Il Messaggio di Martin Luther King di Ariel Dorfman Dal sito del quotidiano "L'Unita'" (www.unita.it) riprendiamo il seguente articolo pubblicato il 27 agosto 2003. Ariel Dorfman, scrittore e attivista per i diritti umani cileno, nato in Argentina nel 1942, narratore, saggista, poeta, drammaturgo, regista cinematografico, docente universitario, fu costretto all'esilio dopo il golpe militare del 1973; attualmente vive fra gli Stati Uniti e Santiago del Cile; dalla sua piece teatrale La morte e la fanciulla Roman Polanski ha tratto nel 1995 il film omonimo. Tra le opere di Ariel Dorfman: (con Armand Mattelart), Come leggere Paperino, Feltrinelli, Milano 1972; Verso sud guardando a nord, Guanda, 1999; La tata e l'iceberg, Il Saggiatore, Milano 2001; L'autunno del generale, Marco Tropea Editore, Milano 2003; La rivolta dei conigli magici, Mondadori, Milano 2003; La morte e la fanciulla, Einaudi, Torino 2004; The prey - La preda, Leconte, 2004; Memorie del deserto, Feltrinelli, Milano 2005; Purgatorio, Einaudi, Torino 2006. Martin Luther King, nato ad Atlanta in Georgia nel 1929, laureatosi all'Universita' di Boston nel 1954 con una tesi sul teologo Paul Tillich, lo stesso anno si stabilisce, come pastore battista, a Montgomery nell'Alabama. Dal 1955 (il primo dicembre accade la vicenda di Rosa Parks) guida la lotta nonviolenta contro la discriminazione razziale, intervenendo in varie parti degli Usa. Premio Nobel per la pace nel 1964, piu' volte oggetto di attentati e repressione, muore assassinato nel 1968. Opere di Martin Luther King: tra i testi piu' noti: La forza di amare, Sei, Torino 1967, 1994 (edizione italiana curata da Ernesto Balducci); Lettera dal carcere di Birmingham - Pellegrinaggio alla nonviolenza, Movimento Nonviolento, Verona 1993; L'"altro" Martin Luther King, Claudiana, Torino 1993 (antologia a cura di Paolo Naso); "I have a dream", Mondadori, Milano 2001; cfr. anche: Marcia verso la liberta', Ando', Palermo 1968; Lettera dal carcere, La Locusta, Vicenza 1968; Il fronte della coscienza, Sei, Torino 1968; Perche' non possiamo aspettare, Ando', Palermo 1970; Dove stiamo andando, verso il caos o la comunita'?, Sei, Torino 1970. Presso la University of California Press, e' in via di pubblicazione l'intera raccolta degli scritti di Martin Luther King, a cura di Clayborne Carson (che lavora alla Stanford University). Sono usciti sinora cinque volumi (di quattordici previsti): 1. Called to Serve (January 1929 - June 1951); 2. Rediscovering Precious Values (July 1951 - November 1955); 3. Birth of a New Age (December 1955 - December 1956); 4. Symbol of the Movement (January 1957 - December 1958); 5. Threshold of a New Decade (January 1959 - December 1960); ulteriori informazioni nel sito: www.stanford.edu/group/King/ Opere su Martin Luther King: Arnulf Zitelmann, Non mi piegherete. Vita di Martin Luther King, Feltrinelli, Milano 1996; Sandra Cavallucci, Martin Luther King, Mondadori, Milano 2004. Esistono altri testi in italiano (ad esempio Hubert Gerbeau, Martin Luther King, Cittadella, Assisi 1973), ma quelli a nostra conoscenza sono perlopiu' di non particolare valore: sarebbe invece assai necessario uno studio critico approfondito della figura, della riflessione e dell'azione di Martin Luther King (anche contestualizzandole e confrontandole con altre contemporanee personalita', riflessioni ed esperienze di resistenza antirazzista in America). Una introduzione sintetica e' in "Azione nonviolenta" dell'aprile 1998 (alle pp. 3-9), con una buona bibliografia essenziale Lontano, ero lontano da Washington in quel caldo giorno dell'agosto del 1963 nel quale dalle scale del Lincoln Memorial Martin Luther King pronuncio' il suo famoso discorso, ero lontano, mi trovavo in Cile. All'epoca avevo ventuno anni e, come molti altri della mia generazione, ero preso dalla lotta per liberare l'America Latina, e il discorso di King che avrebbe esercitato una profonda influenza sulla mia vita passo' inosservato, non ricordo nemmeno di essermene accorto. Ricordo invece con feroce precisione il luogo e la data e persino l'ora