Processo Decisionale, Metodo del Consenso e Facilitazione di Roberto Tecchio Riproponiamo una serie di brevi scritti di Roberto Tecchio (che nuovamente ringraziamo di cuore per averceli a suo tempo messi a disposizione) gia' apparsi su "La nonviolenza e' in cammino" nel n. 744 del novembre 2003. Roberto Tecchio (per contatti: nuvolaleggera@lillinet.org) e' in Italia uno dei principali formatori alla nonviolenza, dirige un laboratorio permanente su questo tema presso il Cipax di Roma. Un'ampia notizia biobibliografica su Roberto Tecchio e' nel n. 239 di questo foglio. Un ampio testo di Roberto Tecchio particolarmente utile e la cui lettura raccomandiamo a quanti vorranno approfondire i temi del seguente intervento e' apparso in sei parti nei nn. 231-236 di questo foglio Presento qui una serie di scritti brevi che raccolgono alcune mie riflessioni sulla pratica del metodo del consenso. Li ho usati in forme diverse nei mie ultimi lavori formativi sui processi decisionali consensuali. Il fine e' la comprensione del metodo stesso, cosa che credo potrebbe favorirne la diffusione. C'e' una domanda al fondo della mia ricerca: giacche' e' impossibile non comunicare, non decidere, non gestire i conflitti, come posso farlo in modo nonviolento? E c'e' una domanda fondamentale che rivolgo ad ogni gruppo: conosce il metodo che usa per decidere? * 1. Il metodo del consenso in pratica: una visione d'insieme Il momento formale della decisione (per esempio il momento del voto o quello della verifica del consenso) e' solo un momento all'interno di un ampio e articolato processo. La qualita' di una decisione (cioe' se essa e' piu' o meno partecipata, creativa, fattibile, nonviolenta, democratica, ecc.) dipende dal metodo di lavoro usato (metodo per discutere, produrre idee, confrontarsi, gestire le differenze e i conflitti, ecc.), che a sua volta dipende fortemente dal metodo decisionale che si adotta (per esempio se si vota si usera' un certo metodo di lavoro, se si vuole costruire il consenso senza votare se ne usera' un altro - e le tecniche non vanno confuse col metodo). Pertanto se vogliamo valutare la bonta' di un metodo decisionale dobbiamo prendere in considerazione tutto il processo che esso prevede e pretende di mettere in moto, dalla a alla zeta. Qualunque sia il metodo usato, il processo in pratica si svolge sempre in tre distinte fasi spazio-temporali, fasi che consentono di cogliere le differenze tra i vari metodi: I. fase preparatoria dell'incontro: cioe' tutto quello che avviene prima dell'incontro, sia esso una riunione ordinaria o un'assemblea; II. fase assembleare: cioe' tutto quello che avviene durante l'incontro; III. fase esecutiva: cioe' tutto quello che avviene dopo l'incontro in rapporto alle decisioni prese, ovvero l'attuazione delle decisioni. Per quanto concerne i processi decisionali partecipativi (cioe' che favoriscono la massima "partecipazione efficace" di tutti coloro che sono toccati dalle conseguenze dirette delle decisioni) e orientati al consenso (cioe' dove la decisione finale non e' il risultato di un voto, che spesso vede una maggioranza "contro" una minoranza, bensi' il risultato di un dialogo che porta tutti i partecipanti, sebbene in grado diverso, a convergere verso una determinata decisione), in rapporto alle fasi suddette si tende a curare/soddisfare i seguenti aspetti: I. Fase preparatoria. Tutti devono essere informati di tutto: l'informazione e' potere Tutti devono sapere chiaramente in anticipo quali sono: - agenda: obiettivi generali e particolari dell'incontro, tempi; - Metodo decisionale adottato e relativo metodo di lavoro che viene usato nello specifico incontro (pur con lo stesso metodo decisionale, per esempio il cosiddetto metodo del consenso, Il metodo di lavoro puo' variare notevolmente da situazione a situazione); - documenti e altri materiali necessari alla "partecipazione efficace". II. Fase assembleare. Teste, testi e contesto - Curare l'ambiente/contesto