valere un diritto uguale a quello di ciascun altro - diritto alla propria vita, alla propria integrita' fisica e psicologica, a non essere mutilato o ucciso fisicamente o psicologicamente -) in quanto distinti da quegli interessi che sono fondati sulla violenza, sui quali cioe' non si puo' far valere altro diritto che quello del piu' forte. Chiunque potra' convenire che vi e' una differenza enorme fra il costringere un gruppo avversario a rinunciare ai privilegi di cui indebitamente gode mediante l'impiego di mezzi che comportano l'intenzionale e coatta inflizione di enormi sofferenze e lesioni (12), e il costringerlo a cio' in seguito all'impiego di mezzi di lotta deliberatamente scelti allo scopo di minimizzare il piu' possibile le sofferenze per l'avversario contro cui sono impiegati, e che inoltre soddisfano tutte le altre quattro condizioni della lotta satyagraha e, per cominciare, la seconda che ora passo brevemente a illustrare. * (II) La disposizione al sacrificio. Questa condizione della modalita' di lotta satyagraha richiede che il gruppo coinvolto in essa sia disposto a sottoporsi a tutti quei sacrifici che sono necessari a far avanzare la propria causa e a minimizzare (come richiede la precedente condizione) le sofferenze per l'avversario. E' questa la condizione su cui in genere si appuntano le maggiori critiche degli avversar! del satyagraha. Spesso si tratta di critiche avventate, che tradiscono una conoscenza del tutto superficiale di questa modalita' di lotta, oppure si fondano sulla forma del tutto particolare che questa condizione del satyagraha assume in Gandhi. Cosi' A. I. Titarenko, uno dei filosofi ufficiali dell'Unione Sovietica (e' professore di etica nel dipartimento di filosofia nell'universita' di Mosca), in un suo recente libro in cui affronta la scottante questione dei rapporti fra morale e politica, trattando brevemente della nonviolenza gandhiana scrive, con chiaro riferimento alla presente condizione della lotta satyagraha, che la nonviolenza di Gandhi "deve essere moralmente condannata in quanto impone l'intero onere delle sofferenze sulle spalle degli oppressi, mentre assolve gli oppressori". E aggiunge che "l'idea reazionaria della umilta' e della acccttazione delle sofferenze e' uno degli elementi chiave nel principio gandhiano della nonviolenza" (13). A cio' va risposto: a) Ne' la nonviolenza piu' specificatamente gandhiana, ne' la nonviolenza positiva (che fa tesoro della prassi e del pensiero di Gandhi, ma non si identifica ovviamente in tutto con la concezione gandhiana), comportano affatto che si "assolvano gli oppressori", ne' che si "imponga l'intero onere delle sofferenze sulle spalle degli oppressi", ne' che si debba, umilmente, chinare la testa e passivamente accettare lo status quo. Quanto detto nelle pagine precedenti dovrebbe togliere ogni dubbio su questo punto. b) La disposizione a sottoporsi anche ai sacrifici piu' gravi, e' connessa con ogni tipo di lotta contro l'oppressione, in modo particolare con la lotta violenta, dato che, specialmente oggi, chi si affida ad essa deve realisticamente accettare il fatto che oltre che poter comportare sofferenze e morte per lui stesso, essa comporta effettivamente enormi sofferenze e morte per un numero sempre crescente di membri del gruppo cui esso appartiene e assieme ai quali, o per i quali, lotta (si pensi per esempio all'enorme numero di vittime e alla enormita' di sofferenza che la lotta violenta e' costata al popolo algerino e al popolo vietnamita). c) Le sofferenze cui il gruppo satyagraha dovra' realmente sottoporsi saranno di regola minori di quelle che - specie oggi - una lotta violenta comporta, in quanto il metodo di lotta satyagraha tende a bloccare la violenza dell'avversario. d) La disposizione a soffrire e' nella lotta satyagraha di particolare importanza come testimonianza della serieta' con cui si abbraccia la propria causa; non potendo dimostrare la propria fermezza mediante l'uso delle armi, il gruppo satyagraha la dimostra mostrando che e' disposto