in cui molti anni dopo ebbi l'occasione di ascoltare per la prima volta quelle parole "ho un sogno", di udire quella melodiosa voce baritonale, quegli incantamenti, quella certezza emotiva della vittoria. E ricordo quell'occasione cosi' chiaramente perche' era il giorno dell'omicidio di Martin Luther King, il 4 aprile 1968, e da quel giorno il suo sogno e la sua morte sono rimasti dolorosamente collegati, uniti nella mia mente allora come oggi, a quaranta anni di distanza, nel mio ricordo. Ricordo che me ne stavo seduto con mia moglie Angelica e il nostro figlioletto di un anno, Rodrigo, in un soggiorno sulle colline di Berkeley, la cittadina universitaria della California, dove eravamo arrivati appena una settimana prima. I nostri ospiti, una famiglia americana che ci aveva generosamente offerto un alloggio temporaneo mentre il nostro appartamento veniva sistemato, avevano acceso il televisore e tutti solennemente guardavamo il telegiornale della sera, probabilmente quello delle 19, probabilmente Walter Cronkite. Ed ecco l'omicidio di Martin Luther King in quell'albergo di Memphis e poi i servizi sui disordini in tutta l'America e finalmente un lungo filmato sul suo discorso "ho un sogno". Fu solo allora, penso, che capii o mi resi conto o cominciai a capire chi era stato Martin Luther King, cosa avevamo perso con la sua morte, la leggenda che gia' si andava dipanando dinanzi ai miei occhi. Negli anni a venire sarei spesso ritornato su quel discorso e in ogni occasione dalla montagna dei suo significati avrei staccato una roccia diversa sulla quale salire per capire il mondo. Al di la' del mio stupore per l'eloquenza di King quando nel 1968 lo ascoltai per la prima volta, la mia reazione immediata non fu quella di essere ispirato bensi' di essere lucido, sconcertato, prossimo alla disperazione. Dopo tutto, all'uccisione di questo uomo di pace si rispose non impegnandosi a proseguire nel solco della sua predicazione, ma con furiosi tumulti nei quartieri dell'America nera, dell'America privata dei diritti civili che vendicava il suo leader morto bruciando i ghetti nei quali si sentiva imprigionata e impoverita, usando il fuoco questa volta per proclamare che la nonviolenza che King aveva auspicato era inutile, che il solo modo per porre fine all'ingiustizia in questo mondo era con la canna del fucile, il solo modo per attirare l'attenzione dei potenti era spaventandoli a morte. L'omicidio di King quindi fece riemergere brutalmente una volta ancora un interrogativo che aveva tormentato me e moltissimi altri attivisti sul finire degli anni '60: quale era il metodo migliore per conseguire un cambiamento radicale? Potevamo concepire una ribellione nel modo in cui l'aveva immaginata Martin Luther King senza abbeverarci alla coppa dell'amarezza e dell'odio, senza trattare i nostri avversari come essi trattavano noi? O forse la strada verso il palazzo della giustizia e il giorno luminoso della fratellanza vuole come inevitabile compagna la violenza, la violenza come inevitabile levatrice della rivoluzione? * Domande alle quali, tornato in Cile, sarei ben presto stato costretto a rispondere, non con confuse riflessioni teoriche, ma nella quotidiana realta' della storia quando Salvador Allende venne eletto presidente nel 1970 e divenimmo il primo paese che tentava di costruire il socialismo con mezzi pacifici. La visione di Allende del cambiamento sociale, elaborata nell'arco di decenni di lotte e riflessioni, era analoga a quella di King pur avendo i due origini culturali e politiche molto diverse. Allende, ad esempio, che non era affatto religioso, non avrebbe convenuto con l'affermazione di Martin Luther King che alla forza fisica bisogna rispondere solo con la forza d'animo, ma avrebbe preferito parlare di forza dell'organizzazione sociale. In un momento in cui molti in America Latina erano abbagliati dalla lotta armata proposta da Fidel Castro e Che Guevara, fu la straordinaria impresa di Allende ad immaginare come inestricabilmente connesse le due ricerche della nostra epoca, la ricerca di piu' democrazia e di