La Nonviolenza In Cammino Numero 938 del 9 settembre 2009 Paolo Naso Ricorda Martin Luther King [Dal mensile "Jesus", n. 4, aprile 2008, col titolo "Martin Luther King. Un sogno che continua" e il sommario "Quarant'anni fa, in un hotel di Memphis, veniva ucciso Martin Luther King. Il pastore battista, teorico della nonviolenza e strenuo difensore dei diritti civili, aveva mobilitato il Paese ridandogli la speranza in una politica diversa. La stessa speranza alimentata oggi dal calvinista Barack Obama. E, come allora, l'America in coro risponde: 'Amen'".] Il 4 aprile gli americani ricorderanno il quarantesimo anniversario della morte di Martin Luther King mentre per la prima volta nella storia degli Stati Uniti un candidato nero corre con autorevolezza per la Casa Bianca. Il dato e' clamoroso perche' all'inizio della corsa per le presidenziali nessuno scommetteva che il senatore nero dell'Illinois sarebbe arrivato a competere direttamente con Hillary Clinton che per altro, ancora fino a qualche settimana fa, raccoglieva la maggioranza dei consensi della comunita' afroamericana. In pochi mesi, pero', Barack Obama e' riuscito ad annullare questo gap recuperando il sostegno di autorevoli e influenti leader del movimento per i diritti civili: da John Lewis a C. T. Vivian, da Joseph Lowery a Jesse Jackson, tutti a fianco di King in diversi momenti della sua azione politica e del suo ministero di pastore battista; ma anche prestigiosi intellettuali come Cornell West della Princeton University o la scrittrice premio Nobel Toni Morrison. Qual e' il segreto di questa rimonta? Semplice. Obama ha intuito la forza e l'attualita' del messaggio di King e ha ripreso alcuni temi della sua iniziativa politica, ne ha assunto la retorica, le metafore, la passione per le citazioni bibliche: che parli in una chiesa o in uno stadio, Barack Obama evita il linguaggio dei politici di professione, sia pure qualificati e preparati come la sua concorrente. Non insegue l'antipolitica ma piuttosto una diversa politica, che parli al cuore di gente che ha poca fiducia nelle gigantesche macchine di partito e diffida delle potenti lobby di Washington. Intendiamoci, Obama non e' un ingenuo che viene da un altro pianeta; anche lui ha una storia politica e sa bene qual e' la posta della partita che sta giocando; tuttavia la sua campagna vede una grande partecipazione popolare, punta sul cambiamento e, soprattutto, offre il sogno di un'America diversa. E cosi', fatalmente, il 4 aprile di quest'anno la memoria di tanti americani va a quarant'anni fa, quando l'omicidio di Martin Luther King spezzo' un altro sogno, quello di un'America finalmente integrata, capace di garantire ai suoi cittadini di colore gli stessi diritti e le stesse opportunita' sino ad allora riservati esclusivamente ai bianchi. Ripensare a quei giorni cosi' intensi e convulsi aiuta a capire certe dinamiche della politica americana di oggi e a individuare alcune chiavi del successo di un oscuro candidato dell'Illinois che milioni di americani, ovviamente non solo neri, sperano di vedere presto alla Casa Bianca. Quel proiettile sparato a Memphis quarant'anni fa interruppe una lunga marcia che King pianificava da mesi e che, almeno nelle intenzioni, avrebbe dovuto aprire una nuova fase di lotta sociale e politica: dopo le marce e le azioni nonviolente contro la segregazione razziale e dopo la mobilitazione per ottenere il diritto di voto - riconosciuto solo nel 1965 -, King riteneva fosse giunto il tempo di una grande iniziativa di massa contro la poverta'. "Nella contea di Whitman, in Mississippi, ho visto centinaia di bambini e bambine neri camminare per le strade senza scarpe", disse nel corso di un sermone pronunciato il 31 marzo 1968 nella cattedrale anglicana di Washington, il tempio delle grandi cerimonie dell'establishment politico e istituzionale. "Ho visto le loro madri e i loro padri che non solo erano disoccupati ma non avevano nessun tipo di reddito: nessuna pensione di vecchiaia, nessun assegno di assistenza... niente". Esperienze come questa avevano convinto King che, oltre che dalla linea del colore, gli Stati Uniti erano divisi e segregati da quella della poverta': e allora quel fronte delle coscienze che negli anni '50 e nei primi '60 aveva visto bianchi e neri marciare insieme per la desegregazione e per i diritti civili, doveva misurarsi in una nuova battaglia politica e morale contro la poverta'. L'idea era di una grande marcia su Washington, analoga a quella che nel 1963 aveva dato la spallata alle norme che escludevano dal diritto di voto milioni di cittadini afroamericani. Si colloco' in questo quadro l'interesse di King per la battaglia che da mesi conducevano i netturbini della citta' di Memphis, nel Tennessee: due di loro erano morti il primo febbraio del 1968, uccisi dagli ingranaggi di un camion per la spazzatura vecchio e difettoso. Dopo quell'incidente i milletrecento netturbini della citta' - tutti neri, sottopagati e mal tutelati - iniziarono uno sciopero per la sicurezza e per l'aumento delle retribuzioni. Gia' da tempo King denunciava il nesso tra poverta' e razzismo e gridava allo scandalo che la nazione piu' ricca e potente del mondo nascondesse angoli di poverta' e miseria. I soprusi contro i milletrecento netturbini di colore di Memphis - ai quali addirittura veniva negata la paga quando pioveva - erano il prodotto naturale dell'ordinario razzismo che ancora imperava in alcune aree del Sud. In questa fase il linguaggio di King fu piu' diretto e controverso che in passato: il sogno ottimista di un futuro migliore si confondeva con l'incubo per la residua violenza del razzismo; la fiducia nella solidita' dei principi democratici dell'America lasciava spazio alla critica del sistema di governo di quella societa'. A tratti la radicalita' dei suoi giudizi sembrava avvicinarsi a quella di Malcolm X, il leader musulmano nero ucciso nel 1965: in questa fase, meno nota e meno celebrata della sua azione, King denuncio' le "crepe sistematiche e non superficiali nella struttura del sistema americano", indisponibile a riconoscere che "il vero problema da affrontare e' la ricostruzione radicale della societa' stessa", come scrisse in Un testamento di speranza, pubblicato postumo nel 1969. Per King erano anni difficili: certamente continuava a godere di un eccezionale prestigio morale e politico ma, al di la' del giudizio sulla sua persona, vacillava la sua capacita' di tenere insieme, in una prospettiva nonviolenta, le diverse componenti del movimento per i diritti civili. Se gli studenti dei campus e i giovani dei ghetti urbani lo accusavano di moderatismo arrivando a chiamarlo "Zio Tom", ampi settori della societa' bianca gli rimproveravano di aver politicizzato il tema dei diritti civili e di averlo collegato all'opposizione alla guerra in Vietnam e alla lotta per la giustizia sociale. In questa fase King perse molti dei suoi antichi sostenitori, ritrovandosi piu' solo e piu' esposto, da una parte alla sorveglianza dell'Fbi che provava ad accusarlo di intelligenza col comunismo internazionale, e dall'altra agli attacchi della Casa Bianca che gli rimproverava la critica all'escalation militare nel Sud-est asiatico. La Marcia contro la poverta' doveva essere la replica a questi attacchi e l'occasione per uscire dal progressivo isolamento: in questo quadro il sostegno alla campagna dei netturbini di Memphis costituiva una tappa preparatoria di quel grande evento nazionale. All'inizio di febbraio, pertanto, King invio' a Memphis uno dei suoi collaboratori piu' preparati e brillanti, Jim Lawson: un giovane pastore metodista che, rifiutandosi di prestare servizio militare nella guerra di Corea, era partito missionario per l'India. Nella terra di Gandhi si era formato nelle tecniche della nonviolenza e, una volta rientrato negli Usa, King lo volle subito al suo fianco per promuovere l'azione del movimento per i diritti civili tra gli studenti. La missione di Lawson ebbe un successo solo parziale perche' lo sciopero dei netturbini si protrasse per settimane e, di fronte all'assoluta indisponibilita' alla trattativa da parte del sindaco e dell'Amministrazione della citta', la lotta si radicalizzo' e, a tratti, assunse un carattere violento. Pur essendo gia' stato a Memphis il 18 e il 28 marzo, King volle tornarvi il 3 aprile, fiducioso che un suo ulteriore intervento avrebbe indotto le autorita' locali ad aprire un tavolo di trattativa con gli scioperanti. La platea di Memphis, inoltre, gli avrebbe consentito di rilanciare il progetto della marcia a Washington "contro la poverta'". King giunse a destinazione in serata, stanco e con un po' di febbre. Il programma prevedeva un suo intervento al tempio massonico ma, per rimettersi un po' in sesto in vista degli impegni del giorno successivo, disse ai suoi collaboratori che sarebbe rimasto a riposare in albergo. Quando Ralph Abernathy, il suo braccio destro, riferi' alla platea che probabilmente King non sarebbe arrivato, si levo' un rumoroso disappunto. Inatteso, forse. Segui' una telefonata al Lorraine Hotel dove King riposava e la richiesta di fare di tutto per raggiungere la folla che lo attendeva. Giunto al tempio massonico, King fu accolto da una standing ovation e inizio' a parlare con la passione e l'efficacia di sempre. Parlo' dei netturbini e della loro determinazione, si rivolse al pubblico chiedendo sostegno alla loro mobilitazione, ricordo' altre grandi battaglie del movimento per i diritti civili: il boicottaggio degli autobus di Montgomery, le marce a Birmingham, le violenze della polizia, gli arresti, gli attentati. E ricordo' come alla fine il movimento per i diritti civili vinse quelle battaglie che hanno reso l'America migliore, battaglie necessarie "a fare dell'America quello che dovrebbe essere". Si dice che tutti i leader del movimento per i diritti civili tenessero la Costituzione degli Stati Uniti in una mano e la Bibbia nell'altra: e in effetti non c'e' discorso