a soffrire per essa almeno quanto e' disposto chi si batte per una causa giusta in modo violento. e) La disposizione, in certe situazioni, a sopportare anche notevoli sofferenze al fine di minimizzare il piu' possibile le sofferenze per l'oppositore, si fonda su due assunti: il primo, di natura prettamente morale, e' il principio, gia' formulato da Platone (14), per cui e' moralmente migliore subire delle sofferenze ingiustamente inflitteci, che non infliggere ad altri delle sofferenze; il secondo assunto, di natura empirica, e' che un comportamento informato alla condizione che qui si discute ha buone possibilita', oltre che di bloccare o comunque diminuire nell'avversario il ricorso alla violenza, anche di portarlo al tavolo della ragione e delle trattative. Si tratta di due assunti che qui non sono che accennati e la trattazione esaustiva dei quali richiederebbe uno spazio che qui non ho a disposizione. Un serio esame di essi potra' anche giungere alla conclusione che si tratta di assunti assai dubbi. Ma Titarenko (e con lui molti altri critici della nonviolenza positiva) non li ha discussi e quindi la sua conclusione, che la posizione nonviolenta che si fonda su di essi e' una posizione moralmente condannabile e "reazionaria", e' un ulteriore esempio di quell'atteggiamento dogmatico che e' del tutto estraneo alla posizione nonviolenta, proprio perche' essa pone, come terza condizione di una lotta satyagraha, che ci si attenga alla verita'. * (III) II rispetto per la verita'. Tale condizione si articola in tutta una serie di richieste motivate, come tutte le altre condizioni, in parte da ragioni di ordine morale, in parte da ragioni di ordine empirico, tattico. Rimandando per un piu' compiuto esame di questa condizione al mio saggio introduttivo alla silloge di scritti gandhiani sopra menzionato (15), noto qui, in tutta brevita', che tale condizione comporta che si rispetti la massima obiettivita' e imparzialita' in ogni fase della lotta, che non si pongano obiettivi che non sono compatibili con l'idea del potere e del benessere di tutti e con le altre idee morali che caratterizzano la posizione nonviolenta positiva, che non si operi nella clandestinita', che si sia disposti ad essere persuasi, attraverso una seria argomentazione, a modificare la propria posizione, ecc. * (IV) L'impegno costruttivo. L'impegno in un lavoro costruttivo, volto a realizzare, hic et nunc, nella maggiore misura possibile il tipo di societa' che si mira a porre in essere (organizzazione di consigli nelle fabbriche, nelle scuole, negli ospedali, ecc.; programmi educativi dal basso; costituzione di istituzioni parallele), rappresenta forse la piu' profonda esigenza della nonviolenza positiva per questo aspetto molto vicina alle idee di rivoluzionari come Mao e "Che" Guevara. La differenza tra la posizione di questi ultimi e quella della nonviolenza positiva consiste nel fatto che la nonviolenza positiva auspica l'individuazione di programmi costruttivi da cui anche il gruppo avversario possa trarre dei benefici o addirittura che possano attivamente coinvolgere membri del gruppo avversario. Non si tratta di sminuire o minimizzare o ignorare l'acutezza di certi conflitti di interessi o di classe, bensi' soltanto di indagare - al di la' delle dichiarazioni teoriche, dogmatiche e demagogiche di una totale e irriducibile opposizione di interessi fra le classi - di volta in volta se non vi siano interessi comuni o fini sovraordinati che permettano quel minimo di comunicazione fra i membri dei gruppi in conflitto che e' condizione necessaria di un efficace funzionamento della tecnica di lotta satyagraha (16). * (V) La gradualita' dei mezzi. Quest'ultima condizione necessaria della modalita' di lotta satyagraha esige che non si ricorra alle forme piu' radicali di lotta nonviolenta senza aver prima individuato un programma costruttivo su cui far convergere gli sforzi e senza aver tentato tutte le varie tecniche di persuasione, non escluso il compromesso inteso come tentativo di addivenire ad