piu' diritti civili, da un lato, e la ricerca parallela, dall'altro, di giustizia sociale e di potere economico per i diseredati della terra. E il destino di Allende avrebbe richiamato il destino di Martin Luther King quando Allende scelse di morire tre anni dopo. Si', l'11 settembre 1973, a quasi dieci anni dal discorso "ho un sogno" di King a Washington, Allende scelse di morire difendendo il suo sogno, promettendoci nel suo ultimo discorso che piu' presto che tardi, mas semprano que tarde, sarebbe arrivato il giorno in cui le donne e gli uomini liberi del Cile avrebbero camminato per las amplias alamedas, i grandi viali pieni di alberi, verso una societa' migliore. * Fu nel periodo immediatamente successivo a quella terribile sconfitta, mentre osservavamo i potenti del Cile imporre a noi il terrore che non avevamo voluto impiegare contro di loro, fu allora, mentre alla nostra nonviolenza si contrapponevano le esecuzioni, la tortura e le sparizioni, fu solo allora, dopo il colpo di stato militare del 1973, che cominciai per la prima volta a sentirmi in comunione con Martin Luther King, che il suo discorso sulle scale del Lincoln Memorial prese a perseguitarmi e a pormi delle domande. Era come se fossi andato in un esilio che sarebbe durato molti anni e la voce e il messaggio di King cominciarono a penetrare pienamente, parola per parola, nella mia vita. Se mai c'e' stata una situazione in cui la violenza sarebbe stata giustificata, sarebbe stato, dopo tutto, contro la giunta cilena. Pinochet e i suoi generali avevano rovesciato un governo costituzionale e uccidevano e perseguitavano cittadini il cui peccato mortale era stato quello di immaginare un mondo dove non e' necessario massacrare i propri avversari per consentire alle acque della giustizia di scorrere. Eppure molto saggiamente, quasi istintivamente, la resistenza cilena imbocco' una strada diversa: assumere lentamente, risolutamente, pericolosamente il controllo della superficie del paese, isolare la dittatura all'interno e all'esterno del Cile, rendere il Cile ingovernabile con la disobbedienza civile. Una linea non completamente diversa dalla strategia che il movimento dei diritti civili aveva abbracciato negli Stati Uniti. * Ed infatti non mi sono mai sentito piu' vicino a Martin Luther King quanto durante i diciassette anni che ci vollero per liberare il Cile dalla sua dittatura. Le sue parole ai militanti che si accalcarono a Washington nel 1963 e che li invitavano a non perdere la fede, risuonavano dentro di me, confortavano il mio cuore triste. Parlava profeticamente a me, a noi, quando disse: "Non dimentico che alcuni di voi sono giunti qui dopo grandi prove e tribolazioni. Alcuni di voi sono venuti appena usciti dalle anguste celle di un carcere". Parlando a noi il dottor King parlava a me quando tuonava: "Alcuni di voi sono venuti da zone in cui la domanda di liberta' vi ha lasciato percossi dalle tempeste della persecuzione e intontiti dalle raffiche della brutalita' della polizia. Siete voi i veterani della sofferenza creativa". Capiva che piu' difficile di andare alla prima protesta era svegliarsi il giorno dopo e andare alla protesta successiva e poi ancora a quella dopo, il quotidiano macinare piccoli atti che possono portare a grandi e letali conseguenze. I cani e gli sceriffi dell'Alabama e del Mississippi erano vivi e vegeti nelle strade di Santiago e Valparaiso cosi' come lo spirito che aveva incoraggiato uomini e donne e bambini inermi a farsi falciare, percuotere, bombardare, perseguitare continuando ad opporsi agli oppressori con le sole armi disponibili: la sofferenza dei loro corpi e la convinzione che nulla poteva farli indietreggiare. E proprio come i neri negli Stati Uniti, anche in Cile cantavamo per le strade delle citta' che ci erano state rubate. Non gli spiritual in quanto ogni terra ha i suoi canti. In Cile non facevamo che cantare l'Inno alla Gioia dalla Nona sinfonia di Beethoven, la speranza che sarebbe arrivato un giorno in cui tutti gli uomini sarebbero stati fratelli. Perche' cantavamo? Per farci coraggio, naturalmente. Ma