ove avviene l'incontro (i contesti influenzano le relazioni che a loro volta influenzano i contenuti delle decisioni), dunque gli ambienti di lavoro, la disposizione delle sedie, l'uso di supporti visivi, ecc. - Ri-condividere (partecipare, spiegare) sul momento l'agenda, il metodo decisionale e il metodo di lavoro (anche se erano gia' stati comunicati) per contestualizzare e rafforzare il patto di lavoro valido in quella occasione. - Per quanto concerne il metodo di lavoro, particolare attenzione va data alla presentazione/spiegazione della "facilitazione" e di altri eventuali ruoli/funzioni di servizio (per esempio presidenza di un'assemblea, coordinatore di gruppi di lavoro, portavoce, segretari, ecc). - Valutare il processo: tutti i partecipanti si esprimono a caldo sul metodo di lavoro; piu' a freddo (o con piu' tempo) ne focalizzano i punti forti e deboli, che sono la base per la crescita del gruppo. III. Fase esecutiva. Tra il dire e il fare c'e' di mezzo il mare Il gruppo puo' approntare strumenti per rilevare i dati che servono a valutare, alla prova dei fatti, la qualita' delle decisioni prese (l'attuazione efficace di una decisione dipende anche, e non poco, dal grado di motivazione e comprensione di chi deve attuarla, fattori che a loro volta dipendono anche, e non poco, dal modo in cui sono state prese le decisioni). * 2. Una nota sulla "partecipazione efficace" Cosa intendiamo con la parola partecipare? Anche chi ascolta e basta partecipa. Anche chi parla per mezz'ora alla platea, senza che del suo parlare resti minima traccia nella testa di chi ascolta e nei verbali finali, partecipa. Certamente la partecipazione di cui oggi si parla non coincide col voto, e coincide sempre piu' con l'idea capitiniana di omnicrazia. Riferito al metodo del consenso, a mio avviso partecipare vuol dire: a) poter sapere nei tempi e nei modi giusti cio' che conta sapere per poter decidere (fase preparatoria); b) poter concretamente contribuire o influire in qualche misura sulle decisioni che verranno prese (fase assembleare e/o lavori preparatori della fase preassembleare); c) poter partecipare e/o verificare direttamente l'attuazione e la ricaduta delle decisioni (fase esecutiva). Questa partecipazione e' molto impegnativa, e per questo puo' essere veramente efficace. Si comincia dal basso, cioe' senza dubbio dalla famiglia, e chissa' dove si puo' arrivare... * 3. Il metodo del consenso e la gestione del rapporto (conflitto) tra maggioranze e minoranze durante le riunioni A) Premessa Questo scritto e' un approfondimento inerente la pratica del metodo del consenso, pertanto si rivolge a chi conosce il metodo (almeno nella teoria), altrimenti puo' risultare poco comprensibile (una serie di testi brevi che presentano in sintesi il metodo del consenso si possono trovare su internet, oppure mi possono essere richiesti). Per poter capire lo scritto e' inoltre necessario, per chi legge, mettersi nei panni di chi facilita la riunione. Infatti il metodo del consenso si fonda sulla facilitazione, cioe' sulla capacita' del gruppo di comunicare in modo efficace (rispetto agli obiettivi) e coerente (rispetto ai principi ispiratori del gruppo stesso), che spesso, ma non sempre e non necessariamente, si avvale a tale scopo di figure particolari (i facilitatori, professionisti o meno, interni al gruppo o esterni ad esso). Insomma, col metodo del consenso puo' esserci assenza di facilitatori, ma mai assenza di facilitazione. L'assenza di facilitatori significa (e comporta) che ogni membro del gruppo sappia in qualche misura facilitare ed eserciti, in modo esplicito e con regole condivise, tale funzione durante la riunione. * B) Scenari molto probabili... Nel prendere decisioni all'interno dei gruppi, soprattutto se i partecipanti sono numerosi, e' naturale giungere durante la discussione alla formazione di maggioranze e minoranze attorno a delle proposte. Tali proposte rappresentano la nostra preziosa materia prima (in forma