una soluzione del conflitto onorevole e accettabile a tutte le parti. Ove va pero' sottolineato che il compromesso, nella concezione della nonviolenza positiva, e' possibile soltanto per quanto riguarda gli obiettivi non essenziali, mentre su quelli considerati essenziali non e' possibile compromesso alcuno. * Ho piu' volte sottolineato che la distinzione fra violenza e nonviolenza, affinche' risulti interessante e adeguata, deve essere tracciata, almeno nel presente contesto, in base ad un criterio morale, per cui cio' che viene caratterizzato come modalita' di lotta nonviolenta dovra' esibire una chiara superiorita' morale sulla modalita' di lotta che viene caratterizzata come violenta. Orbene, e come ho gia' sopra osservato, penso che chiunque converra' che vi e' una profonda differenza, proprio da un punto di vista morale, tra l'impiegare un metodo di lotta (come e' qui per definizione quello violento) che comporta la deliberata e coatta inflizione di sofferenze e lesioni su vasta scala, e l'impiegare un metodo di lotta che soddisfi a tutte e cinque le condizioni della modalita' di lotta satyagraha sopra passate in rassegna, anche se queste condizioni non sono soddisfatte al cento per cento. E' questa differenza di natura morale fra i due tipi o metodi di lotta che rende particolarmente interessante il problema concernente l'efficacia e la possibilita' di una lotta rivoluzionaria satyagraha a livello di massa, cioe' la possibilita' che il satyagraha ha di porsi come una valida alternativa all'uso della violenza nella lotta per una piu' giusta ed umana societa'. * Cio' non esclude, si badi, che sia anche importante indagare sulla possibilita' ed efficacia (relativamente a tal fine) di quelle forme di lotta nonviolenta generica che ho sopra chiamato lotta non militare, lotta incruenta e lotta a-violenta. E' importante indagare sulle prime due modalita' di lotta perche' pur non essendo, come sopra si e' visto, necessariamente esenti da violenza (nella accezione che sopra si e' visto essere la piu' adeguata di questo termine), anche ove comportino una certa misura di violenza si trattera', di regola, di una misura assai minore di quella che si verifica nella modalita' di lotta militare. Ed e' ovviamente importante indagare sulle possibilita' di passare dalla societa' capitalista a quella socialista mediante l'uso di mezzi a-violenti, cioe' pacifici, come sono il voto e le varie tecniche parlamentari, con le quali, come e' noto, Marx ed Engels stimavano possibile il passaggio al socialismo nell'Inghilterra, negli Stati Uniti, nell'Olanda e, piu' tardi, nella Germania del loro tempo. Bisogna pero' da ultimo di nuovo sottolineare che in tutti e tre i casi di lotta nonviolenta generica si tratta pur sempre e soltanto di mere tecniche di lotta cui, come tali, non soggiace alcuna dottrina o particolare atteggiamento nei confronti della violenza, e il cui impiego, pertanto, in una situazione giudicata favorevole ad un loro uso, non esclude affatto che in altra situazione si ricorra alla violenza piu' massiccia, ne' che in quella stessa situazione si impieghi anche la violenza militare o se ne minacci o comunque prepari l'uso (17). * Completamente diverso e' invece il caso della modalita' di lotta satyagraha ove l'uso, la minaccia e la preparazione della violenza (ferma restando la possibilita' di un minimo di violenza psicologica, sopra accennata) sono sistematicamente banditi in ogni tipo di situazione conflittuale, e cio' in base a tre ordini di considerazioni. In primo luogo, perche' la violenza e' considerata un male (anche se non assoluto); in secondo luogo, perche' si reputa, in base a tutta una serie di argomenti abbastanza convincenti, che, soprattutto oggi, l'impiego della violenza tende a condurre a risultati del tutto diversi da quelli che caratterizzano una societa' socialista; e in terzo luogo, perche' si reputa, di nuovo in base ad argomenti abbastanza convincenti, che e' soltanto ove ci si astenga sistematicamente dall'uso, dalla minaccia e dalla preparazione (che di per se' e' gia' minaccia) della violenza - e per il resto si soddisfino le altre quattro condizioni del satyagraha - che si danno le migliori garanzie di tenere sotto controllo la risposta violenta dell'avversario contro cui si lotta, di umanizzarlo (invece di deumanizzarlo come avviene nel caso della lotta violenta), e di condurre i conflitti in modo tale che essi alla fine non sbocchino nella "comune rovina delle classi in lotta". Di questi tre tipi di considerazioni, il primo e' stato sviluppato nel corso di questo scritto. Sviluppare gli altri due, cioe' sviluppare e discutere gli argomenti in base ai quali si fa valere l'inefficacia della violenza e l'efficacia del satyagraha come modalita' di lotta rivoluzionaria per il socialismo, porterebbe assai lontano. Su di essi mi riprometto di tornare in altra occasione. * Note 1. II marxista che forse in modo piu' esplicito ha sottolineato il carattere di male in se' della violenza e' John Lewis. In una delle piu' attente disamine della posizione pacifista intraprese da pensatori di indirizzo marxista, Lewis scrive: "Si concorda, ovviamente, nel giudizio che la violenza (...) e' un male. Tale giudizio e' un giudizio assoluto e immediato". L'errore del pacifismo assolutistico, per Lewis, sta nell'avere trasformato questo immediato giudizio di male in un giudizio finale di ingiustificabilita' della violenza. Per il marxista Lewis, invece, vale che "la violenza rimane un male in qualsiasi circostanza, ma che essa non e' moralmente ingiustificabile se le conseguenze del suo impiego sono piu' buone che cattive". Cfr. J. Lewis, The Case Against Pacifism, London, 1940 (1937), pp. 25-26; cfr. anche pp. 123-124. 2. Tra gli autori che propendono per una siffatta nozione di violenza vi e' da noi Norberto Bobbio. Nel suo intervento al dibattito sulla violenza, organizzato da Civilta' delle macchine e pubblicato nella omonima rivista (maggio-agosto, 1971, n. 3-4, spec. pp. 27-28) Bobbio stabilisce come, per poter parlare di violenza (come il termine e' "usato nel linguaggio politico corrente") e' necessario che "facciamo uso della forza fisica o di strumenti, come le armi di ogni specie, la cui natura consiste nell'aumentare in qualche modo la nostra forza fisica"; che si faccia "del male agli altri", ove per male viene inteso "compiere lesioni di una qualche entita' sul corpo altrui sino all'uccisione (...) provocare negli altri sofferenze gravi" e anche "provocare danni alle cose dell'altro" (ma mi sembra ovvio che, almeno nel presente contesto, provocare danni alle cose e' violenza soltanto nella misura in cui cio' comporta lesioni o sofferenze per qualche persona); che "l'uso della forza fisica (...) per fare del male agli altri (...) deve essere, da parte di chi la esercita, intenzionale", e che "il destinatario della violenza non sia consenziente". Si tratta, come si vede, delle quattro condizioni stabilite dalla definizione D1. Bobbio pero', pur giudicandole necessarie ad una compiuta caratterizzazione della nozione di violenza, non le giudica sufficienti. Egli infatti aggiunge una quinta condizione, e cioe' che "l'atto di forza fisica che fa del male intenzionalmente al recalcitrante sia anche ingiusto" e, egli chiarisce, "ingiusto" nel triplice senso di "moralmente ingiusto", di "illegittimo", cioe' di non autorizzato da un certo ordinamento, e di "illegale", vale a dire superante "certi limiti stabiliti dalle regole del sistema". Non vedo tuttavia che cosa motivi l'aggiunta di questa quinta condizione. La quale, anzi, mi pare del tutto immotivata, e cio' per due ragioni. In primo luogo perche', come ho gia' avuto occasione di notare sopra, essa rende impossibile porre la domanda, che tutti, Bobbio certamente compreso (dato che nel suo intervento parla di "violenza giusta" e di "violenza ingiusta ") considerano sensata e importante, se cioe' la violenza, o questa o quella azione violenta, siano moralmente giuste o meno. In secondo luogo, quella condizione e' immotivata perche' rende la definizione di "violenza" una definizione ideologicamente compromessa, essa comporta, ad esempio, che in uno scontro fra polizia e operai e studenti manifestanti, le manganellate della polizia nei confronti dei manifestanti, in quanto autorizzate dall'ordinamento vigente e purche' non superino certi limiti stabiliti dalle regole del sistema (presumibilmente come sono interpretate dalla classe che detiene il potere), non sono violenza (cioe', come sopra si diceva, qualcosa di negativo) ma semplice forza (cioe' qualcosa di molto piu' neutro); mentre le eventuali sassate dei manifestanti contro la polizia, o qualche botta che ad essi scappi nei confronti di questo o quel poliziotto divengono, ipso facto, pura e semplice violenza. Per questo penso che a stabilire il concetto di violenza che interessa a Bobbio bastano le prime quattro condizioni sopra elencate. Esempi di altri autori che operano con la presente, ristretta, nozione di violenza sono H. A. Freeman, il quale scrive: "Violenza e' l'uso intenzionale della forza in modo tale da essere fisicamente dannoso per la persona o il gruppo contro cui essa e' usata" ("Violence is the wilifui application of force in such a way that it is physically injourious to the person or group against which it is applied"), in H. A. Freeman, Civil Disobedience (Santa Barbara: The Centcr for the Study of Democratic Institutions, April 1966, p. 3), e R. B. Miller, il quale caratterizza un atto di violenza come "un atto che comporta l'uso di una notevole quantita' di forza, sufficiente a ledere, danneggiare o distruggere una o piu' persone e compiuto con l'intenzione di ledere, danneggiare o distruggere " ("An act of violence is any act taken by A that 1) involves great force, 2) is in itself capable of injuring, damaging or destroying, and 3) is dono with thË intent of injuring, damaging or destroying"): cfr. R. B. Miller, "Violence, Force and Coercion" in J. A. Schaffer (a cura di), Violence, New York, 1971, p. 25. Ne' Freeman ne' Miller, come si sara' notato, fanno alcun riferimento esplicito alla condizione 2) per cui si da' violenza soltanto ove il male inflitto al destinatario sia contro la sua volonta'. Penso tuttavia che tale condizione sia implicita nel termine "danno" ("injury") che ambedue usano. 3. Lo studio piu' recente e comprensivo delle svariate modalita' o tecniche di lotta non-militare e' il grosso volume di G. Sharp, The Politics of Non-violent Action, Boston (Ma), 1973, pp. 900, in cui sono ampiamente illustrate ed esemplificate non meno di 198 tecniche di azione nonviolenta, dalle varie forme di persuasione e protesta nonviolenta, attraverso i vari metodi di noncollaborazione sociale, economica, politica, su' su' fino alle varie tecniche di intervento nonviolento. Alla p. 64 del libro viene chiarito che per "nonviolenza" si intende azione esente da violenza fisica: "II termine azione nonviolenta e' un termine generico sotto il quale si sussumono decine di metodi specifici di protesta, noncollaborazione e intervento, tutti caratterizzati dal fatto che chi li impiega in un certo conflitto fa - o si rifiuta di fare - certe cose senza usare la violenza fisica". Cfr. anche p. 73 ove le tecniche di "azione nonviolenta" vengono esplicitamente contrapposte alle "forme di lotta militare". 4. Uso l'aggettivo "psicologiche" e non "psichiche" perche', in un certo senso, tutte le sofferenze sono psichiche. Tuttavia vi e' differenza fra uno stato di intensa angoscia o disperazione e un dolore "fisico", in quanto mentre il primo non e' localizzabile in alcuna parte del corpo, il secondo, invece, lo e' - mi fa male qui, alla testa, alla gamba, alla mano, ecc. I termini "sofferenze psicologiche" e "sofferenze fisiche" intendono per l'appunto sottolineare tale distinzione. 