non solo per questo, non solo per questo. In Cile cantavamo e ci opponevamo agli idranti e ai gas lacrimogeni e ai manganelli perche' sapevamo che c'era chi stava guardando. Anche in questo seguivamo gli insegnamenti astuti, consapevoli dell'importanza dei media di Martin Luther King: che lo scontro impari tra lo Stato di polizia e la gente aveva dei testimoni, veniva fotografato, trasmesso ad altri occhi. Nel caso del profondo sud degli Stati Uniti, gli spettatori erano la maggioranza degli americani, mentre in quell'altra lotta anni dopo, nel profondo sud del Cile, il quotidiano spettacolo di uomini e donne pacifici contro i quali veniva esercitata la repressione ad opera degli agenti del terrore aveva per obiettivo le forze nazionali e internazionali di cui avevano bisogno per sopravvivere Pinochet e la sua dittatura. La tattica funziono', naturalmente, perche' capimmo, come gia' Martin Luther King e Gandhi prima di noi, che i nostri avversari potevano essere influenzati e svergognati dall'opinione pubblica, potevano in realta' essere persino costretti ad abbandonare il potere. Cosi' fu sconfitta la segregazione nel sud degli Stati Uniti, cosi' il popolo cileno sconfisse Pinochet con un plebiscito nel 1988 che porto' alla democrazia nel 1990, questa e' la storia della caduta delle tirannie in Iran e in Polonia e nelle Filippine. Nondimeno analoghe lotte di liberazione contro il regime dell'apartheid in Sud Africa o l'autocrazia omicida in Nicaragua o i sanguinari Khmer rossi in Cambogia hanno dimostrato che le parole premonitrici di King sulla nonviolenza non potevano essere meccanicamente applicate ad ogni situazione. * E oggi? Quando torno a quel discorso che sentii per la prima volta venticinque anni fa, il giorno in cui King mori', c'e' un messaggio per me, per noi, qualcosa che abbiamo bisogno di ascoltare ancora come se udissimo quelle parole per la prima volta? Cosa direbbe Martin Luther King se vedesse cosa e' diventato il suo paese? Se potesse vedere come il terrore e la morte abbattutisi su New York e Washington l'11 settembre 2001 hanno trasformato la sua gente in una nazione spaventata, pronta a smettere di sognare, pronta a sacrificare le sue liberta' sull'altare della sicurezza? Cosa direbbe se potesse osservare come quella paura e' stata manipolata per giustificare l'invasione di una terra straniera, l'occupazione di una terra contro la volonta' del suo stesso popolo? Quale alternativa avrebbe consigliato per liberarsi di un tiranno come Saddam Hussein? E come reagirebbe alla dottrina Bush che afferma che alcune persone di questo pianeta, gli americani per essere precisi, hanno piu' diritti degli altri cittadini del mondo, cosa direbbe se vedesse i suoi concittadini proclamare che a causa del loro dolore e della loro potenza economia e militare possono fare cio' che vogliono, infischiarsene del diritto internazionale, denunciare i trattati nucleari, ingannare e inquinare il mondo? Li ammonirebbe che questa arroganza non puo' restare impunita? A quanti si oppongono a queste politiche all'interno degli Stati Uniti direbbe di resistere e di contarsi, di marciare, di non lasciarsi mai andare alla disperazione? Sono convinto che ripeterebbe alcune delle parole pronunciate in quel lontano giorno d'agosto del 1963 all'ombra della statua di Abraham Lincoln, sono persuaso che ribadirebbe la sua fede nel suo paese e quanto profondamente il suo sogno e' radicato nel sogno americano, che a dispetto delle difficolta' e delle frustrazioni del momento il suo sogno e' ancora vivo e che il suo paese risorgera' e terra' fede all'autentico significato del suo credo: "crediamo che queste verita' siano evidenti: che tutti gli uomini sono creati uguali". Speriamo che abbia ragione. Speriamo e preghiamo, per il suo e il nostro bene, che la fede nel suo paese non era malriposta e che a quaranta anni di distanza i suoi compatrioti presteranno ancora una volta ascolto alla sua voce decisa e gentile che li invoca da oltre la morte e da oltre la paura, che chiama noi tutti a batterci uniti per la liberta' e la giustizia. |