gia' un po' elaborata, ma ancora grezza), da cui partire o proseguire nel processo di costruzione del consenso. Se c'e' una maggioranza c'e' sicuramente pure una minoranza (altrimenti vi sarebbe unanimita'), e prima o poi verra' il momento in cui il confronto tra queste parti dovra' chiudersi e risolversi in una decisione. Percio', quando le parti durante la discussione cominciano a definirsi abbastanza chiaramente nelle rispettive posizioni e proposte, e' necessario "sapere cosa fare" per gestire questa delicata e cruciale dinamica che e' naturalmente conflittuale. Tale conoscenza dovrebbe essere condivisa (cioe' conosciuta e ri-conosciuta) dal gruppo, e corrisponde a una parte importante del metodo del consenso che ora andiamo ad analizzare. Immaginiamo di avere sotto gli occhi di facilitatori (scritta per esempio su un cartellone) la formulazione di una proposta che sta coagulando l'accordo di una buona parte del gruppo. A questo punto va chiesto alla minoranza che ancora non e' d'accordo (per comodita' di scrittura uso il concetto di minoranza che puo' valere sia per una persona, sia per un insieme di persone piu' o meno d'accordo nel contrastare la proposta della maggioranza), di assumersi la responsabilita' di far cambiare opinione alla maggioranza che si e' formata. Per esempio si potrebbe chiedere quali effetti dannosi concretamente la minoranza prevede qualora venisse presa quella decisione, ovvero quali bisogni resterebbero insoddisfatti. Prima di rispondere a questa domanda pero', si potrebbe chiedere a chi e' in disaccordo di riassumere la sostanza della proposta della maggioranza: questo serve a verificare la sua effettiva comprensione della proposta della maggioranza e a rafforzare il processo in termini di ascolto e riconoscimento reciproco e di fiducia (la tecnica e' chiamata "rispecchiamento" ed e' indispensabile nei momenti di tensione, spesso associata alla tecnica della "riformulazione" applicata da chi facilita - vedi per esempio Christoph Besemer, Gestione dei conflitti e mediazione, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1999, 2003). Dopo che la minoranza ha mostrato di aver ascoltato e capito (ed e' la maggioranza che dovra' confermarlo), dira' le sue ragioni. Dopo che la o le minoranze hanno portato le loro ragioni bisogna verificare cosa e' accaduto nella maggioranza. Per esempio si puo' chiedere: "c'e' qualcuno che ora vede le cose diversamente da prima, oppure restate convinti delle vostre ragioni?". Prima di rispondere alla domanda si potrebbe applicare anche qui la tecnica del rispecchiamento (e' indispensabile farlo se cio' e' stato prima chiesto alla minoranza). L'intervento della minoranza potrebbe infatti avere diversi effetti sulla maggioranza: per esempio ci possono essere dei cambiamenti di opinione nella maggioranza; oppure in essa si registrano posizioni meno allineate e piu' stratificate, e dunque la minoranza avra' aumentato un po' la sua forza (le maggioranze non vanno viste come dei monoliti, ma piuttosto come masse fluide in movimento che possono al loro interno avere posizioni molto variegate, vicine e al contempo lontane da quelle delle minoranze). Gli eventuali cambiamenti di opinione della maggioranza dovranno comunque tradursi in una modifica della formulazione originaria della proposta, che mostri nel concreto il cambiamento. La nuova proposta, ben leggibile sotto gli occhi di tutti, e' a quel punto la materia prima per verificare e costruire il consenso. In queste situazioni (che sono la norma) il gruppo (e soprattutto il facilitatore, se c'e') deve capire come andare avanti. Potrebbe per esempio essere necessario e possibile investire altro tempo alla ricerca di una soluzione migliore e piu' condivisa, altrimenti il consenso che si andrebbe a formare potrebbe essere troppo debole. In genere da qui si esce o trovando una formulazione adeguata, magari sovraordinata (che riesce a tenere insieme le diverse esigenze, o comunque in qualche