Un'Intervista a Pat Patfoort Da "Buddismo e Societa'", n. 114, gennaio-febbraio 2006 (disponibile anche nel sito: www.sgi-italia.org) Pat Patfoort, antropologa e dottoressa in biologia umana, vive a Brugge in Belgio. I suoi libri, tradotti in diverse lingue, sono stati ben accolti non solo in patria ma anche all'estero. I numerosi contatti con le associazioni gandhiane fondate da Giuseppe Giovanni Lanza del Vasto, la relazione con i quaccheri, la sua esperienza di madre e la lunga permanenza in Africa occidentale hanno costituito i presupposti per lo sviluppo della sua ricerca sulla nonviolenza. Secondo la sua teoria, la nonviolenza e la violenza hanno origine da situazioni in cui sono presenti punti di partenza (caratteristiche, comportamenti, opinioni, punti di vista di due persone o gruppi di persone) diversi che, se si lasciassero coesistere l'uno accanto all'altro senza associare loro giudizi di valore, non rappresenterebbero un problema. Purtroppo, come mostra Pat e come e' facile osservare e sperimentare nella quotidianita', il modo solito e diffuso di affrontare questi fattori o punti di partenza diversi e' il modello Maggiore-minore o modello M-m: ciascuno cerca di presentare il suo punto di vista, o comportamento, o caratteristica, come migliore di quello dell'altro. Ognuno cerca di porsi nella posizione M e di porre l'altro nella posizione m. Nel modello M-m si usano argomentazioni che hanno la funzione di mettere se stessi dalla parte della ragione, e che e' possibile raggruppare in tre tipi: 1. argomentazioni positive: si cercano aspetti positivi del proprio punto di vista per dargli valore; 2. argomentazioni negative: si citano aspetti negativi del punto di vista dell'altro per sminuirlo; 3. argomentazioni distruttive: si cercano aspetti negativi dell'altro per sminuire la persona. Attraverso tali argomentazioni ciascuno cerca di rafforzare il proprio punto di vista in opposizione all'altro, con l'obiettivo di prevalere. Il modello M-m e' cosi' alla base della violenza, alla sua radice. E' certamente naturale volersi difendere, voler sopravvivere, ma cio' puo' avvenire non necessariamente ponendo l'altro in posizione di inferiorita'. Il modello M-m e' solo uno dei modi possibili e forse il piu' facile. E' pero' cosi' comune e diffuso che si ha l'impressione che sia l'unico o quello piu' naturale. Un altro modo di affrontare una situazione di partenza con due punti di vista diversi e' il modello dell'Equivalenza o E. Questo e' il modello che sta alla base della nonviolenza. Esso fa si' che ci si possa difendere ma non a spese di altri, contro qualcuno o in modo offensivo, come nel modello M-m. Con il modello E ci si concentra sui fondamenti, che sono i fattori che soggiacciono ai vari punti di vista: motivazioni, bisogni, interessi, obiettivi, valori. Elementi sia emotivi, sia razionali. Ci si preoccupa di far emergere ed esplicitare i fondamenti, che spesso non sono espressi e di cui le persone non sono neppure consapevoli, e li si considerano tutti sullo stesso piano, senza dare giudizi di valore. Per adottare un atteggiamento equivalente (E) verso gli altri, infatti, e' indispensabile valutare i fondamenti di entrambe le parti: da una parte esprimere i propri in modo chiaro, dall'altra aprirsi a quelli dell'altra persona, ascoltarla, accettarla. A partire dalla raccolta di tutti i fondamenti e' possibile trovare soluzioni che soddisfino entrambe le parti. A seconda che si segua il modello M-m o il modello E, la soluzione di una divergenza di opinioni e' completamente diversa: nel primo caso si tratta di un sistema bidimensionale in cui ci sono solo due possibilita', ha ragione uno o l'altro, nel secondo ci sono tante soluzioni che si creano sulla base della raccolta di tutti i fondamenti presenti nel conflitto, sia di una parte sia dell'altra. Pat Patfoort si e' avvicinata alla nonviolenza e ha elaborato il metodo dell'equivalenza partendo dalla sua storia personale e dal suo ruolo di madre. L'abbiamo incontrata a Torino i primi di dicembre dello scorso anno in occasione del convegno "La mediazione: dal livello interpersonale al livello internazionale" organizzato dal Centro