I movimenti per la pace devono, infatti, sforzarsi di essere sempre meno costretti ad improvvisare per reagire a singole emergenze, ed attrezzarsi invece a sviluppare idee e proposte forti, capaci di aiutare anche la prevenzione, non solo la cura di crisi e conflitti.
Il bisogno di principi saldi e di una solida visione di giustizia tra popoli e persone è grande, ed è stato avvertito recentemente forse più all'Est che in Occidente: molte volte i nostri partners nell'Europa orientale ci hanno rimproverato un certo lassismo in tema di diritti e giustizia, ed hanno, a loro volta, enfatizzato questo aspetto sino a solidarizzare - come p.es. il Presidente Havel, che ancora nell'ottobre 1990 aveva inaugurato la prima Helsinki Citizens' Assembly a Praga - con la guerra contro l'Irak, vedendovi una dolorosa necessità senza alternative credibili. Dobbiamo, dunque, preoccuparci di alternative credibili, se non vogliamo finire per arrenderci alle "guerre giuste".
Due profonde antinomie devono essere colte ed accettate come contraddizioni su cui lavorare:
- sovranità/ingerenza;
- nonviolenza/forza obbligante del diritto.
Sembrano, a prima vista, antinomie insuperabili, come del resto accade anche altre volte nel diritto internazionale: pensiamo solo alla contemporanea invocazione dell'intangibilità delle frontiere e dell'autodeterminazione dei popoli nelle conclusioni di "Helsinki I" (1975), cui oggi - non a caso - si appellano, a seconda delle necessità, i baltici e l'URSS, gli sloveni e le autorità federali della Jugoslavia e così via.
Sovranità/ingerenza
Senz'altro la sovranità degli Stati è una conquista importante, in un cammino, ma forse non proprio l'ultima e suprema tappa. Dobbiamo comprendere, che chi è arrivato tardi e male alla sovranità (come, del resto, all'industrialismo o all'armamento nucleare..), tende forse a tenerla ancora maggiormente in conto rispetto a chi oggi appare già pronto a superarla in favore di ordinamenti sovranazionali. Quindi bisognerà cercare di valorizzare la sovranità, laddove può aiutare a limitare l'arbitrio del più forte, ma al tempo stesso indicare la necessità del suo graduale superamento. In particolare ci sono due grandi questioni che non si possono arrestare alle soglie della sovranità nazionale: i diritti umani e le emergenze ambientali. In entrambi i casi sono in gioco supremi valori, un patrimonio comune a tutta l'umanità.
Ma se affermiamo un diritto-dovere all'ingerenza, per difendere i diritti umani o la salvaguardia della biosfera, ci dobbiamo riferire o all'ingerenza dei cittadini, delle organizzazioni non governative, oppure a quella degli organismi internazionali, cosa diversa dall'ingerenza di Stati sovrani nella vita di altri Stati sovrani.
Nonviolenza/esigenza di forza obbligante del diritto internazionale
Proprio se non vogliamo che vinca la legge del più forte, dobbiamo cercare sempre più efficaci misure per obbligare al rispetto del diritto chi non lo vuole fare spontaneamente. Obiettivi possibili da indicare oggi: l'esigenza di autorità "giurisdizionali" sovranazionali; la necessità di sviluppare uno strumentario di sanzioni non militari (economiche, commerciali, politiche, culturali, sportive...) che possano essere applicate da organizzazioni internazionali, da Stati, ma anche da ONG e cittadini; l'esigenza di sviluppare - semmai - delle vere azioni di polizia internazionale, che per l'appunto differiscono dagli interventi militari per la congruità dei mezzi e per l'esclusione della guerra tra Stati; forse l'individuazione di qualcosa come un'"uscita di sicurezza" internazionalmente garantita per chi voglia ritirarsi in buon ordine, dopo aver violato gravemente il diritto internazionale o interno, ma è pronto ad arrendersi senza altro spargimento di sangue (qualcosa come S. Elena per Napoleone). E chissà quante altre forme di pressione si possono ancora sviluppare, purché si abbia la pazienza - come nel caso del Sudafrica si è avuto - di attendere il tempo necessario perchè le sanzioni divengano efficaci.
Ma esistono anche strumenti che i movimenti come tali possono usare, da subito, anche oltre i tradizionali cortei o proclami, proprio per non fermarsi ad un pacifismo solo gridato. Eccone alcuni:
a) l'uso dell'informazione: "bombardare" con informazioni vere e dirette può essere molto più destabilizzante, per un regime ingiusto ed oppressivo (e magari per un regime occupante), che non dei bombardamenti armati che finiscono per compattare col proprio regime chi ne è vittima;
b) la costruzione di aggregazioni o tavoli o sodalizi inter-etnici, inter-culturali, inter-confessionali: far vedere, anche se magari tra pochi, che la conciliazione e la convivenza sono possibili, che non esistono fossati insuperabili tra popoli o etnie o gruppi politici o confessioni, ecc. Ogni messaggio che proviene da aggregazioni che hanno già saputo rompere e superare l'inimicizia apparentemente invalicabile, avrà mille volte più credibilità e darà più speranza. L'abbiamo sperimentato nel nostro piccolo, attraverso l'esperienza inter-etnica nel Sudtirolo, ce lo testimoniano esperienze come il kibbutz di Neve Shalom o le "donne in nero" che accomunano israeliane e palestinesi;
c) l'adozione o il gemellaggio nei confronti di situazioni particolari (popoli, villaggi, istituzioni, conflitti...): i "watch-groups" che seguono con dedizione - come fa "Amnesty International" con i prigionieri di coscienza - e con sapienza determinate situazioni, riuscendo a costruire intorno un coinvolgimento concreto e garantendo costante attenzione ed informazione pubblica in proposito;
d) è venuto il momento di superare i nostri unilateralismi che a volte ci hanno fatto guardare solo al sud o magari oggi rischiano di farci guardare solo all'est: ormai sarebbe bene, scegliere in ogni nostra attività di pace una costante "triangolazione tra nord/ovest, est e sud": coinvolgendo in ogni nostro impegno in favore di questa o quella situazione di conflitto o di crisi anche qualcuno del sud e qualcuno dell'est, riusciremo meglio a guardarci da insensibilità o pericoli unilateralismi che restingono magari la nostra ottica o fanno zoppicare il nostro senso di giustizia.
(Sintesi intervento di Alexander Langer)