modo a soddisfare le diverse parti), oppure lasciando in sospeso la decisione (in questi casi definendo il percorso che portera' ad affrontare di nuovo e meglio quel problema). C'e' pero' anche la possibilita' che non siano avvenuti cambiamenti nella maggioranza, e dunque che questa resti praticamente intatta e convinta. In questo caso la parola deve tornare alla minoranza, andando a verificare gli effetti su di essa degli interventi della maggioranza (che, dopo aver mostrato di aver ascoltato e capito le ragioni della minoranza, avra' evidentemente motivato il perche' della sua determinazione). Anche in questo caso infatti potrebbero esservi cambiamenti nella minoranza, che ora potrebbe essere piu' convinta delle ragioni della maggioranza, o piu' rassicurata, oppure no e restare ancora salda sulle sue posizioni. Gli effetti sono analoghi a quelli sopra descritti e bisogna appunto capire come procedere. Nei casi in cui, dopo aver discusso un certo tempo (che non e' illimitato e percio' deve essere prestabilito e comunque concordato consensualmente), maggioranza e minoranza mantengono quasi invariate le loro posizioni, in pratica la minoranza ha tre possibilita' di risposta (con questo tipo di approccio al metodo del consenso, che risulta molto piu' efficace rispetto a quello usato agli inizi nell'area nonviolenta, dove in sostanza esisteva un potere di veto e non a caso il metodo del consenso e' rimasto a lungo inapplicato o male applicato, e solo ora si sta diffondendo): a) la minoanza conferma il suo disaccordo, ma accetta senza riserve la proposta della maggioranza; b) la minoranza conferma il suo disaccordo, dichiara comunque di accettare la proposta della maggioranza, ma con delle riserve (cioe' dice a quali condizioni l'accetta, per esempio dichiarando il non sostegno/non impegno, oppure chiedendo una clausola/postilla, per esempio la decadenza della decisione dopo un tot di tempo per poterci ritornare, ecc. - e' la posizione che alcuni autori chiamano "stare da parte"); c) la minoranza conferma il suo disaccordo e non accetta la situazione del momento, quindi non da' il consenso, e chiede di poter sospendere per discutere ancora e trovare una migliore formulazione della decisione finale. Nel caso 'a' il consenso e' stato costruito. Nel caso 'b' la maggioranza deve dire se accetta le riserve, ovvero le condizioni poste dalla minoranza: solo allora il consenso e' fattivamente costruito. Se cio' non avvenisse, e' necessario proseguire nella gestione del disaccordo per approdare comunque a uno dei tre casi citati. Nel caso 'c' la maggioranza deve dire se accetta di sospendere la decisione per poter proseguire nel confronto come richiesto dalla minoranza, oppure deve motivare la sua determinazione a decidere in quella sede relativamente alla proposta che si sta discutendo. In questa situazione una ulteriore discussione - nei modi sopra descritti - puo' costruire il consenso portando ai casi 'a' o 'b'; altrimenti vuol dire che ci si trova di fronte a una incompatibilita' fondamentale ed e' molto probabile andare verso una separazione o scissione del gruppo (che teoricamente potrebbe essere anche consensuale e quindi costruttiva). * C) Consigli Durante questi passaggi il gruppo e/o chi facilita deve fare attenzione a verificare se le posizioni delle maggioranze e delle minoranze sono rappresentate da blocchi monolitici oppure stratificati (cio' puo' essere fatto per esempio con la tecnica degli schieramenti, o con i cartoncini colorati, o con altri metodi di sondaggio rapido). Ovviamente la dinamica non e' cosi' nitida e regolare nel suo sviluppo. Tuttavia e' possibile cogliere durante il processo di discussione i passaggi da una fase all'altra (e' l'eventuale facilitatore che deve anzitutto coglierli), e soprattutto e' possibile innescare quei passaggi quando durante la discussione ci si avvicina a quelle soglie del processo. Infatti certi passaggi non e' detto che avvengano sempre e comunque, anzi, spesso