studi "Sereno Regis", e l'abbiamo intervistata. * - Quali sono i momenti salienti che l'hanno condotta all'attuale esperienza di mediazione dei conflitti? - Tutto e' partito dalla mia educazione: non ho mai tollerato il fatto che ci fosse incoerenza tra cio' che gli adulti chiedevano di fare ai bambini e cio' che essi stessi facevano, e ho desiderato fin da bambina di non riprodurre lo stesso comportamento, quando fossi stata a mia volta madre. Volevo trovare delle risposte per fare altrimenti. Ho inoltre vissuto un dramma familiare quando avevo diciannove anni: mio padre se ne e' andato con una donna della mia eta' e non e' mai piu' tornato a casa. La mia relazione con lui non si e' interrotta ma, visto che mia madre soffriva moltissimo, per anni ho considerato lei una vittima e mio padre un mostro. Solo successivamente ho capito che le cose erano molto piu' complesse rispetto a come le avevo interpretate inizialmente e che piuttosto che una vittima e un carnefice entrambi erano vittime, vittime di una certa educazione, vittime di un certo modo di comunicare. Mi sono preparata alla nascita dei miei figli da tutti i punti di vista: biologici, psicologici ed educativi, ho approfondito le mie intuizioni con studi teorici, ma ho anche riflettuto sulla mia esperienza, aprendomi all'influenza di altre culture e cercando di mettere in relazione tutto cio' che avevo imparato in Occidente e in Africa. La mia famiglia d'origine mi ha sempre scoraggiato rispetto al modo in cui intendevo educare i miei figli, mi dicevano che non era possibile cio' che invece ho poi sperimentato come normalita' in Africa occidentale, Mauritania, Burkina Faso, Senegal, dove ho vissuto per alcuni anni con mio marito e dove sono nati i miei figli. * - Puo' spiegarci concretamente come funziona il metodo dell'equivalenza? - Ecco un esempio. Scuola materna, in classe. Stefano e Giulio stanno litigando per una macchinina rossa. "E' mia!" urla Stefano. Afferra la macchinina con la mano e sta sulle punte dei piedi per tenerla piu' in alto possibile in modo che Giulio non possa toccarla. "No, bugiardo! E' mia!" ribatte Giulio, urlando mentre tira i capelli a Stefano. La maestra puo' intervenire in diversi modi. Consideriamo quelli che ci sono piu' familiari: 1. la maestra interrompe il litigio fra i bambini sottraendo a entrambi la macchinina finche' non sara' chiarito a chi appartiene; 2. la maestra intima ai due di non litigare e allontana fisicamente l'uno dall'altro, dando loro compiti in luoghi diversi della classe; 3. la maestra sanziona Giulio per il fatto che sta tirando i capelli a Stefano. In tutti e tre i casi la maestra affronta il conflitto con l'approccio M-m e in questo modo non lo affronta veramente, non lavora verso la soluzione. Si pone come obiettivo l'interruzione della lite, allontana i due compagni l'uno dall'altro o da' la colpa a una delle due parti. Nel primo e nel secondo caso entrambi si sentono in posizione m, nel terzo una delle due parti. Questo condurra' a ulteriori escalation o catene della violenza. Nell'approccio E, invece, la maestra non cerca di tacitare il problema il piu' rapidamente possibile fin dall'inizio, allontanando i bambini l'uno dall'altro o togliendo l'oggetto del contendere dalla situazione. Non cerca neanche di dare la colpa a qualcuno, ne' di mettere qualcuno in posizione di minore nei confronti dell'altro. Al contrario si sforza di introdurre e sostenere l'equivalenza fra i due bambini. Quindi parla a entrambi insieme, non solo a uno dei due, chiede a entrambi cos'e' successo e non focalizza l'attenzione solo sull'ultima parte del litigio. Ascolta i due bambini allo stesso modo, e considera le spiegazioni di entrambi, i loro fondamenti, anche se inizialmente non combaciano. Poi cerca di metterli insieme e magari si puo' scoprire che entrambi hanno detto la verita' e non che uno dei due ha mentito (come sarebbe pensabile di primo acchito), in quanto entrambi hanno ricevuto in regalo la stessa macchinina ed entrambi l'hanno portata a scuola. Si aprira' lo spazio per cercare la macchinina mancante e ricomporre la relazione tra i due. Se la maestra non avesse seguito il processo