di King che non citi i documenti di fondazione della democrazia americana, le solenni parole della Costituzione o della Dichiarazione d'indipendenza in cui si proclamano il diritto alla vita, alla liberta' e al perseguimento della felicita'. Accadde anche la sera del 3 aprile del 1968, quando King attribui' al movimento la capacita' di riportare l'intera nazione "a quelle fonti della democrazia che erano state messe allo scoperto dai Padri fondatori". Ma, come sempre, l'ultima parola fu quella del predicatore che sentiva il peso, il rischio e forse la stanchezza della sua missione. "Abbiamo dei giorni difficili davanti a noi", concluse, "ma ora non importa. Perche' sono stato sulla cima della montagna. Come tutti vorrei vivere una lunga vita... ma questo adesso non mi interessa. Dio mi ha permesso di salire sulla montagna e di la' ho guardato. E ho visto la Terra promessa. Forse non ci arrivero' insieme a voi. Ma voglio che questa sera voi sappiate che noi, come popolo, arriveremo alla Terra promessa". King, insomma, come Mose' che dal monte Nebo vede la Terra promessa ma non riesce a raggiungerla: tali parole destarono piu' di qualche perplessita' e parecchio sconcerto. Almeno sino all'indomani mattina quando, dopo essersi affacciato al balcone del Lorraine Hotel, King fu ucciso da un colpo sparato da James Earl Ray. Dopo quarant'anni l'icona King e' ancora viva e non stupisce che venga utilizzata anche in campagna elettorale. Lo fa Hillary Clinton e ovviamente anche Barack Obama che, in varie occasioni, ha parlato di King come Giosue' alle porte della citta' di Gerico, quando al suono del corno di un ariete crollarono le possenti mura della citta'. Un racconto della Bibbia che ha ispirato uno dei canti spiritual piu' noti della tradizione musicale afroamericana che racconta la fine di un potere che appariva inviolabile. E' una grande metafora biblica della forza della giustizia di Dio che riesce ad abbattere i poteri di questo mondo. E Barack Obama ha voluto richiamarla lo scorso 20 gennaio, in un discorso tenuto nella Ebenezer Church di Atlanta, quella dove King crebbe e predico' lungamente. In quell'occasione Barack ha ripreso anche un altro tema proprio di King, quello del deficit morale della societa' americana: "Sto parlando di un deficit di empatia", ha affermato, "della nostra incapacita' di riconoscerci nell'altro; di capire che siamo i guardiani di nostro fratello e di nostra sorella, perche' siamo tutti legati in un unico destino". E' il tema, anch'esso proprio di King, della beloved community, di una comunita' riconciliata dalla logica dell'amore. Quella di Obama appare un'America spiritualmente viva e moralmente determinata, che assomiglia molto di piu' al "fronte della coscienza" costruito da Martin Luther King negli anni del movimento per i diritti civili che alla destra religiosa e ai suoi telepredicatori fondamentalisti cosi' in auge nella Casa Bianca di George W. Bush. Martin Luther King era un pastore, Obama e' un laico impegnato in una denominazione storica del protestantesimo americano, la Chiesa Unita di Cristo, costituitasi in epoca coloniale sull'onda delle migrazioni luterane e calviniste dalla Germania verso il nuovo continente. Ma il laico Obama sa parlare come un pastore e sa chiudere il suo discorso come se fosse un sermone domenicale, con un appello diretto alla coscienza e all'impegno personale: "Le mura di Gerico potranno finalmente crollare, ma solo se noi preghiamo insieme, lavoriamo insieme e marciamo insieme. Fratelli e sorelle, noi non possiamo camminare da soli. Nella lotta per la pace e la giustizia non possiamo camminare da soli. Nella lotta per le pari opportunita' e l'eguaglianza non possiamo camminare da soli. Nella lotta per guarire questa nazione e riparare questo mondo non possiamo camminare da soli". E come accadeva in tante chiese americane ai tempi di King, il popolo di Dio applaude e grida "Amen". * Postilla. Martin Luther King il puritano Su quanto, come e perche' il movimento per i diritti civili di Martin Luther King abbia cambiato la societa' e la politica americana si e' molto studiato fino a oggi: la scelta della nonviolenza come metodo, la battaglia per l'integrazione razziale, gli ideali di giustizia sociale e pace mondiale. Molto meno note, invece, sono le radici culturali e religiose a cui si ricollegano le intuizioni politiche del pastore battista afroamericano. E' questa la lacuna che viene a colmare Come una citta' sulla collina (Claudiana, nelle librerie a partire da aprile), l'ultimo libro dell'autore di questo articolo. Paolo Naso, docente di Scienza politica all'Universita' La Sapienza di Roma, indaga sui riferimenti biblico-teologici del discorso pubblico di Martin Luther King. E sostiene che il leader nero riusci' a mobilitare l'America perche' fu capace di rilanciare il "sogno" di un Paese benedetto da Dio, proprio di quella tradizione puritana che, dai Padri pellegrini in avanti, ha fatto grandi gli Stati Uniti. |