un gruppo che ha buone potenzialita' s'invischia in una fase del processo e non riesce ad uscirne costruttivamente, e allora si tratta piu' che altro di agevolare, di catalizzare il processo (e catalizzare non vuol dire forzare). I membri di un gruppo e specialmente un facilitatore devono esercitare/sviluppare la sensibilita' al processo decisionale e la capacita' di agire in modo adeguato. * 4. Partecipanti facilitatori e facilitatori partecipanti Questo scritto si fonda sulla mia esperienza di facilitatore ed e' una riflessione sull'esperienza stessa al fine di diffondere i metodi decisionali partecipativi e orientati al consenso, i quali si basano, appunto, sulla capacita' di (auto)facilitazione delle riunioni. * A) Una premessa Chi ha la funzione di facilitare un incontro dove si prendono decisioni (anche molto semplici), deve avere sufficiente sensibilita' per alcuni aspetti della dinamica dei gruppi. Cioe' deve saper cogliere e leggere cosa sta avvenendo nel gruppo quasi in ogni momento dell'incontro, intervento dopo intervento, e in particolari momenti deve sapere cosa sta avvenendo anche dentro le persone (per esempio nei momenti di disagio e tensione). Poi, oltre a saper leggere cosa succede, deve sapere cosa fare (e non fare) per "facilitare" il gruppo a svolgere il suo imprevedibile percorso che ha come obiettivo (sempre, anche se spesso il gruppo non ne e' consapevole) la presa di decisioni (laddove anche il non decidere nulla rappresenta in sostanza una decisione del gruppo). Detta cosi', la funzione di facilitare sembra roba da professionisti. E infatti io credo che lo sia: a certi livelli, e se si desiderano certi risultati col metodo del consenso, a mio avviso la facilitazione e' necessario che sia affidata a mani esperte (perche' mai un'arte cosi' complessa come il comunicare in gruppo dovrebbe essere frutto d'improvvisazione, o di istintiva conoscenza, visto che peraltro la scuola non l'insegna da nessuna parte? Naturalmente bisogna intendersi sul termine facilitazione, e questo lo vedremo tra breve). Tuttavia e' un dato di fatto che i gruppi che vogliono applicare metodi orientati al consenso possono essere in grado di autogestirsi e di migliorare molto la qualita' dei loro incontri senza ricorrere a facilitatori professionisti. Cio' puo' avvenire a condizione che il gruppo nel suo insieme (cioe' la gran parte dei suoi membri) sviluppi abbastanza quella sensibilita' sopra accennata. E se e' vero che tale sensibilita' in alcune persone la si trova come dote naturale, tutti possono accrescerla. La cosa non e' nemmeno cosi' difficile: per sviluppare una sensibilita' sufficiente a stare in un gruppo in modo facilitante, costruttivo per se' e per il gruppo (quella che io chiamo "partecipazione facilitante"), ed eventualmente per svolgere in modo specifico nel gruppo una funzione semplificata di facilitatore (quello che io chiamo "partecipante facilitatore"), non e' affatto necessaria la formazione che deve seguire chi desidera diventare professionista. Per mettere in moto un processo virtuoso di auto-apprendimento individuale e di gruppo serve un po' di buona conoscenza teorica e pratica, sostenuta da un po' di formazione-training, tenendo presente che in proposito la parte fondamentale dell'apprendimento si trova nei momenti di valutazione dell'esperienza diretta, cioe' quando al termine di un incontro ci si lascia sufficiente tempo per rivedere cosa e' successo. Insomma, letture e corsi di formazione sono praticamente indispensabili per acquisire quel minimo di conoscenze per il "fai da te", ma poi il vero apprendimento avviene prestando particolare attenzione a ogni incontro del gruppo. * B) La facilitazione dei processi decisionali partecipativi e orientati al consenso: definizione e precondizioni La facilitazione e' di norma associata ai processi decisionali partecipativi (cioe' volti a includere tutte le parti toccate da una decisione), specialme nte e obbligatoriamente se