dell'equivalenza, ma avesse convalidato la versione dei fatti che le sembrava piu' convincente, avrebbe accusato ingiustamente qualcuno dei due di mentire o, altrettanto ingiustamente, lo avrebbe punito. Quanto spesso accade questo? E quanto spesso i conflitti, a tutti i livelli, vengono negati, fuggiti o "risolti" velocemente? Stare nel conflitto e' certamente difficile e richiede l'impiego di tempo ed energia, ma i frutti dal punto di vista della sanita' delle relazioni sono assicurati. * - Questo metodo sperimentato con i suoi figli lo utilizza anche nella mediazione internazionale. Come e' riuscita a passare dall'educazione in ambito familiare alla formazione e poi alla mediazione internazionale? - Alla mediazione internazionale sono approdata molto piu' tardi. La mia prima esperienza e' stata una mediazione interetnica in Russia tramite i quaccheri. Prima ho usato il metodo dell'equivalenza in Belgio in campo educativo: nella formazione degli insegnanti, dei genitori, dei bambini, nella mediazione dei conflitti interpersonali nel Centro di trasformazione nonviolenta dei conflitti di Brugge, la mia citta'. Nel corso degli ultimi quindici anni ho organizzato molte formazioni in ambito interculturale e ho lavorato in Olanda, Francia, Svizzera, Italia, con gruppi internazionali come ad esempio israeliani e palestinesi. In fondo il modello che io ho ideato e' emerso dalla pratica, dalle esperienze di formazione che ho fatto via via. E' importante sviluppare bene le teorie, scriverle e provare ad applicarle, anche se e' difficile e richiede una dura disciplina, soprattutto se hai dei figli e hai deciso di occuparti direttamente di loro. Presto uscira' un nuovo libro edito dal Gruppo Abele: Difendersi senza aggredire. La potenza della nonviolenza, che contiene una parte teorica e molti esercizi. In questo libro ho utilizzato soprattutto le esperienze in carcere con i detenuti e con i ribelli in Africa Occidentale. Ho compreso che in generale le persone non sono cattive ma spesso non sanno come difendersi e proteggersi senza attaccare gli altri, senza avere comportamenti che vanno a detrimento degli altri. Da piccoli non lo hanno imparato. Ma difendersi e' importante, e per questo e' cosi' rilevante sperimentare e far sperimentare un'alternativa che permetta di tutelarsi provando a soddisfare i propri bisogni e contemporaneamente rispettare gli altri e i loro legittimi interessi. Per me e' indispensabile tenere insieme la teoria e la pratica: facendo esperienza dell'equivalenza, via via diviene sempre piu' naturale porsi in questo modo. * - La cosa piu' difficile del suo metodo credo sia l'individuazione delle posizioni contraddittorie. - Non e' poi cosi' difficile, bisogna provare e riprovare. Sperimentando diventa sempre piu' facile. Inoltre si diventa sempre piu' capaci di esprimere i propri bisogni senza offendere gli altri e accogliere i loro bisogni e le loro richieste. * - Il punto forte del suo modello sembra essere quello di offrire un'alternativa, e i suoi workshop, le sue mediazioni, sono delle occasioni per praticarla. Vuole dire qualcos'altro? - E' importante per me dare un messaggio di speranza. Quando lavoro, soprattutto con i giovani, spesso mi dicono che e' impossibile per loro comportarsi in un modo diverso da quello che hanno sperimentato fino a quel momento. E' terribile che i giovani non abbiano la speranza di poter vivere diversamente, di poter comunicare in un altro modo, la speranza di uscire dai ruoli conosciuti. Vorrei che le persone potessero dire: "Il sole esiste ancora", sperimentare che c'e' qualcuno che da' loro rispetto, che si comporta in un'altra maniera; vorrei che pensassero che anche loro possono fare la stessa cosa. E' chiaro che comportarsi sempre in modo equivalente non e' ancora possibile, ma cio' non vuol dire che sia impossibile. Si tratta di fare esercizi per sperimentarsi nell'equivalenza. La cosa importante e' riconoscere i meccanismi della violenza, ricaderci e' normale perche' siamo stati educati in questo modo. Ma rendersene conto e capire che stiamo facendo un errore e' il primo passo, si tratta poi di fare tanti esercizi per non sbagliare piu'. |