5. Quest'ultima e' l'idea espressamente formulata in uno dei contributi che figurano in un volume ad opera di autori vari, recentemente uscito in Danimarca, ove si discute dei rapporti fra nonviolenza e lotta di classe. In esso, il curatore Jens Thoft, scrivendo come i mezzi di lotta nonviolenta di cui egli e' fautore "non siano scelti in base a criteri morali" ma soltanto in base a criteri tattici e strategici, sottolinea come "il terrore psichico" rientri nella modalita' di lotta nonviolenta, anzi ne sia "un elemento estremamente essenziale". Ma, egli aggiunge subito dopo, "cio' non esclude, naturalmente, che la modalita' di lotta nonviolenta abbia tutta una serie di vantaggi morali ed etici (sic!) di cui i metodi di distruzione militare sono del tutto privi". Cfr. J. Thoft, "Ikkevoldskamp - strategi i klassekampen" (La nonviolenza come strategia nella lotta di classe) in Ikkevold. Strategi i klassekampen (Nonviolenza nella lotta di classe), a cura di J. Thoft, GMT, Danmark, 1974, pp 10-11. 6. Altra cosa e' che il concetto di sofferenza psicologica e' piu' difficile da precisare che non quello di sofferenza fisica. Non ogni forma di imbarazzo, disagio, insoddisfazione viene comunemente assunta sotto il concetto di sofferenza psicologica. Ma, del resto, nemmeno di una persona che si e' punta il dito con un ago diremmo comunemente che si trova in uno stato di sofferenza fisica. Parrebbe che il termine "sofferenza" sia comunemente applicato a stati di coscienza indesiderati dal soggetto che li esperisce ma la cui intensita' superi una certa soglia, soglia che ovviamente non e possibile stabilire in modo del tutto univoco, onde la vaghezza connaturata al termine "sofferenza" e, attraverso esso, anche ai termini "violenza" e "nonviolenza". Affermare che tali termini sono vaghi significa affermare che vi sono tipi di comportamento che non si puo' dire se siano violenti o nonviolenti. Cio' non toglie, tuttavia, che nella maggior parte dei casi la distinzione sia ben chiara e netta. 7. Cfr. G. Sharp, The Politics of Nonviolent Action, cit., p. 71. 8. Cfr. Aldo Capitini, II potere e' di tutti, La Nuova Italia, 1969, specialmente le pp. 59-182. 9. Gandhi ha sviluppato l'idea di Sarvodaya in molti scritti, alcuni dei quali sono raccolti nel libretto Sarvodaya, Navajivan Publising House, Ahmedabad, 1951. Sulla concezione gandhiana di una societa' o "stato nonviolento" si veda G. Dhawan, The Political Philosophy of Mahatma Gandhi, Ahmedabad, terza edizione riveduta, 1957, cap. XI "The' Structure of the Non-violent State", pp. 279-336; sulle idee sociali e politiche di Gandhi mi sono intrattenuto nel terzo capitolo del saggio introduttivo che ho preposto alla silloge di scritti gandhiani da me curata per Einaudi: cfr. M. K. Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, a cura e con un saggio introduttivo di G. Pontara, Torino, 1973, pp. LXXX-XCII. 10. Nella difesa di tali liberta' la nonviolenza positiva trova un possente alleato in Rosa Luxemburg la quale, come e' noto, polemizzando con Lenin e Trotckij all'indomani della rivoluzione russa, ribadiva, con la fermezza di sempre, che "senza una liberta' illimitata di stampa, senza un libero esercizio dei diritti di associazione e di riunione, e' del tutto impossibile concepire il dominio delle grandi masse popolari" e che "la liberta' riservata ai partigiani del governo, ai soli membri di un unico partito - siano pure numerosi quanto si vuole - non e' liberta'. La liberta' e' sempre e soltanto liberta' di chi pensa diversamente". Cfr. R. Luxemburg, La rivoluzione russa, in Scritti politici, a cura di Leiio Basso, Editori Riuniti, 1970, pp. 588 e 599. 11. Cfr. M. K. Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, cit., pp. XCIII-CXXIII. 