sono anche orientati al consenso (cioe' quando non e' previsto in via ordinaria il metodo della votazione e le decisioni si considerano approvate solo quando tutti acconsentono - quello che qui chiamiamo metodo del consenso). In tal senso la facilitazione consiste in un insieme di comportamenti, strumenti e tecniche che hanno lo scopo di aiutare un gruppo a prendere delle decisioni, o anche semplicemente a consultarsi, in modo efficace, cioe' costruttivo sul piano dei contenuti, soddisfacente sul piano delle relazioni, coerente con i principi ispiratori del gruppo. La facilitazione, per funzionare, non puo' mai essere imposta; deve invece essere richiesta dal gruppo o come minimo esplicitamente accettata da tutti i suoi membri. Pertanto la facilitazione e' un intervento che deve essere sempre chiaramente presentato nelle sue regole e funzioni. La facilitazione informale, attuata cioe' spontaneamente e implicitamente da alcuni membri di un gruppo, va quindi evitata (perche' produce, soprattutto a lungo andare, effetti negativi e controproducenti), o meglio, andrebbe resa esplicita e quindi valorizzata. La facilitazione in genere e' attuata da una precisa figura, il facilitatore. Puo' essere "interna" o "esterna": e' "interna" quando il facilitatore e' un membro del gruppo; e' "esterna" quando il facilitatore non fa parte del gruppo (ma gode di una certa fiducia del gruppo). A volte, nei gruppi che hanno esperienza, la facilitazione puo' essere attuata contemporaneamente da diversi membri interni al gruppo, o anche da tutti i membri se il gruppo e' piccolo, secondo modalita' concordate. La facilitazione deve tener conto di tre dimensioni: quella contenutistica, quella procedurale e quella socioaffettiva. Le tre dimensioni sono interagenti e inscindibili; tuttavia vi sono interventi piu' centrati sull'una che sulle altre. Esemplificando: - contenutistica: chi facilita interviene per verificare se le idee espresse da un membro sono state comprese dal resto del gruppo; riformula o sintetizza (su cartellone o su altro supporto visivo di gruppo), le proposte espresse; - procedurale: chi facilita richiama il gruppo ai tempi e alle fasi prestabiliti della discussione (per esempio le fasi di un Problem Solving); propone strumenti per gestire le difficolta' che sorgono durante la discussione (per esempio potrebbe proporre la suddivisione in piccoli gruppi di lavoro); verifica che il lavoro preparatorio della riunione sia svolto con criteri di trasparenza, partecipazione e completezza; durante lo svolgimento della discussione esplicita formalmente i passaggi da una fase all'altra (per esempio l'inizio e la fine di un brainstorm, o della discussione su un tema); verifica il consenso su una proposta; - socioaffettiva: chi facilita rileva e aiuta a gestire le tensioni fisiche ed emozionali (conflitti); propone strumenti per ricostruire o rafforzare il clima di fiducia all'interno del gruppo, l'attenzione, la cooperazione. * Cosa fa (e non fa) un facilitatore In sede di riunione chi facilita si occupa in genere di questi aspetti: - cura la presentazione dell'agenda (i punti da discutere e i relativi tempi); - cura o verifica che tutti abbiano (avuto) le informazioni necessarie inerenti gli obiettivi dell'incontro, il metodo di lavoro e quello decisionale; - propone e/o (ri)presenta il metodo decisionale e il relativo metodo di lavoro specifico che verra' usato nella riunione; spiega in cosa coinsiste la sua funzione di facilitatore e quali sono i suoi limiti; - applica il metodo di lavoro, cioe' gestisce i tempi di discussione e le varie fasi usando in proposito gli strumenti ritenuti piu' adatti; applica un modello di Problem Solving e un modello di gestione dei disaccordi (costruzione del consenso); - non entra mai nel merito dei contenuti (le opinioni e le proposte espresse dai partecipanti), ma solo sulla dinamica dell'ascolto e della comunicazione, e su questioni inerenti il metodo di lavoro (ovvero il metodo decisionale) che il gruppo ha adottato. In sostanza chi facilita e' focalizzato sul gruppo e sui bisogni del gruppo: aiuta il gruppo a trovare le sue soluzioni ai suoi problemi, senza portare o forzare verso le soluzioni che egli/ella riterrebbe piu' valide (ecco perche' in certe situazioni un facilitatore interno al gruppo corre grossi rischi, mentre, d'altra parte, un facilitatore esterno deve godere di una certa fiducia da parte del gruppo). In alcuni casi (e in alcuni approcci alla facilitazione) l'intervento del facilitatore puo' estendersi anche al consiglio su possibili soluzioni creative. Qualora volesse o dovesse intervenire nel merito dei contenuti (cio' accade normalmente quando si usa la facilitazione interna) dovrebbe esplicitarlo e, se necessario, farsi momentaneamente sostituire nella sua funzione da un altro membro del gruppo. * Per iniziare ad applicare consapevolmente la facilitazione Un gruppo che vuole lavorare efficacemente (decisioni chiare, condivise, creative, che costruiscono fiducia, rispetto e affetto nel gruppo), puo' passare da una improvvisata autogestione ad una autofacilitazione piu' o meno strutturata: 1) individuando una serie di regole o linee guida coerenti con i valori e i principi ispiratori del gruppo che devono essere veramente condivisi. Alcune regole fondamentali si possono reperire in tutti i manuali di comunicazione efficace (o ecologica, o nonviolenta - vedi per esempio la "Tavola dei diritti" riportata nel testo "il metodo del consenso in teoria"), ma comunque alla fine il "decalogo" deve essere espressione appassionata e convinta del gruppo. A tali regole dovranno corrispondere coerenti strumenti e tecniche per il lavoro di gruppo nelle diverse fasi, affinche' i mezzi possano contenere e percio' realizzare da subito i fini; 2) condividendo l'attenzione (sensibilita') ad alcuni aspetti della dinamica decisionale (il gruppo deve conoscere a fondo il metodo che usa); 3) trovando ordinariamente il tempo per valutare alla fine come e' andato l'incontro (si puo' fare in cinque minuti o in un'ora, dipende da quanti si e' e soprattutto da cosa si vuole ottenere con la valutazione). * Cosa vuol dire facilitare un processo decisionale Facilitare un gruppo vuol dire saperlo accompagnare durante le varie fasi dell'incontro in modo tale che ogni partecipante danzi al passo con gli altri e che il gruppo nell'insieme rispetti il tempo e l'armonia della danza. E diciamo subito che una visione dell'armonia che non includa il conflitto, ovvero che vede un'opposizione tra conflitto e armonia, e' ingenua e dannosissima (oltre a ignorare le leggi della musica, ma questo e' un altro discorso). Una buona metafora per immaginare e capire questo processo, solo parzialmente prevedibile e mai conoscibile a priori nei suoi risultati finali, e' quella di un gruppo che danza, o che suona/canta. Io preferisco l'immagine della danza perche' e' piu' dinamica e rende meglio l'idea dei movimenti, anche molto complessi, che un gruppo compie - pur stando, spesso e purtroppo, in gran parte seduto durante un incontro. Durante la danza e' necessario che ognuno partecipi in armonia col gruppo, che vada a tempo, che stia al passo. Anche se si sta dentro una cornice precisa (data dal tipo di danza), ognuno puo' esprimere la sua creativita' e godere del risultato che ottiene, risultato che e' sempre contemporaneamente personale e di gruppo. Come in un gruppo che danza (che conosce la danza che vuol fare perche' l'ha provata e studiata tante volte), cosi' un gruppo che s'incontra per prendere delle decisioni (e in pratica cio' riguarda i gruppi di qualsiasi genere) dovrebbe sapere quali sono i punti che deve discutere e come li affrontera', sapere che la discussione procedera' secondo certi tempi passando necessariamente attraverso certe fasi, fino al raggiungimento di una decisione. Una danza non si sa mai come verra' eseguita, soprattutto se contiene elementi di improvvisazione. Tuttavia, per quanto