12. E' il caso, in modo particolare, della lotta violenta militare che si fonda sul principio, enunciato da Clausewitz, per cui "la guerra e' un atto di forza, all'impiego del quale non esistono limiti: i belligeranti si impongono legge mutualmente; ne risulta un'azione reciproca che logicamente deve condurre all'estremo". (Cfr. K. von Clausewitz, Della guerra, Mondadori, 1970, 1. I, cap. I, p. 22). Poco prima (op. cit., p. 21) Clausewitz aveva scritto: "Gli spiriti umani potrebbero immaginare che esistano metodi tecnici per disarmare o abbattere l'avversario senza infliggergli troppe ferite e che sia questa la finalita' autentica dell'arte militare. Per quanto seducente ne sia l'apparenza occorre distruggere tale errore (...)". Gli fanno eco non pochi rivoluzionar! violenti. "La guerra e' sempre una lotta in cui i contendenti cercano di annientarsi a vicenda" scrive Ernesto "Che" Guevara ne La guerra di guerriglia (Feltrinelli, 1967, p. 17), e Lin Piao dice espressamente che "il principio fondamentale che presiede alle nostre operazioni militari e' la guerra di annientamento" ("Sull'applicazione della strategia e delle dottrine tattiche della guerra di popolo"), cit. da C. Milanese, Principi generali della guerra rivoluzionaria, Feltrinelli, 1970, p. 20. Milanese, a sua volta, sottolinea come anche il guerrigliero sia "il combattente (...) che si propone di infliggere al nemico, di volta in volta, il massimo di distruzione" che i mezzi di cui dispone gli consentono (op. cit., p. 99). 13. Cfr. A. J. Titarenko, Morality and Politics, Progress Publisher, Mosca, 1972, p. 174. 14. Tra i vari luoghi delle sue opere in cui Platone ha formulato tale principio cfr. ad esempio il Gorgia, XXIV. 15. Cfr. M. K. Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, pp. CII-CVI. 16. Nel linguaggio di Mao, cio' puo' essere espresso dicendo che si tratta di fare uno sforzo continuo per trasformare le contraddizioni o i conflitti antagonistici in contraddizioni o conflitti non antagonistici, i quali ultimi, secondo la concezione di Mao, sono contraddizioni o conflitti risolvibili senza l'uso della violenza in quanto le parti in conflitto hanno degli interessi comuni facendo appello ai quali e' possibile risolvere la contraddizione in modo costruttivo e nonviolento. E' qui della massima importanza l'accenno, che Mao fa all'inizio del suo saggio Sulla giusta soluzione delle contraddizioni in seno al popolo, alla possibilita' che certe contraddizioni o conflitti antagonistici (cioe', secondo la concezione di Mao, risolvibili di regola soltanto mediante l'impiego della violenza), se "trattati in modo opportuno" possono, in certe situazioni, essere "trasformati in contraddizioni non antagonistiche ed essere risolti in modo pacifico". Peccato che in Mao non vi sia che questo accenno e che non risulti chiaro in che modo un conflitto antagonistico debba essere trattato per poter essere trasformato in un conflitto non antagonistico. 17. Tale e' generalmente l'atteggiamento nel marxismo rivoluzionario; si favorisce l'impiego di varie tecniche di lotta non militare (scioperi, sciopero generale, non-collaborazione, ecc. ecc.) in una prima fase della lotta rivoluzionaria la quale dovra' pero' pur sempre concludersi e decidersi in uno scontro armato fra le classi. Si veda, ad esempio, il programma della Internazionale comunista del 1928 ove si legge che la conquista del potere da parte del proletariato significa "il rovesciamento violento del potere borghese, la distruzione dell'apparato dello stato capitalista", fini che vanno realizzati mediante "la propaganda (...) e l'azione di massa (...)", la quale "include (...) da ultimo lo sciopero generale congiunto con la insurrezione armata ". "Quest^ultima forma (...) che e' la forma suprema, deve essere condotta secondo le regole della guerra". Cit. da K. Popper, The Open Society and Its Enemies, quarta edizione riveduta, 1962, voi. II, p. 158. Anche Rosa Luxemburg, che per molti aspetti e' cosi' vicina alla nonviolenza positiva, e cosi' contraria al terrore e agli spargimenti di sangue, pur vedendo in una tecnica di lotta non militare come lo sciopero generale una nuova forma di lotta che "civilizza" e "mitiga" la lotta di classe, non esclude lo scontro armato finale: "L'avvento dello sciopero di massa rivoluzionario (...) certamente non rimpiazza in modo assoluto e non rende superflua la nuda brutale lotta di strada". Cfr. R. Luxemburg, "Sciopero generale, partito e sindacati", in Scritti politici, a cura di Lelio Basso, cit., p. 350. |
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