sia improvvisata, la danza segue per forza certe "regole", che sono legate al tipo di movimento, al ritmo della musica, allo spazio fisico, ecc. Un gruppo (di qualsiasi tipo), soprattutto se stabile, si trova nella sua vita ad affrontare in continuazione dei problemi e quindi a prendere decisioni. Il modo in cui lo fa puo' essere creativo o meccanico, direttivo o partecipativo, in ogni caso il processo passa attraverso determinate fasi che si svolgono gradualmente e s'incontrano sempre. Tanto per dare un'idea, semplificando, prima di prendere una decisione si analizza il problema; prima di discutere/analizzare il problema si decide quale problema affrontare per primo; prima di decidere quale punto/problema discutere bisogna decidere come si prendono le decisioni. Il fatto che un gruppo non si renda conto di passare attraverso queste fasi, puo' essere visto come un gruppo che danza in modo disarmonico, dove ognuno segue il suo ritmo interno senza preoccuparsi di accordarlo al ritmo del gruppo e della danza. La realizzazione dell'armonia non dipende solo dalle buone intenzioni, necessita anche di un'appropriata conoscenza ed esercizio. Questo vale anche per tutti i gruppi che si riuniscono con scopi diversi da quello della danza. * La magia dell'incontro: diventare sensibili alla danza Parto da alcune premesse: I. ogni intervento/comunicazione ha, sempre, quantomeno degli effetti sulla persona che lo fa, su ogni singola persona che lo riceve, sul gruppo nel suo insieme; II. e' impossibile non comunicare (cioe' non produrre quegli effetti): stare in silenzio puo' avere effetti tanto potenti quanto il parlare; III. la comunicazione non verbale gioca un ruolo di primo piano nel produrre quegli effetti; IV. sono le emozioni che determinano la comunicazione non verbale. Durante una riunione avvengono tante cose, la gran parte di esse poco visibili e in genere poco consapevoli. Tutte queste cose che avvengono possiamo chiamarle "risultati o prodotti" dell'incontro. Uno sguardo produce un effetto in chi lo riceve, e all'istante, chi ha guardato, riceve su di se' l'effetto dell'aver visto come l'altro ha reagito al suo sguardo, e cosi' via, in un gioco continuo di effetti che producono altri effetti. Alla fine di un incontro ci sembra di raccogliere certi risultati, per esempio una buona decisione, chiara, condivisa, creativa; ci sentiamo piu' vicini agli altri o ad alcuni, proviamo piu' fiducia in noi stessi e reciprocamente. Oppure tutto il contrario... Alcuni di questi risultati, sempre presenti al termine di un incontro (di qualsiasi genere esso sia), sono: 1. risultati sul piano dei contenuti (proposte o decisioni piu' o meno chiare, fattibili, creative); 2. risultati sul piano del processo decisionale (decisioni piu' o meno partecipate, condivise, capite); 3. risultati sul piano delle relazioni (aumento di stima, fiducia, rispetto tra i membri del gruppo); 4. risultati sul piano della crescita personale (aumento della fiducia/stima di se', maggiore conoscenza/competenza nell'affrontare i temi oggetto delle riunioni del gruppo); 5. risultati sul piano sociale e politico (per la legge dell'interdipendenza non c'e' crescita personale che non si ripercuota, seppur in modo complesso, sulla dimensione sociale, politica, economica: rapporto micro/macro). Per i nostri fini (un'autogestione nonviolenta delle riunioni orientata al consenso) possono essere utilissimo oggetto di attenzione e riflessione i primi tre punti. Questi "risultati", in positivo o in negativo, sembrano a volte apparire magicamente durante l'incontro o alla fine; tuttavia noi (ogni singolo partecipante) abbiamo il potere di favorire o meno le condizioni per il manifestarsi di quella magia. Il fatto di non essere consapevoli di questo potere non influisce sui suoi effetti, anzi, sembra che solo nella misura in cui ne diveniamo consapevoli possiamo cominciare a ridurre gli effetti negativi di quel potere usato in modo insensibile e ignorante. |